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Due partiti contrapposti

di Sergio Romano - 02/10/2009

Due partiti contrapposti

Esistono problemi na­zionali e internazio­nali da cui dipende la vita degli italiani e dei loro figli. Le elezioni te­desche, il referendum irlande­se, il mercato dell’energia, la difesa dell’ambiente, la co­struzione della Tav, il rappor­to fra le banche e le imprese, la crisi del latte e la politica agricola comune, le esporta­zioni e l’occupazione, il pas­saggio dal G8 al G20, la guer­ra in Afghanistan, la politica economica e monetaria del governo cinese sono questio­ni, cito alla rinfusa, che ci con­cernono.

Occorre che l’Italia sappia come affrontarle e che la sua linea venga adottata dopo un confronto di idee e proposte tra il governo e l’opposizione. Ma questo confronto non c’è o si svolge solo occasional­mente tra poche persone di buona volontà ai margini di una scena pressoché intera­mente occupata da un ininter­rotto cabaret politico con un copione di lazzi, insulti, pette­golezzi, storie lascive, accuse sanguinose e querele. Si di­rebbe che una parte dell’Italia abbia smarrito il senso della realtà e preferisca lo spettaco­lo di una guerra civile mediati­ca alla soluzione dei suoi pro­blemi. Cerco di spiegare (a me stesso anzitutto) i motivi di questo fenomeno.

Penso che buona parte del­l’opposizione non creda nel­l’utilità di fare dell’anti berlu­sconismo la sua principale li­nea politica e abbia voglia di tornare al suo mestiere. Ma at­traversa una difficile crisi, for­se salutare, ed è pressoché in­teramente assorbita dalla so­luzione dei suoi problemi in­terni. In questo vuoto la ban­diera dell’opposizione è passa­ta nelle mani di qualche parti­to- giornale, di qualche tribu­no della plebe, di alcuni prota­gonisti dello spettacolo e del­l’informazione che hanno as­sunto questo compito, occor­re riconoscerlo, con uno stra­ordinario brio professionale. Peccato che questi oppositori non si propongano di gover­nare e non abbiano quindi l’obbligo di disegnare il futu­ro del Paese. Il loro obiettivo è la visibilità, la notorietà, il cerchio del riflettore, l’occu­pazione dello spazio scenico. Ne hanno il diritto natural­mente, e se questo diritto fos­se minacciato avremmo, para­frasando Voltaire, il dovere di difenderli. Ma viene voglia di pensare, maliziosamente, che nulla li rattristerebbe quanto l’improvvisa scomparsa del «nemico».

Dall’altra parte, natural­mente, si risponde allo stesso modo con professionisti del giornalismo-spettacolo altret­tanto briosi. Il premier, che deve imparare a rispettare di più la pluralità dell’informa­zione in tv e sui giornali, occu­pa continuamente la scena con una difesa che sembra fat­ta apposta per alimentare le battaglie dell’accusa. Le sue querele contro la stampa e le sue bordate contro i giornali­sti «farabutti» sono nella cul­tura democratica europea un’anomalia e nuocciono alla sua immagine ma lui non sembra preoccuparsene. È convinto (e forse, purtroppo, non ha torto) che gli attacchi gli siano utili perché gli con­sentono di trasformare l’inte­ra politica nazionale in una continua battaglia sulla sua persona. Gli italiani, anche quando vorrebbero occuparsi di altre cose, sono finiti fra due contendenti che si dete­stano ma giocano una partita in cui ciascuno dei due ha bi­sogno dell’altro. Con due ri­sultati. In primo luogo l’Italia sta rapidamente perdendo credito agli occhi del mondo. In secondo luogo parla di tut­to fuorché di se stessa e dei suoi problemi.