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Videodrome e l'interfaccia del futuro

di Martina Fuscaldo - 11/10/2009


La vecchia carne del cinema sta mutando e assumendo nuovi tessuti: il corpo della settima arte sta incontrando un numero sempre maggiore di facce nuove. Cosa succede nel ventunesimo secolo all’interfaccia cinematografica più famosa del mondo? Come si è modificata la cornice rettangolare con le nuove tecnologie? Cos’è accaduto allo schermo da noi tutti conosciuto e alla sua consueta interazione con lo spettatore?
Fin dai tempi remoti narratore e pubblico hanno sempre interagito, attraverso quell’interfaccia nota a tutti che è il corpo umano.
Gli attori di teatro e dei bardi medioevali hanno fatto dell’interazione col pubblico una metodologia per instaurare un contesto drammaturgico interazionale.
Con l’avvento dei media per registrare e fissare le storie questo tipo d’interazione è venuta a mancare, in quanto l’artista non è più presente come di consueto di fronte al pubblico.
Barbeni racconta nel suo libro che la carta, la pellicola e il nastro magnetico sono tecnologie rigide, che non permettono l’instaurarsi di un’interazione tra il creatore e il suo pubblico. Con l’arrivo del digitale e internet, la drammaturgia è tornata ad essere flessibile e interattiva. Le interfacce ora interagiscono con gli utenti. I dati possono avere molte forme mentre prima erano limitate ad un unico formato.
Nell’antichità vi erano le convenzioni del corpo umano a definire l’interazione del pubblico con la trama. Grazie alla fissità dei materiali analogici, la trama è diventata limpida e lineare.
Con i media digitali le storie tornano ad esser discontinue. La trama, dopo esser stata interrelazionale e poi fissa, ora è diventata interrativa[1]. Anche se le storie hanno mantenuto gli stessi elementi narrativi, nuove e ibride tecnologie hanno ridefinito il tipo di racconto. Non essendo presente fisicamente un attore, l’autore demanda a degli algoritmi, per loro stessa natura interattivi, la gestione del rapporto con l’utente.
Il network ci ha portati da una forma della storia stazionaria e passiva a una mobile e disseminata. Le narrazioni lineari cominciano ad esser costituite da storie interattive, anche se un basso livello di interattività iniziale è stato sostituito ormai da una narrazione collettiva. Il webcinema, nell’ambito cinematico, costituisce il legame visuale e narrativo tra la narrazione statica e i modelli pensati per gli schermi digitali[2]. Per la prima volta senza la necessità della presenza fisica dell’attore o dell’autore, i progetti del nuovo cinema sono in grado di mutare l’interazione del corpo fisico con l’interattività di un’interfaccia grafica. Grazie agli applicativi digitali è come se l’artista e il pubblico recuperassero una partecipazione che era stata persa nella drammaturgia lineare. La possibilità di vedere fisicamente il pubblico permetteva all’artista di modulare la propria performance sulla tipologia di audience che si trova davanti.
Per il mondo digitale, l’interazione non è più il tipo di dialogo che si può avere tra due persone fisicamente presenti in uno stesso luogo. Dove finisce il corpo arriva l’interfaccia grafica: il primo vive nel momento della compresenza tra autore e spettatore in uno stesso luogo fisico, attraverso la voce e il corpo, la seconda esiste nel contesto condiviso di un monitor connesso a internet.
Con questo tipo di opere l’autore, oltre a demandare al linguaggio binario la sua storia, è in grado di mutare la sua potenziale interazione con il pubblico.
Nel caso del webcinema l’interattività è vista come l’interazione potenziale dell’autore attraverso un supporto immateriale, mentre nel caso delle installazioni interrative la base è materiale.
La performità dell’attore oggi viene portata sull’interfaccia grafica. Questa nuova interfaccia è il recente surrogato dell’attore. A questo punto, è importante creare differenti trame da instaurare tra la storia e gli spettatori che ormai sono diventati utenti[3].
L’interfaccia tradizionale del cinema ha da sempre costituito il massimo livello di immersività, con un ambiente totalmente buio, dove l’unica fonte di luce che attrae la nostra attenzione è l’immagine stessa. Al cinema siamo soli davanti all’immagine. Le interfacce audiovisuali non sono strutturate su parametri funzionali, quanto emotivi e spettacolari; queste storie coniugano la rottura dell’unità spazio/tempo delle avanguardie dei primi del Novecento con l’abolizione della quarta parete del teatro sperimentale. Tali vicende mettono in scena su un palcoscenico-schermo delle narrazioni interattive che rispecchiano le caratteristiche del medium che le ospita.
È interessante notare che il percorso delle attuali interfacce testimonia un passaggio da un’interfaccia come strumento a uno che la integra all’ambiente della fruizione[4].
Diversamente dai vecchi media, in cui l’ordine di rappresentazione è fisso, oggi l’utente può interagire con un oggetto mediale. Grazie all’interazione dei nuovi media, l’utente può scegliere gli elementi da visualizzare o i percorsi da seguire.
Questa caratteristica di interattività permette all’utente di controllare il proprio media in tempo reale manipolando le informazioni che appaiono sullo schermo. Nel momento stesso in cui un oggetto viene rappresentato al computer diventa automaticamente interattivo.
Secondo Manovich, l’interattività si basa su un menù che comprende simulazione e interfaccia-immagini funzionali per descrivere le diverse tipologie di operazioni interattive[5]. Nonostante sia relativamente facile specificare le diverse strutture usate nei nuovi oggetti mediali, l’interattività rimane una delle questioni più complesse sollevate dai nuovi media.
In realtà per molti aspetti, tutta l’arte classica e ancor più l’arte moderna si basa sull’interattività. L’ellisse narrativa, l’omissione di dettagli nelle opere figurative costringono l’utente a cercare di ricostruire le informazioni mancanti. Anche il teatro e la pittura si affidano a tecniche di composizione per guidare nel tempo l’attenzione dello spettatore in modo da indurla a concentrarsi su diverse parti dell’opera[6]. A cominciare dagli anni Venti, nuove tecniche narrative obbligarono il pubblico a colmare mentalmente il vuoto tra immagini scollegate. I media moderni e l’arte moderna hanno affinato le tecniche gravando lo spettatore di nuove pressioni cognitive.
Il cinema portava lo spettatore a spostare l’attenzione da una parte all’altra di una stessa inquadratura. Lo stile rappresentativo richiedeva che lo spettatore ricostruisse gli oggetti mostrati partendo dal minimo indispensabile: contorni, macchie di colore e ombre[7]. Alcune nuove forme d’arte trasformarono quest’ultima in una forma di espressione esplicitamente partecipativa. Tale cambiamento preparò il terreno per le installazioni apparse poi negli anni Ottanta.
L’interazione oggi invece è quella che si crea tra l’utente e l’oggetto mediale. I processi psicologici della formazione di un’ipotesi, del ricordo e dell’identificazione vengono identificati con una struttura di link operativi. Il concetto di interratività è tuttavia solo l’esempio di una recente tendenza a rappresentare la vita mentale: un’evoluzione nel quale le tecnologie mediali hanno giocato un ruolo chiave.
La realtà è diventata ormai un’immagine fittizia soggiogata alla televisione e ai nuovi media.
L’interfaccia tecnica odierna perde completamente d’importanza e diventa invisibile nonostante pervada l’ambiente. Interfacce biologiche emergono sempre più e la relazione non è più con un oggetto fisico quanto con materia vivente, a testimonianza del progressivo controllo che la tecnologia digitale sta avendo sull’ambiente che ci circonda[8].
In Videodrome, lo sguardo di Cronenberg sarebbe da definirsi come un presagio ante litteram sul mondo mass-mediale odierno. Videodrome è la prima fase di un’evoluzione che ci porterà ad una progressiva compenetrazione con l’interfaccia digitale e la tecnologia del futuro. Nel film, Max Renn arriva ad interagire “internamente” col segnale telematico e grazie ad un particolare visore aumenta sempre più la sua immersività in Videodrome. Tra l’utente Max e il suo oggetto mediale Videodrome si viene a creare una perfetta interazione.
Lo schermo contemporaneo presenta allo spettatore una vicenda avvincente che lo obbliga ad agire e fare delle scelte. L’utente contemporaneo è costretto ad oscillare tra il ruolo di spettatore e quello di fruitore, passando dalla percezione all’azione, dalla visione della vicenda alla partecipazione attiva[9], in una fusione sempre più radicata. Max interagisce di continuo con la nuova cornice creata da Videodrome: quello che vede sullo schermo televisivo è più reale di quello che vede nella vita vera. Max Renn si perde nella rete rizomatica di Videodrome, diventando il servo meccanico del segnale. Con il suo Videodrome, Cronenberg ha presentato una malinconica e furente radiografia di un mondo che sembra condannato a vivere nella forma dell’allucinazione, in cui gli individui sembrano programmabili come un apparecchio di videoregistrazione[10]. Questo film è esemplificativo perché antesignano di quel modo di trattare la materia filmica che caratterizzerà i decenni successivi.
Lanier ritiene che la realtà virtuale può controllare la memoria umana e può aprire la strada all’era della comunicazione post-simbolica, priva di linguaggio o di qualunque altro simbolo[11].
Videodrome è la tragedia dell’alterazione del principio di realtà. L’autore riesce a rendere questa sensazione di totale manipolazione, evitando di formulare in maniera lineare l’idea di partenza del film, seminando lungo tutto l’arco della vicenda indizi e tracce da riunire poi nel disarmante finale.
Il regista contestualizza diverse possibilità di espressione. Cronenberg parte dal presupposto che lo schermo televisivo è l’unico vero occhio umano. Di conseguenza esso fa parte della struttura fisica del cervello dell’uomo. La mente rappresentata da Cronenberg risulta facilmente manipolabile attraverso le immagini presentate.
Sfruttando gli effetti dell’esposizione alla violenza sul sistema nervoso, nella testa di Max si apre una via attraverso il quale penetra il segnale Videodrome. Questo semina un tumore talmente forte da conformarsi come un organo che diventa parte integrante del cervello di Max. A causa del nuovo organo nascono allucinazioni così realistiche da sembrare reali e da sostituirsi infine alla realtà stessa.
A partire da questa idea così articolata, Cronenberg mette in scena un incubo biotecnologico che dà forma al paesaggio massmediale.
In Videodrome, il crollo della linea di demarcazione tra paesaggio interno e esterno ha la sua causa scatenante nell’attestazione dell’assurdità  dei media.
La televisione è il grande buco nero in cui precipitano e si muovono le tragedie moderne. Lo shock delle immagini porta alla dissoluzione della coscienza del corpo reale. Il regista canadese in Videodrome dà anche corpo ad una delle ipotesi più inquietanti di Burroughs: l’attivazione di processi virali tramite codici scomposti che vengono decifrati dal corpo di chi è esposto al messaggio. Carne che si innesta nel corpo facendolo diventare qualcosa di nuovo. Cronenberg mette in scena la più violenta mutazione antropologica cui il cinema abbia mai dato vita. Per lui l’esistenza è un videogame biologico. Secondo Ballard, ulteriore ispiratore del regista e dei suoi film, l’uomo è lo specchio di una trasformazione in atto, il suo corpo avverte la necessità di ibridarsi con la meccanica per piacere, per sopravvivenza e per necessità evolutiva.
Androidi, replicanti, cyborg e robot possono essere considerati come il simbolo di una nuova contaminazione. L’uomo contemporaneo sembra aver scelto il contagio con la tecnologia per creare una nuova essenza[12].
Cronenberg attraversa l’ossessione del mentale: i suoi film mettono in scena l’alterazione prodotta da un contagio in un processo di corporeità sfuggita completamente al controllo della mente. Con Videodrome il regista ha voluto suggerire la possibilità che in un uomo si possa innescare una sorta di cancro creativo che si contrae dai media e trasforma il corpo in uno strumento controllabile. In Videodrome c’è una mutazione, un progressivo dominio delle macchine che si unisce all’uomo: un insieme di processi organici che avvengono al confine dell’interfaccia umano/postumano.
Cronenberg spinge la compenetrazione fino alla fusione della dimensione organica con quella inorganica. Gli stessi individui possono essere manipolati geneticamente per farli funzionare come televisori creatori di simulacri di realtà. Max Renn diventerà l’incarnazione del videoverbo. Cronenberg crea la trasmutazione elettronica: ciò che il regista suggerisce nel suo film è che la nostra mente non è più sufficiente a contrastare l’era del mass-media[13].
Videodrome è un allucinante viaggio nel metamorfico mondo onirico di Cronenberg in cui protagonista è l’identità mutante. La realtà mediatico-catodica è un potere che controlla, che annienta le coscienze, che cresce a dismisura con l’aumentare dei messaggi introiettati attraverso il mezzo televisivo. Cronenberg sembrava aver già capito lo sconcertante futuro dell’Occidente. Videodrome appare infatti come la forma cristallizzata di un’attenta osservazione degli eventi dati da minime cause e squassanti effetti. Il suo film è un’unica grande metafora del controllo esercitato dal mondo mass-mediale sulla persona. La sua è una disincantata previsione di ciò che questo potere causerà agli uomini isolati in luoghi reconditi[14].   
Con Videodrome,  Cronemberg fa corrispondere ad una realtà virtuale una nuova oggettività in cui non c’è più demarcazione tra reale e virtuale. Il regista canadese realizza il primo film d’avverntura che sperimenti “l’incorporea esultanza del cyberspazio”[15]. Questo film è forse l’affermazione definitiva del cosmo di Cronenberg: un puzzle labirintico, incredibilmente complesso e composto da differenti connessioni. Videodrome è la narrazione del mezzo di comunicazione visuale ridotta a superficie allucinatoria che riflette realtà distorte. Il testo si nega e smentisce la possibilità di distinguere il piano della realtà da quello dell’allucinazione.
La realtà di Max Renn è già una video-allucinazione che ingloba la sua mente. La televisione è il mezzo ipnotizzatore che comporta un’esplosione catodica e la sua progressiva proprietà manipolatrice. Videodrome è la trasmissione di un segnale, uno dei tanti segnali televisivi socialmente pericolosi e un input subliminale il cui scopo è incidere direttamente sul sistema nervoso e interagire con esso.
L’uomo mediale è diventato una sintesi biomeccanica, una video parola fatta carne che interagisce solo nell’iperrealtà monitorizzata. Il protagonista dei media contemporanei vive un processo di destrutturazione e ristrutturazione del reale che diventa una perfetta ibridazione tra organico e inorganico.
Quello che il presente ci prospetta è una realtà di contaminazioni. Cronenberg e l’entità videodromatica hanno presupposto una corporeizzazione tecnologica che vive il passaggio da una realtà obsoleta a una in fibrillante metamorfosi[16], proprio come è accaduto all’interfaccia dei media più famosi del ventesimo secolo.

NOTE
[1] Barbeni L., Webcinema, l’immagine cibernetica, Milano, Costa&Nolan, 2006, p. 49-51.
[2] Ivi, op. cit. p. 7-9.
[3] Barbeni L., op. cit. p.27-28.
[4] Ivi, p.54-55.
[5] Manovich L., Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Edizioni Olivares, 2005, p. 80. 
[6] Ibid.
[7] Manovich L., op. cit. p. 81.
[8] Barbeni L., op. cit. p. 55.
[9] Manovich L., op. cit. p. 261-262.
[10] Canova G., David Cronenberg, Il Castoro-cinema, Milano, 2000, p. 55.
[11] Manovich L., op. cit. p. 83.
[12] Alfano Miglietti F., Identità mutanti, dalla piega alla piaga:esseri delle contaminazioni contemporanee, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2004, p. 14, 22.
[13] Nazzaro G.A., Videodrome, Reggio Emilia, Cinemasessanta n. 4- Archivio schede, 1993, p. 1.
[14] Ticchi D., Videodrome,la video-parola che si scopre carne, www.cinemavvenire.it, 2005.
[15] Canosa M.(a cura di), La bellezza interiore, il cinema di David Cronenberg, Recco, Le Mani, 1995, p. 49.
[16] Macrì T., Il corpo postorganico, sconfinamenti della performance, Milano, Costa&Nolan, 1996, p. 7.