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La malinconia è un indizio dell’Assoluto, come un rovello che ci fruga il cuore

di Francesco Lamendola - 24/12/2009

 

Che cosa è, esattamente, quello stato dell’anima che si designa con il nome di «malinconia», e che ruolo svolge nella nostra vita?
Chi è quella misteriosa creatura dalle ali ripiegate, che siede inquieta con aria pensosa e corrucciata, nella famosissima incisione di Albrecht Dürer, e se ne sta con un gomito puntato sul ginocchio e con il pugno stretto all’altezza della tempia?
La società edonistica odierna, e la mentalità salutistica ed efficientistica ad essa sottesa, vedono la malinconia come un avversario da combattere e da sconfiggere, più o meno come esse ritengono di sconfiggere il mal di testa per mezzo dell’Aspirina, senza porsi affatto la domanda circa il significato di quel mal di testa. 
Si desidera star bene: la malinconia è una presenza fastidiosa e molesta; dunque, si vorrebbe trovare il modo di abolirla, e non pensarci più. Che importa se essa è la spia di qualche cosa d’altro, magari di qualche cosa di prezioso? L’importante è toglierla di mezzo, farla sparire, così come l’agricoltura industriale vuol far sparire tutti i parassiti delle colture. E poco importa se ciò provocherà una serie di contraccolpi devastanti all’intero ecosistema e, in definitiva, all’uomo stesso, da cui la manipolazione è partita.
In genere, si tende a confondere malinconia e tristezza, così come si tende a confondere povertà e miseria. Ma così come la povertà è altra cosa dalla miseria, poiché consiste nella mancanza del superfluo e non del necessario; allo stesso modo la malinconia è altra cosa dalla tristezza, poiché consiste in un senso di vuoto e d’insoddisfazione complessivi che investono il significato ultimo della nostra esistenza, e non questa o quella circostanza di essa.
Non si è malinconici perché una certa cosa non si è svolta come avremmo desiderato: ciò può provocare disappunto, delusione, o, appunto, tristezza; ma si tratta pur sempre di stati d’animo passeggeri e condizionati. Rimossa la loro causa, scompaiono rapidamente.
La malinconia non scompare mai definitivamente: è una presenza permanente della nostra vita e ci accompagna, talvolta indesiderata, quasi sempre incompresa, dall’infanzia sino agli ultimi giorni che ci sono stati concessi.
La malinconia non è uno stato psicologico che un diverso sistema di vita o il ricorso ad alcuni farmaci possano eliminare: ne possono bensì eliminare alcune manifestazioni, ma col solo risultato di spingerla più nel profondo e, di conseguenza, renderla più acuta.
In realtà, la malinconia non è affatto una condizione negativa, una nemica della nostra felicità e un elemento che si possa rimuovere, eliminandolo dalla nostra vita. Essa fa parte di noi in maniera organica, è un tutt’uno con la nostra condizione ontologica; la nostra struttura originaria la include, allo stesso modo della nostra sensibilità o della nostra capacità volitiva.
Estirparla, quand’anche fosse possibile, sarebbe un controsenso: tanto varrebbe estirpare la nostra stessa condizione umana.
E non è vero, come alcuni credono, che la malinconia ci impedisca di essere felici: essa non ci impedisce nulla, perché non è una causa, ma un sintomo: un sintomo della nostra condizione finita che aspira all’infinito; della nostra condizione contingente che aspira all’incondizionato, all’assoluto, all’eterno.
Si può essere malinconici, eppure amare la vita; si può essere malinconici, eppure aspirare ardentemente alla felicità: le due cose non sono in contraddizione, ma, al contrario, possono essere perfettamente legate l’una all’altra.
Un temperamento superficiale va meno soggetto alla malinconia di un temperamento profondo, perché è quest’ultimo ad avvertire con più insofferenza i limiti del finito e del contingente e a sentire la nostalgia di ciò che è completo e perfetto.
Una pagina esemplare è stata scritta in proposito dal grande filosofo e teologo Romano Guardini - una figura di pensatore che dovrebbe essere meglio conosciuta dal grande pubblico, se la cultura odierna non fosse ostaggio di radicati pregiudizi anticristiani - in «Ritratto della malinconia» (Brescia, Morcelliana, 1990):

«Quella noia significa che, nelle cose, noi cerchiamo, appassionatamente e dappertutto alcunché, alcunché che le cose non possiedono. […] Si cerca e ci si sforza di prendere le cose così come si vorrebbe che fossero; di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell’ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all’assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto… Non c’è nulla, per cui valga la pena di esistere. Non c’è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. […] Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito. […] Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. […] Per conto mio, io credo che di là da qualsivoglia considerazione medica e pedagogica, il suo significato sta in questo che è un indizio dell’esistenza dell’assoluto. L’infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore.  La malinconia è espressione del fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con… ebbene sì, abbandoniamo alla fine il termine troppo prudenziale e astratto, di cui ci siamo serviti sinora il termine di “assoluto”; scriviamo al suo posto, quello che solo si addice: viviamo a porta a porta con Dio. Siamo chiamati da Dio, eletti ad accoglierlo nella nostra esistenza. La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo. […] La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo.»

La società moderna ha cercato di bandire la malinconia dalla sfera della vita quotidiana, al ritmo del famoso ritornello di Lorenzo il Magnifico: «Chi vuol esser lieto, sia; di doman non v’è certezza»; che è una ripresa umanistica del latino «Cras amet qui numquam amavit; quique amavit, cras amet», contenuto nel celebre «Pervigilium Veneris».
Si dimentica, tuttavia, che quel ritornello fa parte dei «Canti carnascialeschi» ed era destinato, perciò, ad accompagnare la sfilata dei carri allegorici del Carnevale: vale a dire a scandire un tempo profano che sottintendeva la complementarità di un tempo sacro (mentre l’invito all’amore del «Pervigilium Veneris» celebra un tempo sacro che a noi appare come profano, per l’incommensurabilità del paradigma culturale greco-romano rispetto a quello cristiano).  Si dimentica, cioè, che non si tratta di una generica esortazione all’edonismo, ma di un «carpe diem» che non nega affatto, anzi ammette, una dimensione ulteriore dell’esistenza.
La verità è che cercar di bandire la malinconia equivarrebbe a bandire la parte più profonda e più importante della nostra anima, la nostra stessa verità interore: perché è solo grazie ad essa che noi avvertiamo e tocchiamo con mano il nostro limite ontologico e, al tempo stesso, la nostra esigenza di oltrepassarlo, per attingere ciò che sta oltre: vale a dire l’assoluto e l’incondizionato, alle sorgenti medesime dell’Essere.
Tale è la dialettica della nostra natura: formulare incessantemente una domanda a cui non vi è risposta, nella condizione materiale dell’esistenza. Ma la domanda, per il solo fatto di essere formulata, presuppone che la risposta, da qualche parte, esista: se così non fosse, la domanda non sarebbe nemmeno pensabile.
Così, la nostra domanda di giustizia non sarebbe neanche pensabile, se la giustizia non esistesse in alcun luogo; se la domanda esiste, ciò significa che la giustizia esiste. Tuttavia, se esistesse in questa nostra dimensione temporale, allora la domanda troverebbe una risposta completa ed esauriente: ciò che non avviene. La giustizia che si può vedere realizzata in questo mondo, infatti, è sempre altamente imperfetta; e la stessa cosa vale per la nostra esigenza di bontà, di verità, di bellezza.
La malinconia, dunque, non è affatto una condizione patologica, come vorrebbe far credere una psicologia al servizio dell’esistente e tutta intesa a rimodellare la psiche in funzione del contesto sociale, come se solo uniformandosi ad esso la persona potesse realizzarsi. La malinconia è l’indizio infallibile che esiste una dimensione ulteriore, nella quale trovano pieno appagamento la nostra domanda di senso e la nostra nostalgia dell’Assoluto.
Si tratta di una vera nostalgia, in tutto e per tutto paragonabile a quella di colui che parte dai luoghi più cari per affrontare un lungo viaggio in paesi lontani, ma portandosi nel cuore i luoghi e le persone della vita di prima. Tale è il lungo viaggio della vita: un viaggio verso paesi lontani e sconosciuti, con una segreta inquietudine che ci fruga il cuore.
La malinconia è la manifestazione di quella inquietudine: una inquietudine che non scaturisce da un oggetto preciso né da una precisa mancanza, ma dalla nostra stessa condizione umana. Dice Sant’Agostino nelle «Confessiones»: «Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te, Domine»: inquieto è il nostro cuore, fino a quando non trova riposo in Te, o Signore.
In questo senso, potremmo definire la malinconia come la caratteristica essenziale dello spirito religioso: ben inteso, dello spirito religioso nel significato più ampio del termine. Anche chi si pone il problema della negazione di Dio come la questione fondamentale della propria vita, possiede uno spirito religioso, perché significa che avverte una domanda di senso che non si accontenta dell’esistente, ma sente il bisogno di confrontarsi con l’ipotesi dell’Assoluto.
Abbiamo detto, precedentemente, che la malinconia ha a che fare con lo statuto ontologico dell’essere umano; ora abbiamo affermato che essa esprime la caratteristica essenziale dello spirito religioso: ne deriva che lo spirito religioso è connaturato alla condizione umana, e che tutti gli esseri umani sono soggetti alla potestà della malinconia.
Eppure, noi vediamo che moltissime persone negano di provare inquietudini esistenziali di sorta, negano di essere soggette alla malinconia, negano l’esigenza di assoluto. Se ciò è vero - e non sta a noi di mettere in dubbio le affermazioni di un’altra persona circa la propria verità interiore, anche se è vero che non sempre noi siamo i migliori conoscitori di noi stessi - ne consegue che, nella società moderna, ha fatto la comparsa un nuovo tipo antropologico: l’individuo privo di inquietudine e privo dio malinconia, perché privo di tensione verso la trascendenza.
L’ateismo di massa, lo sappiamo, è un fenomeno interamente moderno e, inoltre, interamente occidentale (ciò che vale anche per la Cina, divenuta una società atea per opera di una ideologia, il marxismo-leninismo, importata dall’Europa ed imposta con violenza da un sistema politico totalitario).
D’altra parte, abbiamo osservato che l’ateismo non è, di per sé, indicativo dell’assenza di uno spirito religioso; semmai il contrario. Anche il famoso «Dio è morto» di Zarathustra non attesta una assenza di senso religioso: se Dio è morto, vuol dire che prima era vivo, che lo si riteneva vivo; ne rimane, perciò, quanto meno la nostalgia.  E dunque?
Sì, sta avanzando un nuovo tipo antropologico, apparentemente privo di tensione religiosa; ma è tutto da vedere se, in lui, lo spirito religioso sia morto veramente. Probabilmente, ciò che fa parte della natura umana non potrà mai morire del tutto: lo si può solo anestetizzare temporaneamente. E, se si ha la pretesa di sostituirlo con la religione più banale di tutte, vale a dire la religione delle cose, è inevitabile che esso riaffiori, prima o poi.
Insieme alla sua compagna inseparabile: la nobile, pensosa malinconia.
Con lo sguardo perduto in una lontana nostalgia, con le ali ripiegate e con il pugno stretto alla tempia, come nell’incisione di Dürer.
Un uomo che non senta più la nostalgia dell’Assoluto, che si appaghi interamente dell’esistente, non è, come voleva Nietzsche, un super-uomo, ma qualche cosa di meno dell’uomo. A dispetto di tutta la sua scienza, di tutta la sua tecnologia e di tutta la sua prometeica presunzione.