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Dobbiamo ribellarci a un sistema economico che invade ogni spazio e non produce più cose, ma marchi

di Francesco Lamendola - 05/11/2009


Accendo il telecomando della televisione e lo sintonizzo sul televideo, per sapere quali programmi andranno in onda questa sera sui diversi canali; ma ecco, una inserzione pubblicitaria invade tutto lo schermo - non solo una parte di esso - e mi costringe, letteralmente, a sorbirmi il suo messaggio, in attesa di poter vedere quel che faranno su Rai Uno o su La Sette.
Questo è solo un esempio del salto di qualità (si fa per dire) che l'apparato pubblicitario ha compiuto negli ultimissimi tempi, arrivando ad invadere ogni possibile spazio, fisico ed elettronico. Non bastavano i marchi pubblicitari sulle strutture del velodromo di ciclismo o del campo da tennis, in occasione di qualche grossa competizione sportiva; né la tuta e il berretto di qualche pilota automobilistico, impegnato in un circuito internazionale, carichi di marchi. L'occupazione dello spazio fisico appartiene ormai alla preistoria del marketing; oggi siamo entrati felicemente nell'era dell'invasione degli spazi virtuali.
Allo stesso modo, mentre sto aspettando di visualizzare la posta elettronica in arrivo sul mio computer, mi devo sorbire la pubblicità indesiderata dell'ultimo volo charter per Parigi o dell'ultimo modello di automobile, acquistabile a rate: tutte cose di cui non m'importa nulla, ma cui devo pazientemente sottostare senza poter reagire, come invece mi è dato di fare allorché metto giù il telefono, rifiutando l'ennesima promozione di materassi, di mobili o di un corso d'informatica proposto da qualche azienda, magari con lo specchietto per le allodole di una improbabile vincita per una crociera nel Mediterraneo, due posti tutto incluso.
Il fenomeno avviene in maniera strisciante ed è possibile che finiamo per trovarci invischiati in esso senza aver avuto neppure il tempo di rendercene conto, come la gazzella nelle spire del silenzioso pitone. Ovunque la pubblicità dilaga e penetra in spazi che dovrebbero essere assolutamente privati; non solo quelli tradizionali, come le vie cittadine o la cassetta della posta, ma anche l'intimità delle nostre case, dei nostri telefonini, dei nostri computer.
Se, poi, ci domandiamo quali siano le origini del fenomeno, non tarderemo ad accorgerci che non si tratta, semplicemente, di una estensione quantitativa del livello di diffusione del mezzo pubblicitario, ma di qualcosa di nuovo e di diverso, cui siamo sostanzialmente impreparati, sia dal punti di vista psicologico che pratico.
In breve, si tratta di questo: una volta giunti alla constatazione che il mercato è ormai saturo di merci e che sarebbe una politica suicida quella di puntare su una ulteriore espansione produttiva, gli imprenditori più grandi e più astuti stanno mettendo a punto una strategia commerciale completamente nuova e diversa: non più riversare sul mercato sempre nuove quantità di merci, ma puntare sull'etichetta, sul logo, sul marchio, per svuotare i portafogli dei consumatori in cambio di… niente.
È così che un bambino, dopo aver subito il lavaggio del cervello dalla televisione, pesta i piedi, piange e strepita, finché mamma e papà non gli comperano lo zainetto firmato, o le scarpe firmate, o il giubbotto firmato, e via dicendo: per non essere da meno dei compagni che, si capisce, possiedono già tutti quegli indispensabili oggetti e capi di abbigliamento.
La merce comprata viene pagata cinque, dieci o venti volte più del suo reale valore commerciale; ma che importa? L'importante è poter esibire il marchio, è potersi pavoneggiare con le cose o con i vestiti griffati: quello è il lasciapassare per il mondo dei «vincenti», o meglio, il talismano per esorcizzare la temutissima retrocessione nel cerchio dei «perdenti». Un ricatto sociale e culturale, puro e semplice: ma che funziona.
Da quando le aziende più moderne si sono messe a produrre non più cose, ma firme, l'economia mondiale ha compiuto un salto di qualità verso le rarefatte altezze della realtà virtuale; e, di conseguenza, la pubblicità si è ristrutturata in vista di una nuova strategia globale. Ora, quello che conta è l'«horror vacui», la capacità di riempire ogni spazio possibile, per rendere il messaggio pubblicitario talmente familiare e onnipresente, da creare una vera e propria dipendenza psicologica e mentale.
Tra qualche anno, per le generazioni cresciute in questo clima, il vero problema non sarà quello di possedere sempre più cose, ma quello di non farsi mancare il logo: ovvero di mostrare a tutti che non si è dei poveracci che si accontentano di cose qualsiasi, ancorché pratiche ed efficienti; ma che si è delle persone in gamba e «trendy», perfettamente a conoscenza della differenza che passa tra un capo originale e una volgare imitazione.
Al tempo stesso, sarà appena il caso di rilevare come un tale indirizzo commerciale faccia sì che le aziende realizzino fatturati sempre più cospicui, servendosi di un numero sempre più esiguo di dipendenti. Non c'è più bisogno di migliaia di operai per produrre grandi quantità di merci, ma di pochi designer, tecnici informatici e soprattutto esperti di marketing, e il gioco è fatto. La produzione vera e propria rimane affidata alle fabbriche, possibilmente decentrate nei vari Paesi del Sud del mondo, dove la manodopera costa pochissimo e le seccature sindacali sono ridotte al minimo, perché - come nell'Europa e negli Stati Uniti del XIX secolo - fuori dai cancelli c'è sempre la fila per essere assunti, quindi sostituire qualsiasi operaio è uno scherzo.
In altri termini, questo nuovo tipo di economia è doppiamente parassitario: perché si fa pagare alti prezzi non la merce in se stessa, ma il logo che la contraddistingue; e perché offre un posto di lavoro a un numero sempre più ridotto di operai.
Il fenomeno è stato bene analizzato da Naomi Klein nel suo ormai classico «No Logo», considerato la Bibbia del movimento contro la globalizzazione (titolo originale: «No logo», 2001; traduzione italiana di E. Trading, S. Borgo ed E. Dornetti, Milano, 2001, 2007, pp. 25-27):

«La crescita astronomica del potere culturale e patrimoniale delle multinazionali negli ultimi quindici anni può essere sostenibilmente ricondotta  a un’idea apparentemente innocua concepita da teorici del management a metà degli anni Ottanta, secondo la quale le grandi aziende devono produrre principalmente marchi e non prodotti.
Fino ad allora, sebbene fosse risaputo nel mondo delle aziende che era importante rafforzare il proprio marchio, la prima preoccupazione di un industriale affermato  era la produzione di beni. Questa era la vera dottrina  dell’era industriale. Un editoriale apparso nel 1938 sulla rivista “Fortune”, per esempio, sosteneva che  il motivo per cui l’economia americana  doveva ancora riprendersi dalla Depressione  era che l’America aveva perso di vista l’importanza del produrre cose:
"La funzione essenziale e irrevocabile di un’economia industriale  è quella di produrre cose: quante più cose produce, tanto maggiore sarà il guadagno, sia in termini realista in termini monetari; inoltre la soluzione per recuperare la capacità di ripresa sta… nella fabbrica, lì dove ci sono le lamiere, i trapani, le fornaci e i martelli. È nella fabbrica e sulla terra e sotto la terra che ha origine quel potere di acquisto."
E per lungo tempo il "produrre cose" è rimasto, almeno in teoria, il cuore di tutte le economie industrializzate.  Ma negli anno Ottanta, spinte dalla recessione, alcune delle industrie più potenti del mondo hanno cominciato a vacillare. Era opinione generale che le aziende fossero sovradimensionate, esageratamente grandi; possedevano troppo, avevano troppi dipendenti ed erano oberate da troppe cose. Il processo di produzione - gestire le proprie fabbriche, essere responsabili di decine di migliaia di dipendenti fissi a tempo pieno - cominciò a sembrare sempre più una responsabilità complessa e sempre meno la via per il successo.
All’incirca nello stesso periodo un nuovo tipo di azienda cominciò a contendere quote di mercato ai produttori tradizionali americani: parliamo di Nike e di Microsoft, e successivamente di Tommy Hilfiger e di Intel. Questi precursori affermavano audacemente che la produzione di beni era solo una parte secondaria delle loro attività e che, grazie alle recenti conquiste in fatto di liberalizzazione del commercio e alla riforma delle leggi sul lavoro, esisteva la possibilità di appaltare la fabbricazione dei prodotti a terzi, situate prevalentemente oltreoceano. Essi sostenevano che ciò che le loro aziende producevano principalmente non erano cose, ma immagini dei loro marchi.  Il loro vero lavoro non consisteva nella produzione, bensì nel marketing. Questa formula, non occorre dirlo, si è dimostrata enormemente vantaggiosa e il suo successo ha visto le aziende competere  in una corsa verso il "peso zero": chi possiede di meno, ha meno dipendenti fissi e produce le immagini, anziché i prodotti, più efficaci, vince la corsa.
Pertanto l’ondata di fusioni verificatasi nel mondo aziendale negli ultimi anni si rivela un fenomeno ingannevole: sembra che i giganti, unendo le loro forze, stiano diventando sempre più grandi. Ma la chiave per comprendere tali mutamenti consiste nel rendersi conto che per certi versi - naturalmente non per i profitti - queste concentrazioni di imprese si stanno in realtà rimpicciolendo. La loro ampia articolazione è semplicemente la strada migliore per raggiungere il loro vero obiettivo: sbarazzarsi della produzione di cose.
Poiché molte tra le aziende attualmente più note non si occupano più di produrre e reclamizzare le merci, ma piuttosto le acquistano e vi appongono il proprio marchio, esse sono costantemente alla ricerca di nuovi modi creativi per costruire e rafforzare la propria immagine. Fabbricare prodotti può richiedere l’uso di trapani, fornaci, martelli e simili, creare un marchio necessita di una serie di strumenti e materiali ben diversi. Richiede che il marchio possa estendersi senza limiti, la capacità di rinnovare di continuo la sua immagine pubblicitaria, e soprattutto di individuare nuovi spazi in cui far penetrare ciò che il marchio vuole rappresentare. […] L’esigenza delle aziende di affermare l’identità del proprio marchio [sta] ingaggiando una lotta con lo spazio pubblico e privato: con lo spazio all’interno di istituzioni come le scuole, con le identità dei giovani, con il concetto di nazionalità, con l’esistenza stessa di spazi non commercializzati.»

Probabilmente, era inevitabile che l'economia prendesse, in misura crescente, la strada delle firme, invece di quella della produzione di merci.
Così come la società post-industriale è caratterizzata dalla prevalenza del terziario sull'industria, allo stesso modo la prevalenza del logo sulla merce si può considerare come una transizione verso una nuova fase dell'economia, in cui la confezione della merce è più importante della merce stessa. In altre parole, da un consumismo basato sul possesso di cose, si va ora verso un consumismo basato sul possesso e sulla esibizione di simboli.
E anche questo si può considerare, in fondo, come un «miracolo» del terziario: la trasformazione delle cose in servizi. Solo che il servizio, in questo caso, non è reale, ma puramente immaginario: la gente non paga per avere un determinato bene, ma l'idea di quel bene. Del resto, il fiorire di un ricco sottobosco di imitazioni e di marchi rubati testimonia in modo eloquente quanto una simile strategia commerciale funzioni, in termini di immaginario collettivo.
La ragazza in bikini, sulla spiaggia, è fiera di esibire il logo prestigioso sul bordo delle proprie mutandine; è come se dicesse a tutti: guardate, il mio non è un costume per poveracci, è un costume firmato. Dunque, io non sono una poveraccia, ma una persona «vincente»: vale a dire, non soltanto alla moda (questo è ovvio), ma in grado si sfoggiare un certo «status» sociale. Anche se sono quasi nuda, questi pochi centimetri di stoffa attestano e certificano che io appartengo alle classi superiori; o, quanto meno, che nessuno potrebbe affermare il contrario.
L'economia post-moderna, pertanto, non è virtuale soltanto perché produce un 98% di titoli e azioni e appena un 2% di beni e servizi resali; ma lo è anche, e sempre di più, perché si fa pagare dal consumatore non in cambio di prestazioni reali, ma di prestazioni simboliche.
In fondo, è esattamente quello che fanno le banche: prendono il denaro reale dei piccoli risparmiatori e lo restituiscono, ad esempio per concedere prestiti, sotto forma di denaro virtuale, vale a dire pezzi di carta privi di valore intrinseco, che una semplice oscillazione del mercato azionario può ridurre a niente.
È importante che le persone si rendano conto di questo imbroglio, tanto più che esso non sarebbe possibile senza l'asservimento mentale, la deresponsabilizzazione e l'appiattimento di ogni senso critico da parte dei consumatori.
Reagire alla deificazione del logo, quindi, smascherandone la natura illusoria ed ingannevole, deve andare di pari passo con la battaglia perché la società  riesca a riappropriarsi dei luoghi, tanto di quelli fisici come di quelli elettronici; e tanto di quelli pubblici, come di quelli privati.
Ed è, quest'ultima, una battaglia necessaria e sacrosanta, se vogliamo evitare che cadano le ultime barriere verso la completa lobotomizzazione delle nostre menti, e, più ancora, di quelle dei bambini, che saranno la prossima generazione adulta.
Perciò, dovremmo tutti imparare a dire: «Merce firmata? No, grazie.»