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Il male oscuro della modernità è la tentazione di non esistere

di Francesco Lamendola - 10/01/2010

 

Parafrasando, o piuttosto capovolgendo, il titolo di un celebre saggio di Emil Cioran, «La tentazione di esistere», potremmo dire che il male oscuro della modernità, che mina segretamente ogni atteggiamento positivo verso la vita e intorbida fino ad avvelenare le sorgenti di quest’ultima, è la tentazione di non esistere.
Leopardi aveva formulato in maniera esemplare questo concetto, allorché, nello «Zibaldone», aveva scritto (a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 1953, vol.  II, p. 1.004; p. 4.174):

«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretto ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive.»

Schopenhauer, se possibile, ha rincarato la dose, sostenendo che gli esseri umani dovrebbero spegnere in se stessi la volontà di vivere.
Ma il vertice del pessimismo è stato raggiunto con la filosofia di Eduard von Hartmann, secondo la quale solo una sorta di suicidio cosmico potrà liberare l’universo, un giorno, dall’intollerabile male di esistere; e poi, appunto con la penna corrosiva di Cioran, che rovescia la prospettiva tradizionale di centottanta grandi, insinuando il dubbio che la vera follia è proprio quella di lasciarsi prendere dalla tentazione di esistere.
Vale la pena di  riportare il concetto centrale espresso in proposito dal saggista romeno di lingua francese (da: E. Cioran, «La tentazione di esistere»; titolo originale: «La tentation d’exister», Paris, Gallimard, 1956; traduzione italiana di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, Milano, Adelphi, 1984, e Bompiani, 1988, pp.213-14):

«Ci si aggrappa a qualsiasi cosa. Pur esecrando i monaci e le loro convinzioni, non poso non ammirare le loro stravaganze, la loro natura volitiva, la loro asprezza. Tanta energia deve possedere un segreto:  quello stesso delle religioni. Benché forse non valga la pena che ci si occupi di queste, è pur sempre vero che tutto ciò che vive, ogni abbozzo  d’esistenza, partecipa di un’essenza religiosa. Diciamolo francamente: è religioso tutto ciò che ci impedisce di crollare, ogni menzogna che ci protegge dalle nostre irrespirabili certezze. Quando mi arrogo una parte d’eternità e immagino una permanenza che mi presupponga, calpestando l’evidenza del mio essere friabile e nullo, mento agli atri come a me stesso. Se lo facessi, sparirei all’istante. Duriamo finché durano le nostre finzioni. Quando le portiamo alla luce, il nostro capitale di menzogne, il nostro patrimonio religioso svanisce. Esistere equivale a un atto di fede, a una protesta contro la verità, a una preghiera interminabile… Dal momento in cui acconsentono a vivere, l’incredulo e il devoto si assomigliano profondamente, poiché entrambi hanno preso l’unica decisione che segna un essere. Idee, dottrine: semplici facciate capricci e accidenti. Se non vi siete risolti a uccidervi, non c’ alcuna differenza tra voi e gli altri: fate parte della totalità dei vivi, tutti, in quanto tali, grandi credenti. Vi degnate di respirare? Vi avvicinate alla santità, meritate la canonizzazione…»

Tesi, a dire il vero, più brillante che profonda: perché, se non si può fare a meno di apprezzare la caustica limpidezza della scrittura, non si può nemmeno evitare di notare l’approssimazione del ragionamento e persino del linguaggio filosofico: laddove «esistere» ed «essere» sono adoperati praticamente come se fossero sinonimi.
Comunque, il senso della tesi di Cioran è chiaro: essendo creature fragili e mortali, gli esseri umani dovrebbero levarsi dalla testa l’ambizione di esistere; d’altra parte, se lo facessero, sparirebbero nel nulla di cui son fatti: per cui ogni vita, per il solo fatto di accettarsi (rifiutando la soluzione del suicidio), è un atto di fede nell’impossibile.
Anche se Cioran ha portato questo atteggiamento mentale fino ai limiti estremi, e non senza una scoperta civetteria da filosofo «maledetto» in versione post-moderna (ma è sempre la vecchia tradizione del Cinismo, tipica delle epoche di crisi), è innegabile che egli abbia espresso una tendenza caratteristica del mondo attuale: una frenesia di autodistruzione e un «cupio dissolvi» che è il filo conduttore di gran parte del pensiero contemporaneo, per non parlare della poesia e delle arti, cinema compreso…
Si badi: il male oscuro della modernità non è la tentazione del suicidio, ma la tentazione di non esistere, che è qualcosa di meno clamoroso, ma di più sottilmente e totalmente distruttivo. Per suicidarsi, infatti, bisogna negare la vita e, dunque, fare i conti con essa, un po’ come un amore deluso che si trasforma in odio - ma, sotto sotto, è ancora e sempre amore. L’ateismo, ad esempio, appartiene a questo genere di negazioni: negazioni della volontà, non dell’essere: perché, per giungere a negare Dio, bisogna comunque aver fatto i conti con Lui sino in fondo, averlo prima soppesato e giudicato scarso.
Invece, la tentazione di non esistere non è, a rigor di termini, una semplice negazione, per quanto drastica e radicale; non si limita a rifiutare qualche cosa con cui si siano fatti i conti; al contrario, rifiuta di fare i conti e rivendica come preferibile, anzi, come l’unica strada percorribile, quella di non farli per niente. A suo modo, la tentazione di non esistere non è propriamente una negazione, ma una affermazione: non consiste tanto nel dire di no a qualcosa, ma nel dire di sì al suo contrario: il non esistere, appunto; il ritornare nel nulla.
È la forma più estrema di nichilismo; un nichilismo così tremendamente coerente, che culmina in un «sì» invece che in un «no». È la scelta del nulla, non il rifiuto di qualcosa. Anche perché non rifiuta questa o quella cosa: rifiuta tutto; rifiuta l’esserci; rifiuta la propria presenza nel mondo, radicalmente e assolutamente.
Chi si suicida, non rifiuta l’esserci; rifiuta le conseguenze dell’esistere; anzi, per essere precisi, rifiuta le conseguenze negative: la sofferenza, l’infelicità; e lo stesso vale per chi uccide, convinto di risparmiare il male alle proprie vittime. Le mamme che uccidono i loro figli perché li vogliono proteggere dalla cattiveria del mondo appartengono a questa categoria. Ora, quasi tutte le donne si sentono anche madri, indipendentemente dal fatto di esserlo o non esserlo biologicamente; e questo spiega, ad esempio (spiega, si fa per dire) il fenomeno delle infermiere assassine; fenomeno che non esiste nella versione al maschile.
In un bel romanzo di Alexandros Papadiamantis, «L’assassina», si narra la storia drammatica e commovente di una anziana donna greca, Chadula, personalità forte e battagliera, che, per evitare il male di vivere ad altre donne, diventa, in maniera non premeditata, assassina di bambine; e che infine, scoperta e braccata come una fiera, cerca e trova una morte che, per lei, coincide con il rimorso e con la liberazione dalle catene dell’esistenza.
In quel caso, tuttavia, non si può fare a meno di notare che la lucida follia della protagonista discende direttamente da una certa situazione storica, legata alla condizione femminile di quel tempo e di quel luogo. Ma le moderne assassine senza movente logico - spesso dei propri figli - non rientrano in questa tipologia, ché anzi si muovono sovente nel contesto di società ricche e benestanti. Esse uccidono perché sono convinte che la vita sia un male: se uccidono bambini, pensano che l’infanzia sia esposta a terribili rischi; se uccidono anziani, pensano la stessa cosa della vecchiaia: in entrambi i casi, sono afflitte da un delirio di onnipotenza, perché immaginano che soltanto esse possono fare qualcosa per proteggere le potenziali vittime - e questo qualcosa è privarle della vita, mettendole così al riparo da ogni male.
Eppure, per quanto ci troviamo qui in una zona decisamente allucinatoria, questo è ancora poco - dal punto di vista, se così possiamo dire, filosofico - in confronto alla tentazione di non esistere: un prodotto, quest’ultimo, che - piaccia o non piaccia - è  tipico della modernità. Infatti, nella tentazione di non esistere non è questione di rifiutare la vita sul piano empirico, ma di rifiutare l’esistenza in quanto parte dell’essere; anzi, di rifiutare l’essere (la confusione terminologica di Cioran è rivelatrice, sotto questo punto di vista).
Non stiamo facendo un gioco di parole; magari fosse così. Nel mondo odierno vi sono migliaia, milioni di persone che hanno scelto di non esistere: lo hanno scelto a monte di qualsiasi ragionamento, con un atto della volontà che, per il fatto di non scaturire da una sequenza logica, non è tuttavia meno terribile e irrevocabile. Il mondo è popolato da intere folle di non-viventi che, per paura di essere qualcosa, preferiscono essere nulla. Può darsi che l’occhio non esercitato faccia fatica a riconoscere questo nuovo tipo umano, frutto di una recente e paurosa mutazione antropologica; ciò dipende, appunto, dall’occhio, così come può darsi che una persona totalmente sprovvista di nozioni di botanica possa affermare di non aver mai visto un lichene - mentre basta fare una passeggiata in campagna e imbattersi un vecchio tronco o in un muretto di pietre a secco, per trovarsi in presenza di chissà quante macchie di licheni.
L’uomo e la donna che hanno deciso di non esistere continuano a fare la vita di tutti i giorni; ma, come gli aderenti a una setta proibita, stretti fra loro da un patto diabolico basato sull’impegno alla segretezza, di fatto non sono più creature di questo mondo, ma di un altro. Le folle della società di massa sono piene di questo nuovo tipo umano e non è da escludersi che, in moltissimi casi, una parte del loro io - quella cosciente e razionale - sia all’oscuro del patto diabolico che l’altra parte ha sottoscritto con il demone della non esistenza.
Si tratta di persone le quali, nel loro profondo, hanno deciso, a un dato momento della loro esistenza, che la vita è male; che l’esistere è un male; e che l’unica risposta adeguata al male e all’ingiustizia di esistere è quella di mettere in atto una sorta di «sciopero bianco» contro la vita. Vale a dire che esse svolgono le normali attività sociali e familiari; spesso mettono anche al mondo dei figli, e li tirano su meglio che possono; ma, nel profondo, hanno deciso di dissociarsi. Sono spente: nei loro pensieri, nelle loro parole, nei loro atti non brilla più alcuna luce; ci sono, ma solo in senso fisico, come ci sono i mobili in un appartamento o le case lungo un viale; per il resto, è come se fossero altrove.
Chi scrive ne conosce diverse, di queste persone; e probabilmente anche chi sta leggendo queste righe. Non occorre andare lontano: sono tutto intorno a noi. Forse siamo anche noi, o almeno una parte di noi.
Non siamo giunti per caso a questo punto. Decenni e decenni di pratica e di teoria nichilista, di pressione sempre più accentuata da parte dei meccanismi omologanti e deresponsabilizzanti della modernità, di martellamento incessante da parte di una pletora di pseudo-intellettuali ben decisi a banchettare sulle rovine di una civiltà agonizzante, hanno favorito questa mutazione antropologica, che è il punto estremo del nichilismo esistenziale, oltre il quale dovrà esservi, per forza di cose, o l’annichilimento totale o l’inizio di una ripresa.
Cioran sostiene che è evidente la friabilità e la nullità del nostro essere; ma l’esistere non è l’essere, e, inoltre, la friabilità è una cosa totalmente diversa dalla nullità. Se una cosa è friabile, vuol dire che è qualcosa, non che è nulla. Perciò non si può fare a meno di domandarsi: ma perché questi maestri del Nulla ci tengono così tanto a persuaderci delle loro apocalittiche convinzioni; perché non hanno l’onestà di presentarle come semplici speculazioni, invece che come inoppugnabili certezze, e sia pure certezze dolorose?
Ecco, questo è il punto. Essi dicono: «Guardate come siamo forti e virili! Noi abbiamo compreso la grande menzogna delle religioni, l’inganno dei preti; noi sappiamo che non c’è alcun Dio, che non c’è alcuna vita dell’anima; che ogni cosa esistente finirà in cenere e sparirà per sempre; però, mentre il gregge di pecore si accontenta di meschine bugie per trovare la forza di vivere, noi abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà.»
Gira e rigira, è sempre la vecchia, insopprimibile arroganza del «philosophe» illuminista, che sa tutto e ha compreso tutto, mentre il popolo non sa nulla e non ha compreso nulla, e vive schiavo di mille ridicole superstizioni e sprofondato nel buio della più abietta ignoranza.
L’unica differenza è che il «philosophe» illuminista in chiave post-moderna non pensa più a portare i Lumi della ragione in mezzo ad una massa di bambinoni, ma soffre in silenzio, tutto solo con le sue sconsolanti verità; o meglio, dice di soffrire in silenzio, ma lo grida dai tetti, con l’espediente retorico della preterizione (affermando di tacere ciò che, invece, spiattella a più non posso).
Insomma, un miscuglio di titanismo pseudo-romantico e di algido razionalismo aristocratico: è la ricetta di quasi tutti i libri di filosofia che si scrivono oggi (come «L’essere e il nulla» di Sartre), di quasi tutti i romanzi (come «Il nome della rosa» di Eco), di quasi tutti i film che si girano (come «Taxi driver» di Scorsese) e di quasi tutte le canzoni che si registrano (come «Imagine» di John Lennon, travestita da utopia libertaria).
Forse sarebbe ora di smetterla con questo gioco, e di prendere la vita con un po’ più di serietà: non è un gioco di società per annoiati intellettuali al caviale, ma l’occasione per mostrare di quanta dedizione, di quanta fede e di quanto amore siamo capaci, verso noi stessi e verso gli altri.