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Passando attraverso la crisi possiamo spezzare il circolo vizioso della negatività

di Francesco Lamendola - 25/01/2010

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La crisi non è uno spauracchio che debba incutere timore e sconforto; è, come indica il significato etimologico della parola greca “krisis”, un importante cambiamento che si verifica nella nostra vita.
Un cambiamento può essere suscettibile di sviluppi negativi o positivi; quel che è certo, è che esso, almeno inizialmente, ci mette fortemente a disagio, perché ci obbliga a rivedere e a modificare schemi di comportamento lungamente conservati ma che, ad un certo punto, si sono rivelati inadeguati e insufficienti.
Questo è, appunto, il significato profondo della crisi: un messaggio inteso a farci capire che la nostra vita aveva imboccato un binario morto e che era necessario, da parte nostra, un brusco e radicale cambiamento di rotta. Non si tratta di un messaggio che venga dall’esterno, almeno non ordinariamente: è il naturale risultato del nostro cammino esistenziale che, arrivati a un certo punto, ci rende consapevoli dell’impossibilità di proseguire lungo le strade consuete.
Certo, si tratta di un messaggio che, spesso, assume connotazioni aspre, perfino traumatiche: ma attenzione a non confondere i sintomi con le cause; e, soprattutto, attenzione a non prendersela con il destino, quando tutto ciò che dovremmo fare, quando ci troviamo in crisi, sarebbe di interrogare noi stessi, onestamente e lealmente.
Punto primo: non è la crisi che ci provoca malessere e sofferenza, ma ciò di cui la crisi è la spia: una nostra difficoltà di continuare a leggere la vita con gli stessi strumenti che ci eravamo dati in precedenza.
Punto secondo: la crisi non è il male e nessuno ci fa torto quando essa ci investe; la crisi è il campanello d’allarme di una nostra inadeguatezza, di una nostra incapacità di padroneggiare il nostro stesso equilibrio interiore.
Per fare un esempio: non è il fatto che la ragazza mi ha lasciato, che può mettermi in crisi: semmai, la mia inadeguatezza ad elaborare nel modo giusto quell’accadimento, nel leggerlo e interpretarlo nella maniera giusta e nel farne una preziosa occasione di crescita, di maturazione e di progresso spirituale.
Nulla di ciò che ci accade nella vita, ci viene incontro per farci cadere, ma solo e unicamente per insegnarci qualche cosa. Sta a noi capirlo e assumere l’atteggiamento idoneo ad imparare, vale a dire un atteggiamento di apertura, di disponibilità e di dialogo. Di disponibilità al cambiamento, soprattutto: ed eccoci al cuore della crisi. La crisi è lo sforzo che noi facciamo per confezionarci un vestito nuovo, quando il vecchio si rivela insufficiente a coprirci.
Son particolarmente i distacchi e le perdite a fornire l’occasione della crisi, perché ci obbligano a metterci in discussione e a rivedere tutto ciò sui cui avevamo precedentemente impostato la nostra vita: sentimenti, idee, valori.
Ovviamente la crisi per antonomasia è la morte, che ci spoglia della nostra veste corporea e ci presenta, per così dire (è un’immagine molto rozza, ma piuttosto efficace) il conto delle nostre scelte e delle nostre azioni, affinché noi possiamo farne un bilancio. Saremo noi stessi, allora, a valutare se avremo bene speso le occasioni che la vita ci ha offerto,oppure no. Questo sarà il giudizio: e sarà il nostro giudizio: ma, al tempo stesso, sarà l’espressione della grande legge dell’Essere, che tutto muove e tutto riconduce a sé.

Abbiamo sempre diffidato di quegli scrittori di spiritualità che, sostenendo di possedere doti medianiche, praticano il channeling e si fanno latori di “messaggi” all’umanità da parte di spiriti-guida. Tuttavia sono sempre possibili delle eccezioni e, almeno a livello teorico, abbiamo trovato di notevole interesse le lezioni” che Eva Pierrakos raccolse nel suo libro «Il sentiero», che lasciò nel 1979, quando morì di cancro, quale eredità spirituale.
In effetti, ella non lo presentò come opera sua, ma sostenne di aver fatto semplicemente da tramite ad una entità spirituale, ad un Maestro invisibile che scelse di parlare attraverso di lei. Nata nel 1915 in Austria e sposata al famoso romanziere Hemann Broch, la Pierrakos  lasciò la Germania all’avvento del nazismo, a causa delle sue origini ebraiche, e si trasferì negli Stati Uniti d’America, ove fondò un centro di formazione spirituale a Mendocino, in California. Oggi esistono diverse migliaia di studenti delle sue lezioni e alcune comunità, presenti anche in Italia, che si sono ispirate ai suoi insegnamenti
Ecco cosa dice la Pierrakos a proposito dell’esperienza della crisi nel suo libro «Il sentiero del risveglio interiore» (titolo originale: «The Pathwork of Self-Transformation», The Pathwork Foundation, 1990, traduzione italiana di Raffaele Iandolo, Spigno Saturnia Edizioni Crisalide,  1991, pp. 163-164):

«La crisi può significare, se la coscienza così decide, la fine dell’auto-perpetuarsi e della crescita della negatività. Quando essa esplode, la scelta fra il riconoscerne il significato o il continuare ad evaderlo, diventa più netta. Se l’individuo opta per la seconda di queste alternative e non apporta i necessari correttivi alla sua vita, inevitabilmente ad essa ne seguiranno altre, fino a quando il loro messaggio non sarà recepito. La personalità dovrebbe riconoscere che tutti gli sconvolgimenti, le crisi, i crolli hanno per scopo di abbattere le vecchie strutture ormai obsolete , in modo da poterne costruire di nuove e meglio funzionanti.
La “notte oscura” dei mistici si riferisce proprio a tali periodi in cui le vecchie strutture crollano. Nella maggior parte dei casi gli esseri umani non riescono a riconoscere il significato delle crisi in cui si trovano. Continuano a guardare dalla parte sbagliata. Se ad un certo punto essi non crollassero, la loro negatività continuerebbe indefinitamente. Ma è possibile, quando la coscienza si è risvegliata almeno in parte, che l’individuo non permetta alla negatività di radicarsi e di crescere oltre un certo punto. In questo modo, egli impedisce che il circolo vizioso auto-perpetuante si instauri, affrontandolo ed interrompendolo sul nascere.
La crisi può essere evitata ricercando immediatamente la verità interiore, appena i primi segni di disarmonia e di negatività si manifestano alla superficie. Ma è necessaria una grande onestà per mettere in dubbio le radicate convinzioni, a cui si è stati tanto a lungo attaccati. Solo grazie a tale onestà si può porre fine alla corrente  auto-perpetuante negativa, che è alla base dell’accumulazione della sostanza psichica distorta e distruttiva, e si possono evitare i molti circoli viziosi che creano tanti problemi e tanto dolore.»

La Pierrakos si domanda se sia proprio necessaria la “notte oscura” dell’anima, se sia proprio indispensabile passare attraverso la crisi; e conclude - a nostro parere un po’ ottimisticamente - che, per una persona la quale sappia essere onesta con se stessa, sia anche possibile evolvere spiritualmente senza bisogno di entrare in crisi.
Secondo noi, ciò non fa parte della natura umana; perché la natura umana è fatta in maniera tale che mai abbandona le proprie certezze, sia pure provvisorie, fino a quando una situazione di necessità non ve la spinga fuori quasi di forza.
In un certo senso, è giusto che sia così: solo attraverso le prove, i sacrifici e la sofferenza, si impara veramente qualcosa dalla vita; ciò che ci giunge senza sforzo non lascia tracce durevoli, non fornisce materia alla nostra reale evoluzione spirituale.
In ogni caso, non vi è dubbio che una persona sufficientemente evoluta incomincia ad interpretare i segnali della propria vita anche senza bisogno di entrare in una vera e propria crisi; ma ciò può accadere solo dopo che egli ne abbia fatto l’esperienza.
È l’esperienza della crisi, infatti, che aiuta ad aprire l’occhio interiore e a leggere il messaggio che ci era destinato; in un secondo tempo, può succedere che quella esperienza ci risparmi di subire altre svolte traumatiche, altre “notti oscure”: ma solo perché, prima, abbiamo dovuto attraversare quella situazione.
Così è, in tutte le cose: si impara cadendo, proprio come il bambino che non imparerà mai ad andare in bicicletta, senza essere qualche volta caduto ed essersi sbucciato le ginocchia. Si impara sulla propria pelle: e, quanto più si è stati messi alla prova, tanto più a fondo si conserva il valore dell’esperienza fatta - non l’esperienza in se stessa, ma il suo valore formativo, il suo valore esemplare.
Una cosa dovrebbe esserci chiara: le certezze cui aspiriamo non sono, né devono mai essere, qualche cosa di definitivo; sono solo degli abiti provvisori, che noi dobbiamo essere pronti a lasciare allorché non ci serviranno più. Dovremmo tenere sempre la valigia, per così dire, a portata di mano; e, per lo stesso motivo, dovremmo sempre fare in modo da non avere dei conti in sospeso con la vita. Perché, quando saremo interpellati dall’approssimarsi di una crisi, dovremo concentrare tutte le nostre energie  nel compito che ci attende, vale a dire la trasformazione di noi stessi; e sarebbe spiacevole che delle situazioni non risolte venissero, in quel momento, ad aggiungere il loro carico di preoccupazioni e di disagio, investendoci alle spalle.
La persona è una realtà dinamica, una realtà in movimento: non ci si ferma, nella vita, se non per riprendere fiato e prepararsi a rimettersi in cammino. Non siamo qui per una gita di piacere, né per indugiare in qualche giardino inesistente; la vita è lotta, la vita è tensione per il superamento di se stessi. Non è il tempo del riposo, ma del lavoro: ovviamente, non in senso materiale; parliamo del lavoro spirituale, nostra cura incessante.
Qualcuno potrebbe obiettare che, in questa visione, non sembra esservi posto per la gioia serena, per il raccoglimento e per la pace. Tutto al contrario: pace, gioia e serenità sono il frutto di una vita costantemente impegnata nello sforzo di progredire; ma non è la pace dell’ignavia e non è la gioia della superficialità. Quanto al raccoglimento, esso è il nucleo stesso dell’azione: perché solo l’azione che nasce dal raccoglimento e dal distacco può dare buoni frutti, non certo l’azione scomposta, frettolosa e meschinamente interessata.
Noi abbiamo estremo bisogno di raccoglimento, specie nella nostra epoca tumultuosa e confusa; ma ne abbiamo bisogno per poter lavorare su noi stessi e per progredire, non per goderci uno stato di ozio e disimpegno. Come il samurai che sa controllare al massimo il proprio corpo e la propria mente ed è capace di lunghe pause di raccoglimento, per poi agire con la massima rapidità, decisione ed efficienza: così dobbiamo imparare ad essere anche noi. Dobbiamo imparare ad essere i guerrieri della nostra stessa evoluzione; e non si diventa esperti guerrieri se non si passa attraverso l’esperienza delle ferite, che poi lasciano numerose cicatrici.
Molte ferite, molto onore; molte cicatrici, molta esperienza e molta saggezza. Così, chi ha attraversato e superato numerose crisi, uscendone - beninteso - vittorioso, è migliore di chi, favorito in apparenza dalla sorte, non è mai stato messo alla prova e indugia pigramente nei suoi vecchi modi di sentire e di pensare. Chi ha sofferto è migliore di chi non ha sofferto, perché la sofferenza offre importanti occasioni di purificazione: screma ciò che è superfluo e lascia solamente l’essenziale.
Di questo noi abbiamo soprattutto bisogno: di tornare all’essenziale, di rimanere a tu per tu con l’essenziale, spogli di tutto il resto.
L’essenziale è l’Essere, da cui veniamo e di cui siamo parte: una parte gloriosa, una scintilla d’infinito e di eterno. Dovremmo imparare ad avere più rispetto di noi stessi, perché siamo preziosi; ma avere rispetto di noi stessi non vuol dire evitare accuratamente tutto ciò che può metterci in crisi. Al contrario, vuol dire far tesoro delle prove che ci vengono date - e che scaturiscono, in sostanza, dalle nostre scelte precedenti - per evolvere sempre più, per andare sempre al di là di noi stessi e della nostra parte effimera e caduca.
Vuol dire ritornare all’essenziale. E scoprire che solamente lì, sfrondata dalle mille cose inutili, la nostra vita può trovare finalmente tutto il suo senso e tutta la sua luce.