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Perché tante parole inglesi in bocca a molti italiani

di Sergio Romano - 17/10/2009

Con la diffusione di Internet gli italiani non hanno mai parlato tanto inglese. Ormai si fa del multitasking, ci ritroviamo nei social networks, googliamo i nomi delle persone e twittiamo notizie quando non tagghiamo le foto postate sul web. Nessuno si vergogna che un ministero venga chiamato del Welfare— guidato da un partito che sventola bandiera nazionalpadana e vorrebbe imporre l’esame di italiano agli immigrati — o che si adottino termini come tutor (tra l’altro latino) nelle scuole, per non parlare della legge sulla privacy; e che dire del presidente del Consiglio chiamato premier e del mister che guida la nazionale? Mi colpisce invece l’esempio dei cugini francesi che difendono la loro lingua a spada tratta, creando parole per sostituire quelle inglesi; e mi domando che fine farà la nostra lingua.


Enrico Ponzone

 

Caro Ponzone, gli importatori di paro­le inglesi e i fabbrican­ti di neologismi non sono soltanto i navigatori di Internet. All’origine del feno­meno vi sono alcuni gruppi sociali che contribuiscono in modo determinante ai muta­menti della lingua italiana. Sono finanzieri, agenti di bor­sa, stilisti, disegnatori indu­striali, esperti di relazioni pubbliche, impresari della moda e della comunicazione, organizzatori di conferenze e seminari, funzionari di azien­de particolarmente impegna­te nel campo delle nuove tec­nologie. Hanno spesso studia­to all’estero, hanno coltivato discipline in cui il lessico an­gloamericano è diventato dominante e sono general­mente occupati in attività che hanno carattere interna­zionale. Sono queste perso­ne, uomini e donne, che fan­no un largo uso di termini an­gloamericani appresi nel cor­so dei loro studi e del loro la­voro. In parecchi casi non cer­cano di tradurre o di utilizza­re un termine italiano equiva­lente perché la parola inglese definisce spesso funzioni e strumenti, soprattutto in campo economico e finanzia­rio, che sono stati ideati al di là dell’Atlantico o della Mani­ca. Ma in molti casi dietro l’uso della parola straniera vi è un certo compiacimento snobistico. Questi italiani po­trebbero servirsi di una paro­la della loro lingua, ma prefe­riscono ostentare le loro co­noscenze linguistiche, le loro frequentazioni internaziona­li, la loro «modernità». Do­vrebbero rendersi conto che questo abuso di esotismi li rende poco comprensibili per una larga parte della società. Ma sono convinti che «parla­re difficile» sia un segno d’in­telligenza e di superiorità, e trovano effettivamente perso­ne che cercano d’imitarli, ma­gari storpiando la parola stra­niera o usandola a sproposi­to. Il risultato è un diluvio di parole straniere, male pro­nunciate, male comprese e molto spesso inutili. Come lei ricorda, i francesi invece hanno affidato all’Aca­démie il compito di difende­re la lingua e di elaborare, per ogni neologismo inglese, una parola francese. È questione di carattere, di orgoglio nazio­nale, di attaccamento alla pro­pria lingua: virtù più diffuse a nord delle Alpi. Ma non bi­sogna dimenticare che tra il francese e l’italiano esiste una importante differenza. Il francese rimane tuttora, no­nostante le perdite subite ne­gli ultimi decenni, una lingua di comunicazione mondiale, quindi un capitale da preser­vare e proteggere anche per ragioni politiche. L’italiano è una lingua nazionale con una certa diffusione in ambienti artistici, letterari ed ecclesia­stici, ma utilizzata soprattut­to dagli abitanti della Peniso­la e, privatamente, da qual­che comunità italiana all’este­ro.