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Goodbye Copenhagen: Cina e Usa affossano i negoziati per il clima

di Stefano Zoja - 16/11/2009

Il presidente americano Obama e quello cinese Hu Jintao azzerano le speranze per Copenhagen. Il vertice sul clima del prossimo dicembre non partorirà alcun accordo per la riduzione delle emissioni di CO2. Tra convenienze economiche e geopolitiche, le due superpotenze sigillano il fallimento di una trattativa che ha troppi avversari.

 

Obama
Il leader americano e quello cinese ridono mentre assestano un colpo mortale al nostro pianeta
Contrordine, colleghi e compagni: il clima non è una priorità. O per meglio dire: sarebbe una priorità, ma mancano solo ventuno giorni alla Conferenza di Copenhagen e metterci d’accordo ormai è impossibile. Tanto vale sancirlo. Così, in un pragmatico abbraccio, Cina e Stati Uniti afflosciano il fondamentale vertice sul clima di dicembre.

 

Lo fanno in separata sede, a Singapore, durante una colazione di lavoro a margine del vertice dell’Apec, l’organizzazione per la cooperazione economica dei paesi affacciati sul Pacifico. Un incontro al quale viene convocato all’ultimo istante il presidente danese Rasmussen, giunto in nottata solo per sentirsi dire che il ‘suo’ vertice non produrrà alcun accordo vincolante sulle emissioni.

In realtà la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico sarebbe dovuta servire anche e soprattutto a questo: stabilire nuovi vincoli legali per le emissioni di gas inquinanti, superando il precedente Protocollo di Kyoto, i cui obiettivi di riduzione delle emissioni arrivano al 2012. Ma non c’è più tempo per mettersi d’accordo, sintetizzano Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao a Singapore.

E del resto lo aveva testimoniato anche l’affannosa, ultima sessione di negoziati formali a Barcellona a inizio mese, che ha lasciato i partecipanti distanti e scontenti. Occidente contro paesi in via di sviluppo, nuclearisti contro sostenitori delle energie alternative, ruolo del mercato delle emissioni e stop alla deforestazione: sciogliere il garbuglio dei temi che ancora dividono paesi e gruppi di pressione sarebbe, ormai, probabilmente impossibile.

Dunque, Obama e Hu Jintao si tolgono dall’imbarazzo. Dicono che Copenhagen servirà a prendere un non meglio precisato accordo “politicamente vincolante”, una pezzuola utile per le conferenze stampa, ma che rinvia di fatto un nuovo trattato con valore legale. Forse fino a un nuovo incontro a Città del Messico, che potrebbe tenersi fra circa sei mesi.

Eppure sono almeno due anni, dalla Conferenza di Bali del 2007 e dalla relativa Road Map, che politici e negoziatori conoscevano la scadenza del dicembre 2009 a Copenhagen, e in vista della quale lavoravano. Un’urgenza scandita in questi mesi dai bollettini scientifici. Per contenere l’aumento della temperatura globale entro la soglia simbolica dei due gradi nel 2050, bisogna prendere iniziative rapide e radicali poiché – spiegava l’Ipcc, l’organismo Onu che si occupa del tema – il riscaldamento della Terra si sta rivelando più rapido del previsto. Come a dire: temporeggiare non ci è proprio permesso.

Ma Stati Uniti e Cina, il temuto G2 che, secondo le geometrie variabili di una globalizzazione ancora senza governo, potrebbe diventare il ristretto direttorio mondiale, hanno scadenze diverse. Negli Stati Uniti, già alle prese con la vischiosa riforma della sanità, si è arenata in Congresso la nuova legge sul clima, che prevederebbe quelle restrizioni vincolanti sulle emissioni che al momento il paese non ha. La sua approvazione in tempo utile per Copenhagen è vissuta all’estero come un’irrinunciabile testimonianza dell’effettiva volontà del principale inquinatore pro capite mondiale sul tema ambientale, senza il quale tutti si sentirebbero in diritto di protestare e disimpegnarsi. Ma le lobbies americane e i loro politici di riferimento, in disaccordo su politiche industriali ed energetiche, sono ancora alle schermaglie negoziali. Di accordo sul clima per ora neanche a parlarne, con buona pace delle aspirazioni presidenziali.

Per parte sua la Cina vorrebbe mandare avanti gli altri. Americani ed europei hanno inquinato ben di più e più a lungo di noi, che siano loro a darsi per primi dei vincoli sulle emissioni, è il ragionamento. Così, mentre diversi imprenditori cinesi investono sulle tecnologie verdi – come il solare –, il governo cerca di diluire e posticipare il proprio impegno.

Nel contempo Hu Jintao difende il business di casa propria: esiste anche il timore che accordi troppo stringenti sul clima penalizzino soprattutto l’industria nazionale, essendo i processi produttivi cinesi in media assai più inquinanti di quelli delle nazioni occidentali.

Dunque, Cina e Stati Uniti ratificano la loro crescente intesa economica affossando Copenhagen. ObaMao – come è stato soprannominato il presidente nella sua nuova veste filo-cinese – è costretto a corteggiare il rampante collega e a fare i conti con i capricci delle lobbies americane. Mentre in Cina, per ora, il clima fa notizia soprattutto quando la pioggia o la neve vengono seminate in cielo attraverso la magia dei razzi telecomandati. E fra le due superpotenze l’Europa, pure moderatamente più volenterosa sull’ambiente, fa la figura del vaso di coccio.

Eppure sarebbe un errore ora attribuire il fallimento preventivo di Copenhagen solo all’intemperanza di americani e cinesi. I negoziati sul dopo-Kyoto proseguono da anni tra ipocrisia e indolenza, ed erano falliti ben prima dell’imboscata di Singapore. Il fatto è che proprio l’incompresa serietà del tema e la strutturale complessità delle trattative avrebbero meritato da prima ben altro approccio. Stati Uniti e Cina oggi hanno solo sancito una pluriennale apatia.