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Modernità dell’animalismo moderno

di Stefano Di Ludovico - 30/11/2009

Una delle istanze che da sempre connota i movimenti ambientalisti è il cosiddetto “animalismo”, ovvero la difesa e la protezione delle specie animali da quelle azioni dell’uomo ritenute, direttamente o indirettamente, lesive delle loro esigenze vitali, istanza che comporta, di conseguenza, la ferma condanna di pratiche quali ad esempio la caccia o il consumo di carne. E’ un’istanza che caratterizza trasversalmente un po’ tutto il variegato mondo ambientalista, facendo capolino sia all’interno dell’associazionismo di impronta tecnicista e più o meno istituzionalizzato, sia all’interno delle componenti più radicali a sfondo “antimodernista”, quali la cosiddetta “ecologia profonda”. Soprattutto in riferimento a quest’ultima, l’animalismo si presenta come parte di una critica radicale della mentalità e della stessa visione antropologica propria della modernità, imperniata sull’homo faber ed oeconomicus, a cui si contrappone una diversa immagine dell’uomo e dei suoi rapporti con gli altri esseri viventi e la natura in genere, non visti più come mere realtà da sfruttare ma come compartecipi unitamente all’uomo stesso di un medesimo orizzonte di vita. In tal senso, l’ecologia profonda arriva a mettere in discussione la stessa antropologia cristiana, considerata come progenitrice di quella moderna, a causa della centralità che in essa assume l’uomo quale “signore” di un mondo messo da Dio a sua completa disposizione, rivalutando per contro le culture pagane in quanto estranee all’antropocentrismo biblico e “cosmocentriche”, quindi esaltanti una concezione “panica” tra l’uomo e la natura quali appartenenti ad uno stesso “cosmo” visto come patria e destino comuni. E’ proprio all’interno di tale posizione che si inserisce, anche nell’ecologia profonda, l’istanza animalista: gli animali sarebbero parte di tale natura con cui l’uomo deve ritrovare l’armonia perduta con l’avvento della cultura cristiano-moderna e dunque pratiche quali la caccia o il consumo di carne si ritengono inammissibili. Ma, ci chiediamo, è davvero questo l’atteggiamento che le culture pagane hanno tenuto verso gli animali e la natura in genere? Perché se è vero che ad esse risulta estraneo l’antropocentrismo cristiano così come il successivo tecnocraticismo proprio della civiltà moderna, non ci pare che ciò per quelle culture significasse eo ipso un rispetto ed una valorizzazione delle altre specie viventi quali l’attuale ecologia, del profondo o meno, va sostenendo spesso con un’intransigenza ed un fanatismo già di per sé poco “pagani”. Anzi, ad uno sguardo più attento, dietro il presunto animalismo “neopagano” sembrano emergere, neppure troppo velatamente, istanze e valori tipicamente “cristiani” e, se è vera la tesi del cristianesimo come preludio o in qualche modo antecedente imprescindibile della modernità, “moderni” addirittura. 

In realtà il cosmocentrismo proprio delle civiltà pagane non implicava alcun rispetto e protezione per le specie animali e la natura nel suo complesso, almeno nelle forme in cui tali esigenze si manifestano nell’odierno ecologismo. Basti solo pensare all’alto valore educativo e formativo che la caccia ha sempre avuto nelle civiltà premoderne. Spesso però l’ecologismo, a sostegno della sua tesi, sottolinea il fatto che in quelle civiltà la natura e gli animali erano tenuti in così alta considerazione ed amati da essere addirittura “divinizzati” e, per questo, rispettati e protetti fino alla “venerazione”, concezione questa completamente estranea alla tradizione biblica che considerava tale venerazione pura blasfemia. A dire il vero, nessuna civiltà tradizionale ha mai ritenuto divini e dunque venerato gli animali o i fenomeni naturali per se stessi, che anzi, tale convinzione costituisce uno dei fraintendimenti tipici dell’incomprensione moderna della cultura tradizionale. Piuttosto gli animali erano considerati “sacri”, ovvero manifestazioni, “simboli”, sul piano della dimensione terrena, di principi o divinità trascendenti, a partire dalla particolare visione del mondo propria delle tradizioni non creazioniste per cui ogni realtà metafisica si riflette necessariamente in un fenomeno fisico. Ma tale “sacralizzazione” così come poteva in effetti implicare la venerazione di alcune specie, poteva altresì, in base agli stessi presupposti, portare all’atteggiamento opposto: se un animale simboleggiava un principio “demoniaco”, malefico, anziché una divinità positiva, era preciso dovere dell’uomo abbatterlo o comunque metterlo nelle condizioni di non nuocere. Se poi l’animale rientrava nella sfera “profana”, ovvero non rappresentava alcun principio trascendente, positivo o negativo che fosse, l’uomo vi era completamente indifferente, e quindi si riteneva autorizzato a farne quel che voleva senza porsi troppi problemi. Del resto è difficile pensare che uomini che in occasione di guerre o contese politiche nelle quali erano costantemente impegnati erano soliti far strage dei propri simili o renderli schiavi si facessero scrupolo ad accoppare un animale! Ma al di là di ciò, quel che sembra completamente sfuggire all’odierno ecologismo è che per la visione tradizionale la stessa “venerazione”, lo stesso considerare l’animale come simbolo di un principio benefico non implicavano necessariamente quell’atteggiamento di rispetto e protezione così come inteso ai giorni nostri: per le culture tradizionali un animale, per l’alto valore che rappresentava, poteva proprio per questo essere vittima designata di un sacrificio cruento, come avveniva d’altronde in merito all’uomo stesso; cosa che agli ecologisti odierni farebbe a dir poco rivoltare lo stomaco! E’ altresì risaputo che la stessa attività venatoria è stata sempre considerata un po’ da tutte le civiltà tradizionali come un vero e proprio “sacrificio”, dove, come in tutti i sacrifici, tra vittima e carnefice vigeva una “solidarietà mistica”, appunto quell’appartenenza ad un destino e ad un orizzonte comuni di cui anche l’attuale ecologismo tesse l’elogio ma che, evidentemente, per gli antichi comportava verso gli animali atti che gli ecologisti non potrebbero che aborrire! Sappiamo del resto che anche molti dei giochi e delle attività ludico-sportive ancora oggi praticati in molte località europee e che vedono gli animali come “vittime” (corride, corse di tori e cavalli, ecc.) non sono altro che la degradazione folkloristica di antichi riti sacrificali dal complesso significato metafisico e rituale e che tenevano in altissima considerazione l’animale sacrificato. E sono proprio quei giochi e quelle attività che maggiormente attirano gli strali dei nostri ecologisti!

Visto ciò, sostenere, come essi fanno, di ispirarsi, nei loro valori come nelle loro rivendicazioni a favore degli animali, alla cultura ed alla visione del mondo proprie della paganità e delle tradizioni non cristiane appare quanto meno ambiguo se non forzato. Al contrario, a noi sembra che è proprio nell’antropologia e nei valori propri del cristianesimo che siano da ritrovarsi le basi dell’animalismo contemporaneo, quei valori che poi anche la modernità ha fatto suoi in una versione laica e secolarizzata. Lo stesso vocabolario usato dagli ecologisti sembra tradire questa influenza: cos’altro è il “rispetto” che si dovrebbe agli animali se non l’estensione anche alle specie non umane del rispetto che si deve a tutti gli uomini? Il divieto che per gli ecologisti dovrebbe porsi a tutte quelle attività che possano recar un qualche danno agli animali non trova la sua ragion d’essere nell’umanesimo cristiano e nel conseguente universalismo morale per cui “nulla va fatto agli altri che non vorresti venisse fatto a te” esteso anche agli animali? Non si fonda sul ricomprendere anche gli animali all’interno di quel “prossimo” che il cristiano deve amare come se stesso? Non è un caso che alcune associazioni ecologiste siano arrivate ad elaborare e ad adottare una vera e propria “Dichiarazione universale dei diritti degli animali”, non facendo altro che estendere anche a questi quei “diritti umani” che dell’universalismo morale sono il risvolto giuridico e che della modernità costituiscono uno dei fondamenti ideologici basilari. In tal senso l’ecologismo non fa che portare alle estreme conseguenze la logica stessa della modernità, rappresentandone per molti aspetti l’esito finale: i “diritti umani”, da privilegio di pochi fortunati “borghesi” come all’inizio della loro avventura all’alba della modernità, estesi progressivamente a tutti i cittadini maschi, poi alle donne, poi alle popolazioni extraeuropee, infine agli animali. Su questa scia alcune correnti radicali dell’ecologismo sono arrivate a parlare addirittura di “diritti” degli alberi e delle montagne, ovvero di interi ecosistemi: anche qui il riflettersi della moderna ideologia dei diritti umani è più che evidente, nonostante anche in tali correnti non manchino richiami alla tradizione pagana, all’interno della quale, come sappiamo, anche alberi, montagne ed altri luoghi naturali erano, al pari degli animali, considerati “sacri” e dunque rispettati e venerati. Ma in realtà qui vale ciò che abbiamo detto in merito agli animali: in quelle tradizioni gli alberi o le montagne erano “rispettati” non certo perché titolari di presunti “diritti”, ma quali manifestazioni sensibili di principi metafisici (è notoria ad esempio la simbologia degli alberi e delle montagne quali “Assi del Mondo”, “Centri del Mondo”, presso gran parte delle culture tradizionali), “rispetto” che non escludeva la loro violazione o abbattimento nel caso la “manifestazione” riguardasse forze negative o demoniache. 

E’ inutile sottolineare come l’umanesimo universalista e l’ideologia del diritti umani siano orizzonti completamente estranei alla cultura pagana, così come essi si leghino, invece, ad una prospettiva tipicamente antropocentrica che vede l’uomo come unico essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio – quindi dotato di ragione e, conseguentemente, soggetto di diritti e vincolato a precisi imperativi morali verso i suoi simili – e il resto del creato completamente “desacralizzato” e soggetto a leggi puramente materiali. Più che la comune appartenenza ad un medesimo orizzonte spirituale e cosmico, com’era per le metafisiche pagane, ci pare proprio questa la visione del mondo che sottende, in ultima analisi, al moderno ecologismo, attorno al quale, al di là degli sbandierati richiami ad un nuovo e spesso confuso “misticismo”, sembrano cristallizzarsi istanze prettamente materialistiche, secondo quella prospettiva tipicamente cristiano-moderna per cui la realtà si riduce alla dialettica tra l’uomo quale ente di ragione e la natura materiale che gli sta di fronte.

Considerazioni simili possono essere svolte in merito al vegetarianismo, prassi alimentare adottata da molti ecologisti. Anche qui non è raro il richiamo alle abitudini vegetariane comuni ad alcune tradizioni non cristiane (bramanesimo, buddismo, pitagorismo, neoplatonismo), prese ad esempio contro le religioni bibliche in cui abitudini del genere non vengono affatto valorizzate. Come sappiamo, all’interno delle suddette tradizioni il vegetarianismo si legava a complesse concezioni metafisiche (riguardanti in particolare la dottrina della metempsicosi e le vie dell’iniziazione), concezioni che, anche in tal caso, non implicavano di per sé un atteggiamento di rispetto e di amore verso gli animali come invece risulta decisivo per i moderni vegetariani. Anzi, in certe tradizioni il consumo di carne veniva bandito proprio perché gli animali erano considerati “impuri” e quindi il consumo della loro carne inconciliabile con le pratiche purificatorie che i seguaci di quelle dottrine erano tenuti a seguire: anche nel Lankavatara buddista è con una certa ripugnanza che ci si riferisce alla carne animale, “che è nata – si dice - dal sangue e dallo sperma”, così come i testi medievali parlano, a proposito delle regole di astinenza alimentare che i monaci dovevano osservare, di “immondizia” della carne. D’altronde, quella “solidarietà mistica” tra uomo ed animali di cui abbiamo parlato a proposito della caccia, nelle culture tradizionali ha sempre caratterizzato anche le attività di allevamento: l’uccisione del bestiame era considerato un vero e proprio “sacrificio”, eseguito rispettando un preciso rituale simbolico, di cui si hanno degli echi nelle feste che ancora oggi accompagnano nelle nostre campagne il momento dell’uccisione dell’animale di stagione.

Come già evidenziato sempre in riferimento alla caccia, il vegetarianismo moderno tende invece a giustificare l’astinenza dal consumo di carne ricorrendo a motivazioni essenzialmente morali, quali appunto l’amore, il rispetto per tutti gli esseri viventi, che dovrebbero portare l’uomo, in nome di un ideale di non-violenza assoluta, a non uccidere nemmeno gli animali o arrecar loro sofferenze, anche se solo per soddisfare esigenze o gusti alimentari. Più che concezioni mistiche o spirituali, anche qui sembrano far capolino concezioni più che altro materialistiche della natura, per cui quella biologica è l’unica dimensione della vita riconosciuta, e quindi salvaguardare ad ogni costo questa o comunque non arrecare alcun tipo di dolore fisico agli esseri viventi è l’unico vero motivo che spinge ad astenersi dal consumo di carne, quando invece proprio una visione del mondo tendente a valorizzare dimensioni metafisiche del reale portava gli uomini delle culture tradizionali a non dare troppa importanza alla vita materiale, vita che poteva essere appunto “sacrificata” in nome di piani o ideali di vita ritenuti superiori. Anche in riferimento a ciò il binomio uomo come unico ente di ragione e natura come mera realtà materiale sembra esaurire l’intera concezione del reale del moderno ecologismo, per cui, pur di rispettare gli imperativi etici della ragione, l’uomo è disposto a rinunciare alla sua stessa natura, e quindi all’alimentazione onnivora a cui lo stesso evoluzionismo l’ha portato. E’ evidente come quindi non sia certo una visione “cosmocentrica” o effettivamente “naturalistica” anche in senso solamente materiale ad ispirare la visione dell’attuale ecologismo, quanto piuttosto un radicale antropocentrismo razionalista, che, nel caso del vegetarianismo, porta paradossalmente gli ecologisti a “negare”, invece che a “rispettare”, la loro stessa natura di animali onnivori. 

Alla fine, anche in relazione alla questione dell’alimentazione, sembra riemergere l’orizzonte mondano e secolare che fa da sfondo, in ultima analisi, a gran parte della cultura ambientalista ed ecologista contemporanea, piegata anche lei, spesso suo malgrado e contro le intenzioni dichiarate di molti dei suoi esponenti, a quel dominio della Ragione materiale al quale sempre più difficilmente l’uomo del nostro tempo riesce a sottrarsi. Così, più che della “solidarietà mistica” tra l’uomo e il creato che aveva effettivamente retto le sorti delle civiltà antiche, l’ecologismo odierno rischia anch’esso di farsi banditore di una mera “solidarietà biologica”, in linea con l’inquietante scientismo imperante (tra l’uomo e la scimmia, dopo tutto, non vi sono che un paio di cromosomi di differenza…), solidarietà che la dice lunga sulla considerazione che l’uomo moderno ha innanzi tutto di se stesso. Del resto, già Platone, nella Repubblica, sosteneva che uno dei segni delle epoche di decadenza è l’esagerato rispetto di cui godono in esse gli animali.