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Disarmare con dolcezza il nostro nemico più tenace: noi stessi

di Francesco Lamendola - 13/01/2010

 

Alla fine del celebre romanzo di Collodi, Pinocchio, divenuto un bravo bambino, si volta a guardare il burattino di legno che era stato, e non può fare a meno di notare quanto sia buffo; indi esprime tutta la propria soddisfazione per essere cambiato così radicalmente.
Ebbene, si tratta di un situazione emblematica, che può essere letta anche in chiave allegorica ed iniziatica: quel buffo burattino di legno, dall’aspetto così goffo e legnoso, altri non è che il nostro vecchio involucro, la nostra parte vecchia e sgraziata che deve essere oltrepassata, per fare posto a una persona interamente rinnovata, capace di levare gli occhi verso il futuro, senza paura e senza rimpianti.
È incredibile quanto pesi, nella nostra vita, il bagaglio di ciò che non siamo più, e tuttavia cui rimaniamo ostinatamente legati, come ad una moglie o ad un marito non più amati, cui si resta attaccati per abitudine, per stanchezza, per viltà. È incredibile quanto il passato condizioni incessantemente il nostro presente, quanto le ombre della notte continuino a gravare sulla luce del nuovo giorno, che stenta ad annunciarsi.
Eppure l’uomo nuovo è qui, dentro di noi; soffre e lotta per uscire, per farsi strada verso l’aria pura, quasi nostro malgrado, talvolta perfino a nostra insaputa; ma noi non abbiamo abbastanza coraggio per aprirgli la porta e preferiamo rimanere aggrappati alle vecchie, logore certezze, alle ormai consunte verità che non riescono più a coprirci, a farci sentire un po’ meno nudi. Assomigliamo un poco ai passeggeri di un transatlantico in procinto di affondare, che preferiscono l’illusoria protezione della grande nave ormai condannata, alla incerta possibilità di salvezza offerta dalle scialuppe sollevate dalle onde.
L’uomo vecchio è un parassita che si nutre delle nostre speranze, dei nostri sogni, ma anche delle nostre paure e della nostra stanchezza; è la parte di noi che teme ogni novità, che non vorrebbe mai mettersi in discussione, aprire i propri orizzonti; che desidera solo di poter continuare a brucare l’erba come un bue, sazio e ben pasciuto. Si aggrappa a una chiesa, a un partito, a una compagnia o a un matrimonio; si aggrappa a qualunque cosa, è disposto a qualunque cosa, pur di mantenere le posizioni, vale a dire il suo quieto vivere.
Non gl’interessa la verità; il suo scetticismo è il paravento della pigrizia e dell’opportunismo: dice di temere la verità perché essa ha provocato orrendi disastri nella storia, ma non è vero. La verità non ha prodotto alcun disastro, semmai ne hanno prodotti degli imbecilli attaccati all’uomo vecchio che era in loro; e, comunque, la vera ragione del suo scetticismo è la difesa feroce, implacabile, a costo di qualsiasi menzogna o compromesso, dell’angolino calduccio che egli si è costruito con i rifiuti della vita vera, adattando alle sue membra pigre e alla sua indole sonnacchiosa tutto ciò che è fresco, vitale ed autentico.
L’uomo vecchio è radicalmente, inconciliabilmente nemico della verità, perché essa gli impedirebbe di dormire i suoi sonni tranquilli, di ripetere le sue formule preconfezionate e le sue giaculatorie e base di aria fritta. Vuole leggere ogni mattina lo stesso giornale; e poi, con aria compiaciuta, poter dire a se stesso: «Strano, ogni giorno che passa il mio giornale la pensa sempre più come me: ciò vuol dire che ho davvero una testa fina».
L’uomo vecchio ha dimenticato tutti i propri sogni di un tempo. Guarda con ironia coloro che parlano della felicità, come se quei discorsi gli provocassero una vera e propria allergia; e, ogni qualvolta gli si presenta l’occasione, non si astiene dal dispensare la sua stanca saggezza in proposito, affermando che la felicità non esiste o che, se esiste, non è pane per i nostri denti. Poi, abituato com’è ad ogni sorta di stratagemma per giustificare la propria attitudine rinunciataria, aggiunge la solita frase politicamente corretta, ossia che la ricerca della felicità ha prodotto più mali di ogni altra cosa; ma si guarda bene dal distinguere fra la ricerca della felicità e la pretesa di voler imporre agli altri la propria ricetta al riguardo.
L’uomo vecchio è sempre così: in tutto quello che dice o che non dice, in tutto quello che fa o che non fa, persino in quello che pensa e che sente, sempre ha l’istintiva furbizia da quattro soldi di puntellare la propria viltà con qualche pensiero rubato da una parte o dall’altra, con qualche briciola di saggezza formato Baci Perugina. È istintivamente malfidente, come un cane bastonato che si mette ad abbaiare, e intanto scappa, ogni volta che scambia per quella del suo aguzzino la mano che vorrebbe fargli una carezza.
La fatica più grande che dobbiamo fare, e tuttavia necessaria, è comprendere che non abbiamo più alcun bisogno di questo nostro vecchio burattino di legno; che, dietro l‘apparenza di offrirci protezione e sicurezza, esso ci mantiene in uno stato di perpetua minorità, di perpetua autolimitazione; che è lui, e solamente lui, il più tenace, il più subdolo nemico di noi stessi, della nostra evoluzione spirituale.
Noi non abbiamo bisogno di lui: questo è il punto che dobbiamo metterci bene in testa. È per causa sua che stiamo conducendo una vita a mezzo servizio; che stiamo trascinando una malinconica esistenza nelle cantine del bellissimo palazzo in cui potremmo abitare. Proteggendoci, ci soffoca, come una madre patologicamente possessiva; ma quella madre siamo noi stessi: è il risultato della nostra paura, della nostra sfiducia, del nostro scoraggiamento.
Mano a mano che, nel corso degli anni, riponevamo i nostri sogni nel cassetto, l’uno dopo l’altro, contemporaneamente abbiamo elaborato una misera filosofia della rassegnazione, un surrogato umbratile e malaticcio di quella festa di colori e di armonie che dovrebbe caratterizzare il nostro essere nel mondo. Ci siamo affezionati a quelle bende, a quelle stampelle, a quegli occhiali dalle lenti pesantemente affumicate, al punto che ci sembra di non poterne più fare a meno.
Siamo diventati intolleranti e invidiosi: i discorsi e le situazioni che sfidano la nostra abitudinarietà ci seccano, ci indispongono; lo spettacolo di altri, i quali non si sono lasciati tarpare le ali dalle nostre paure, ci riempie di rancore e di amarezza. Frustrati e incattiviti, rimuginiamo le nostre vendette immaginarie e ci abbandoniamo talvolta ai sogni ad occhi aperti, baloccandoci con la puerile fantasia che, se solo lo volessimo, potremmo imprimere una svolta decisiva alla nostra vita, riprendere la facoltà decisionale cui abbiamo abdicato da gran tempo.
Eppure, le nostre catene sono meno solide di quello che ci immaginiamo o che ci piace immaginare, per giustificare la nostra inerzia e la nostra vigliaccheria. Come in quel celebre racconto di Kafka, stiamo ad attendere sulla porta del castello che qualcuno ci lasci entrare: e rischiamo di comprendere troppo tardi che la porta era solamente socchiusa; che nessuno ci avrebbe fermati, se fossimo entrati con decisione; che il custode del castello poteva solo dirci di aspettare la chiamata, ma non opporsi fisicamente al nostro ingresso.
La verità è che ci siamo condannati da soli, che ci siamo imprigionati con le nostre mani: siamo stati noi a forgiare le nostre catene, a chiudere la porta del nostro domani. E, di conseguenza, dipende solo da noi riaprirla.
Dobbiamo smetterla di nascondere la testa nella sabbia come struzzi, per non vedere lo squallore della nostra rassegnazione camuffata da virtù, la miseria delle nostre velleità naufragate prima ancora di salpare, delle nostre speranze abortite. E  dobbiamo anche smetterla di dare la colpa agli altri, al destino, a Dio o a chissà quante altre circostanze esterne. Dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che abbiamo fatto tutto da soli.
L’uomo vecchio che è in noi farà di tutto per impedire o almeno per ostacolare la nostra presa di coscienza della vera natura del vicolo cieco nel quale siamo andati a ficcarci, per offuscare la chiarità della nostra consapevolezza. L’uomo vecchio è un ostinato parassita che non vorrebbe mai andarsene, perché sta fin troppo bene nella nicchia che si è ritagliato. Ma se l’è ritagliata nella nostra carne viva e nel nostro sangue.
Dobbiamo liberarcene; dobbiamo oltrepassarlo: altrimenti non riusciremo mai a vedere la luce, a scoprire i vasti cieli e gli orizzonti sconfinati sopra di noi e dentro di noi. Resteremo sempre prigionieri, in un perpetuo stato di minorità.
Vi sono persone le quali credono di avere oltrepassato l’uomo vecchio che è in loro, soltanto perché hanno modificato alcune abitudini esteriori della loro vita: ma questa è soltanto un’operazione di facciata, un espediente cosmetico per ingannare se stessi. Ci vuole ben altro che un nuovo modo di vestire, un nuovo taglio di capelli, una nuova casa: tutto questo potrà forse confondere gli altri, specie se ci vedono in maniera distratta; non basterebbe mai e poi mai ad ingannare l’uomo nuovo che soffre in fondo a noi e che anela a venire alla luce.
Ma come si fa a farlo nascere? Non è cosa che si possa improvvisare: nessuna scorciatoia è possibile, nessun colpo di fortuna potrà mai sostituirsi al nostro personale cammino, al  nostro impegno quotidiano, silenzioso, appartato, verso la maturazione spirituale. Anche se quel colpo di fortuna si presentasse, noi non sapremmo approfittarne: perché la grande legge universale è che le cose ci vengono incontro solo quando noi siamo pronti per riceverle.
Ci siamo serviti di immagini figurate, ma è chiaro che non vanno prese troppo alla lettera, altrimenti diventerebbero fuorvianti. L’uomo nuovo non è che nasca dal nulla: è già in noi, qui, adesso; ma solo nel momento in cui si accende la nostra consapevolezza, egli può emergere e sostituirsi all’uomo vecchio. L’uomo nuovo nasce ogni giorno: aspetta soltanto che noi ce ne accorgiamo e che ci mostriamo disponibili ad accoglierlo.
Certo, un incontro fortunato può significare molto, nella nostra evoluzione spirituale; ma non si tratta veramente di fortuna. Sono le nostre azioni, le nostre parole, i nostri pensieri, ad attirare verso di noi le situazioni, le cose o le persone. E non sono mai interamente favorevoli o del tutto sfavorevoli in se stessi, ma lo divengono a seconda dal nostro modo di interagire con essi. Come dire che nessun tesoro riuscirà a rendere felice l’avaro insaziabile e che nessuna dimostrazione di amore disinteressato riuscirà a placare i sospetti del geloso. Tutto è buio, per colui che non vuole vedere; e tutto è luce, per colui che sa tenere gli occhi bene aperti.
Accontentarsi dell’uomo vecchio che è in noi, vorrebbe dire sciupare la straordinaria occasione di crescita che ci viene offerta ogni giorno, ogni ora, ogni istante della nostra vita; vorrebbe dire mortificare la nostra parte migliore, chiudere il cuore alla speranza e trascinarci sempre più stancamente sulle strade polverose del mondo, tormentati da una sete inestinguibile. Vorrebbe dire, soprattutto, ignorare il senso della nostra chiamata, vanificando il nostro esserci e disperdendolo in cento minuscoli rivoletti che moriranno nelle sabbie del deserto, invece di spingere le acque scintillanti del nostro fiume verso la gran pace del mare.
Noi non siamo qui per caso e non siamo stati gettati nel mondo contro la nostra volontà. Abbiamo udito un appello e vi abbiamo risposto: e questa è la ragione della nostra avventura terrena. Non si tratta di un gioco, né di un passatempo. È certo che siamo qui per essere felici: ma non potremo mai esserlo se non rispondiamo positivamente alla chiamata, se non percorriamo con fedeltà il cammino indicataci dall’Essere. Ogni tanto possiamo stordirci con l’uso e l’abuso di beni effimeri, di piaceri ingannevoli; ma alla fine resteremo vuoti e delusi, intimamente scontenti e amareggiati di noi stessi, della nostra vacuità.
Una scelta s’impone davanti ai nostri passi: o ascoltare la voce dell’uomo vecchio e gratificare il nostro piccolo ego; oppure fare da levatrici all’uomo nuovo e spalancare l’infinito orizzonte da cui siamo abbracciati.
Qualcuno ha detto che non si possono servire due padroni. Così pure, non si può essere al tempo stesso amici e nemici di se stessi. Essere veramente amici di noi stessi vuol dire riconoscere che siamo fatti per la felicità, ma che essa non ci verrà data se noi non saremo disposti a lottare con tutte le nostre forze per ottenerla.
La nostra felicità consiste nel ritorno alla casa dell’Essere; tutto il resto è inganno e illusione.
Forse vale davvero la pena di ritornare amici di noi stessi: non nel modo superficiale e narcisistico della mera esteriorità, ma nel modo autentico e profondo che consiste nell’abbandonarsi con fiducia al grande disegno cui siamo stati invitati a partecipare.