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Le strade dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni: Barak Obama

di Gianfranco La Grassa - 25/01/2010

            
    1. La borsa non è il mercato perfetto della teoria neoclassica, costituito da migliaia di operatori
più o meno di pari forza (tanti atomi di un gas, la cui velocità e numero degli urti reciproci determi-
nano pressione e temperatura dello stesso). Non vi è alcun incontro tra domanda e offerta attorno ad
un prezzo di equilibrio, che esprimerebbe esattamente la media delle valutazioni (ottimistiche o pes-
simistiche) degli “attori in commedia” (anzi “in farsa”, puramente ideologica). Il mercato, nient’af-
fatto “libero”, è la giostra in cui alcune enormi concentrazioni finanziarie, come i grandi pesci nel
mare, si portano dietro sciami di pesci piccoli, mangiandosene un bel po’ durante le alterne vicende
di “vivace” gioco al rialzo o al ribasso.
    Se queste concentrazioni finanziarie (in definitiva, grandi banche come quelle americane) sono
scontente di certe decisioni degli organi di controllo politico (ad esempio della recente tassazione
voluta da Obama, sollecitato da una bruciante sconfitta elettorale), concertano, anche senza bisogno
di incontri segreti, un’azione di diffida: iniziano ad esempio manovre ribassiste in modo tale da por-
tare all’in giù, in media, il complesso dei titoli di borsa e dare così un “segnale di sfiducia” (attribui-
to dai “megafoni” del liberismo ai “risparmiatori”). Tuttavia, non è certo tramite questa via che le
concentrazioni in oggetto possono battere le decisioni politiche dell’amministrazione centrale.
Quando i ribassi hanno raggiunto certi limiti, pur nell’ambito di un gruppo decisionale (i pesci gran-
di) non troppo numeroso (non certo le “migliaia di risparmiatori” degli ideologi del liberismo),
qualcuno rompe le righe, acquistando, perché l’occasione di futuro guadagno a prezzi rialzati diven-
ta troppo allettante; e se uno trasgredisce, tutti gli altri infine seguono per non “restare con il cerino
in mano”. Non parlo nemmeno dello sciame dei pesci piccoli, che segue sempre i grossi e quindi
non fa testo alcuno, non conta un bel nulla; si tratta di “greggi di pecore” da “tosare” per incremen-
tare gli utili dei grandi “giocatori”.
    I ribassi consistenti, complessivi e prolungati si verificano in genere quando sussistono reali
condizioni (congiunture) di crisi, legate alla periodica crescita abnorme del settore finanziario ri-
spetto a quello reale; specialmente in situazioni di policentrismo, di acuita competizione interim-
prenditoriale con accentuazione dell’“anarchia mercantile” (nonostante le banalità dette dagli eco-
nomisti in merito all’organizzazione dei mercati in regime oligopolistico, trattandosi di uno dei più
tipici errori della concezione economicistica delle strutture sociali). Se la crisi è superata o in fase di
stallo (come mi sembra attualmente), dopo una fase di caduta la Borsa valori riprende quota poiché
il gioco al ribasso dura più o meno a lungo, ma mai così a lungo da impedire i guadagni dei grandi
giocatori (salvo, ripeto, che in situazioni di crisi reale, quando allora non si tratta più di un gioco,
bensì di un fenomeno prolungato causato da un “eccesso” che deve essere “riassorbito”). Quindi, se
ne dovrebbe concludere che è sufficiente Obama tenga ben ferme le sue decisioni sulla tassazione; i
banchieri starebbero conducendo un’ultima battaglia, un’ultima manovra prima della resa.
    Non bisogna mai prendere alcun imprenditore, nemmeno finanziario, per uno scemo. Intanto, in
assenza di decisioni politiche cogenti, salvo quelle dell’imposizione fiscale, con il gioco al ribasso i
grossi finanzieri hanno avuto modo (se non tutti, una buona parte) di tosare un bel po’ di pecore, e
questo è già un risultato positivo. Soprattutto, però, hanno lanciato un segnale sicuramente ben rac-
colto da coloro che li rappresentano in seno all’amministrazione centrale; e non mi consta che Oba-
ma abbia ancora avuto il coraggio (lo può avere? Non so) di liquidare e sostituire questi “agenti” del
sistema finanziario, che sono in genere quelli delle precedenti amministrazioni. I repubblicani erano
stati considerati, assai scioccamente (come dimostrato dai recenti test elettorali), battuti e rintanati
negli “ultimi ridotti” per merito della “meravigliosa” azione di un “diverso”: il nero (e premio No-
bel per la pace) che si sta invece dimostrando strategicamente abbastanza limitato, almeno finora.
    Vi è però di più. La tassazione speciale delle banche – giusta punizione, in fondo, per le loro
azioni senza alcun dubbio truffaldine e arroganti – è stata accompagnata da fumosi progetti di ridu-
zione delle loro dimensioni (fino a quali?), dall’intenzione di spingere l’azione creditizia a favorire
(o quanto meno non sfavorire) le piccole ma attive e vivaci intraprese produttive. Si vorrebbero
bloccare le azioni puramente speculative, e separare le operazioni creditizie per investimenti (a me-
dio-lungo termine) da quelle per spese di esercizio (“ordinarie”), ecc. Tutte impostazioni che ebbero
largo corso già un secolo fa, in occasione di grandi fallimenti bancari, della crisi del 1907, ecc. Cer-
te misure sono già state prese allora, almeno “formalmente”, e anche ripetute dopo il 1945 nel mon-
do capitalistico occidentale. Sempre, quando si verifica la sproporzione (speculativa) tra economia
cartacea e quella reale si riformulano i soliti propositi. Non si tiene minimamente conto (nelle inten-
zioni espresse verbalmente, poiché in realtà poi ci si comporta in modo diverso e assai più sensato)
di qual è l’intima struttura capitalistica.
    2. Impossibile “avere la botte piena e la moglie ubriaca”. O, altrimenti detto, “se mia nonna
avesse le ruote sarebbe un carretto”. L’economia capitalistica non conosce sviluppi – guardate che
non sto parlando solo di crescita (il sopravvalutato Pil), ma di sviluppo, di trasformazione dei rap-
porti sociali con avanzamento, sebbene nel lungo periodo, del benessere medio e dello status di tutti
o quasi i membri di una data società – se non tramite continui sconvolgimenti, distruzioni creatrici
(non soltanto in senso schumpeteriano, ma anche per quanto concerne i vari comparti sociali), squi-
libri incessanti, ecc. Uno degli squilibri ineliminabili, se non nelle chiacchiere “etiche” di parolai
che imbrogliano coscientemente il “popolo”, è quello dell’eccesso finanziario ricorrente, senza il
quale (senza i rischi che comporta e che precipitano infine in sconquassi) non si verifica sviluppo
alcuno. Si vuole la decrescita senza che sia possibile una radicale trasformazione delle strutture so-
ciali (non chimerica com’è stato per il socialismo e comunismo, per non parlare di altre utopie del
tutto infantili!)? Bene, ci si rassegni allora a ciò che afferma, con verità, Alice. Anche per stare fer-
mi, bisogna correre sempre più forte; se si preferisce rallentare, si andrà indietro con decelerazione
accelerata. “E’ l’eccesso che genera il necessario”; questa è la veritiera frase che scrive Zola, pro-
prio in base all’esperienza di Borsa, e proprio nel corso di una delle speculazioni che provocano di-
sastri.
    Si è tentato di evitarli con la famosa pianificazione, pensata quale sinonimo di socialismo; una
organizzazione matematica dell’equilibrio tra settori nel corso dello sviluppo. Un vero fallimento,
alla fin fine null’altro che una sorta di accumulazione originaria accelerata, al cui termine si è rima-
sti senza equilibrio, senza crescita e senza sviluppo, in corsa verso lo sfacelo finale. L’unica verità
del “liberismo”, una volta che sia sfrondata dalla falsità dell’equilibrio raggiunto tramite l’atomica
azione e reazione di migliaia di soggetti agenti nel mercato (puro, cioè depurato da volontà e deci-
sioni politiche), è quella della ricchezza e del benessere conquistati con la lotta, tanta fatica e perfi-
no fallimenti e miseria; nel lungo periodo, sia pure con alti dislivelli di condizioni tra i diversi indi-
vidui, la crescita complessiva riguarda la stragrande maggioranza della popolazione. Oltre alla cre-
scita si ha pure sviluppo in quanto trasformazione degli status sociali (e dei rapporti interindividuali
e intergruppi) sempre per questa maggioranza; pur, lo ripeto, nella differenziazione delle condizioni
economiche e di status, e del potere decisionale.
    L’unico modo non di evitare gli squilibri intersettoriali e le differenziazioni sociali, ma di ren-
derli almeno funzionali ad uno sviluppo meno costellato di autentici terremoti economici e di inten-
si disagi sociali, è quello di una decisa prevalenza della politica nelle decisioni riguardanti le diverse
sfere della società (economica, politica, ideologico-culturale). L’effettivo esito positivo del processo
iniziato nel 1917, e che sembrava terminato definitivamente (così speravano gli “occidentali”) nel
1989-91, è quello di aver infine dato vita a formazioni sociali (Russia e Cina) meno sensibili (alme-
no così sembra finora) ai disastri provocati dagli eccessi finanziari – in rapporto all’economia reale
– tipici delle “democrazie occidentali”. In nessun caso autentiche democrazie, solo pluralità di deci-
sioni da parte di lobbies e gruppi di pressione, ormai attualmente incapaci di vera sintesi complessi-
va, per cui l’indecisionismo, il frequente mutare di strategie, è il portato naturale di società che sem-
brano aver fatto il loro tempo e che dovranno, nella fase storica multipolare e poi policentrica che
avanza (non di breve durata), confrontarsi con formazioni sociali più congrue. Da questo scontro
nascerà la formazione sociale del futuro (non certo equa e giusta, ma certo meno squilibrata e ineffi-
ciente nell’andamento dei processi decisionali; senza l’ipocrita e falsa ideologia che essi nascano
“dal basso”, dal “popolo”, che i vertici siano solo gli esecutori della volontà di quest’ultimo).
     Per questo, le decisioni di Obama appartengono ancora al libro dei desideri, che vengono talvol-
ta esauditi, non però per la consapevole volontà di coloro che le hanno prese; solo per un concorso
specifico di circostanze dipendenti dai rapporti di forza tra le varie lobbies e dall’affermarsi, più o
meno celere, del vero multipolarismo, anch’esso legato a molteplici congiunture dei reciproci rap-
porti di forza tra formazioni sociali diverse. Non facciamoci dunque abbagliare dallo specchietto
delle allodole che questo ancora incerto presidente ci mostra. Le decisioni prese sono al momento
non giudicabili quanto agli effetti che potranno provocare; tutto dipende dalle scelte politiche effet-
tive e da chi le prenderà e contro chi in realtà si rivolgeranno.
     Quanto poi al ridimensionamento delle banche, alla separazione tra credito ordinario e di inve-
stimento, alla lotta alla speculazione (quella “sproporzione” che è inseparabile dallo sviluppo di
questa formazione sociale), mi si consenta di essere assai perplesso data la ripetitività almeno seco-
lare di simili intenzioni. A scanso di equivoci: non dico che non si possano avere banche più piccole
(non abbiamo da un secolo assistito alla lotta antitrust, con formali soluzioni in linea con quanto vo-
luto dall’“autorità”?), un’accanita lotta contro gli speculatori, una separazione tra varie tipologie di
istituti di credito. Tutto questo è già stato, formalmente, ottenuto altre volte. La sostanza è sempre
stata abbastanza diversa da quella voluta e perseguita; e per fortuna del “sistema”, che altrimenti
avrebbe avuto “ottime” probabilità di fare flop. Bisogna correre sempre più velocemente perfino per
restare nello stesso posto, poiché “è l’eccesso che genera il necessario”: non scordiamolo mai.