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Riti arcaici e simbolismo ermetico e religioso.

di Claudio Lanzi - 02/03/2010

 

Nel primo incontro che introduce il corso di quest’anno, vorrei iniziare col porre a tutti noi una serie di domande:

Cosa c’è, nell’anima umana, che precede la necessità del rito e la formazione del mito? Se non conoscessimo i principali miti cosmogonici (con le loro moltissime similitudini fra tradizioni eterogenee)[1] e dovessimo partire soltanto dagli strumenti sensoriali di un Uomo disperso sulla Terra e strappato dalle sue origini, così come accade all’uomo odierno, cosa è che consente la percezione e la necessità del simbolo e del mito, che lo evoca, e ne permette la mutazione in una forma sacra, che sottende ogni manifestazione dell’uomo religioso? E, ammesso che questa percezione sia in qualche modo descrivibile, quale è il momento in cui il rito diventa occulto, in cui la “porta” diventa stretta, in cui, il simbolo diventa ermetico, diventa cifrato ed accessibile solo ai qualificati?

Dove sono le “origini” dei tanti livelli che contraddistinguono il processo iniziatico, e perché il contatto con il numinoso necessita di una mediazione rituale? Dove si colloca quel “tempo metastorico” in cui gli antichi narratori dei miti, da Omero, a Esiodo a Plutarco, collocano la possibilità del contatto diretto e costante con il divino, immanente o trascendente che voglia essere considerato?

Quando accade che l’uomo primordiale, vicino ai suoi Padri e al suo Creatore, privo dei supporti culturali, storici e liturgici, che sovrastano l’uomo “moderno”, si accorge che determinati schemi simbolici non sono più accessibili e richiedono invece una particolare qualificazione “spirituale” per essere conosciuti? Insomma, per dirla con i Vangeli, quando è che le parabole diventano tali, e per essere comprese necessitano di alcuni “che abbiano orecchie per intendere” e che essendo i soli a comprendere, in mezzo a una moltitudine spaesata e confusa, facciano da mediatori?

Vorrei osservare che gli Dei di Omero non si limitavano ad intervenire nella vita del sacerdote o dell’eroe quando erano invocati, e che il profeta o l’indovino officiante il rito, non erano i soli a parlare con gli Dei. Gli Dei elargivano la loro prodigiosa presenza a chiunque, e nessuno se ne stupiva.

Il mito inizia a renderli improbabili e a confinarli in un mondo arcano, il momento stesso che la tradizione orale perde la sua efficacia e, come si rammaricava lo stesso Platone, gli aedi e i vati iniziano ad essere sostituiti… dai libri.

In questa sede, perciò, vorremmo tentare un approccio un po’ diverso da quanto siamo abituati a fare nei nostri incontri sia con il sottoscritto che con altri relatori, non dando nulla per scontato e mettendo per un attimo da parte quei meravigliosi schemi cosmologici che pure hanno costituito l’ossatura di tante ricerche, e che rappresentano l’omologia d’ogni processo tradizionalmente efficace.

Vorremmo partire da una posizione non apodittica e abbastanza umile (anche se nel breve spazio di una conferenza) e cioè dalle modalità percettive dell’uomo, tralasciando inizialmente le strutture teologiche o mitologiche precostituite o tramandate. Questo, non per sottovalutare il messaggio degli Antichi, ma per vivificarlo alla luce di una “nescienza” che non si avvalga di alcun codice a aprioristico, anche se avallato dalla sacralità della Tradizione.

Vorremmo perciò iniziare ricordando come la percezione primigenia di sé, dell’universo interiore di cui siamo composti e di quello esteriore che presupponiamo ci circondi, si avvalga di una struttura sensoriale, uditiva, visiva, tattile, gustativa e olfattiva, che accumula, ad una velocità impressionante, informazioni d’ogni tipo e le elabora nell’esperienza. La fiducia o meno in tale esperienza contrassegna filosofie e religioni che attribuiscono a tale percettività vari criteri di affidabilità.

L’esperienza, come ci ricordano gli Antichi si avvale di Mnemosine che, è assai più che una facoltà mnemonica ed è la madre delle Muse. Esse contrassegnano e guidano gli uomini nella loro ricerca interiore. Ma c’è una memoria logica, che elabora, accumula dati e determina l’agire, e una memoria non logica, una Dea interiore che per gli antichi presiede alla scienza dell’essere, alla Musiché. Su questa memoria subliminale gli psicologici hanno sempre avuto molto da dire, relazionandola all’onnipresente inconscio che, ormai da due secoli, è diventato… il deus ex machina di ogni imbarazzo della coscienza del nevrastenico uomo “moderno”.

Io vorrei dire soltanto che esiste una sfera dell’essere che, al momento, possiamo anche chiamare semplicemente “intuitiva”, e che non elabora un accidente, ma che “sa”, a priori, e che mi piacerebbe chiamare sovracoscienza. I “maniaci” del karma possono anche dire che in tale sfera si accumulano le tracce delle vite passate, secondo un processo del tempo, ciclico o lineare (a seconda del tipo di tradizione); ma, in questa fase non vorrei riferirmi ad alcuno schema dottrinario… precotto.  Si, forse c’è un karma ma al momento… facciamo finta di non saperlo.

Sappiamo invece, dalla testimonianza di coloro che ne hanno fatto esperienza, che esiste una elaborazione profonda in cui questa “sovracoscienza” percepisce al di là di quanto sensorialmente definibile: percepisce l’ineffabile, l’imponderabile, l’indeterminato, l’indefinito, l’incommensurabile.

L’esperienza sensoriale fa invece sempre riferimento a qualcosa di misurabile, in intensità o ampiezza: la sua percezione è distinguibile drasticamente in piacevole e spiacevole, chiara o scura, forte o debole, ecc. (cioè è sempre duale, per qualsiasi tipo di percezione) e la piacevolezza o spiacevolezza rappresentano una valutazione istintuale o (e) intellettiva, che è funzione dell’effetto provocato dall’esperienza. Ma quando, di tale esperienza, inizia l’elaborazione logica, il riconoscimento dello stimolo si fa assai complesso in quanto si sovrappone a migliaia di altre informazioni (provenienti dalla memoria “logica” e non da Mnemosine) che si prestano ad infinite contraddizioni.

Ad esempio il primo “bacio” di un adolescente può essere una esperienza meravigliosa anche se, nello stesso istante in cui avviene il primo contatto, la mente inizia ad elaborare le sue deduzioni; il secondo bacio sarà necessariamente legato alla memoria del primo e all’aspettativa del simile o al timore del dissimile, a informazioni provenienti da terze persone, al raffronto con l’esperienza di altra gente che ha avuto un bacio, al contesto emotivo che si accompagna all’esperienza (desiderio, gelosia, paura, ecc.): l’affare diventa complicatissimo e contraddittorio e oggi, per un bacio, si può finire… sul lettino dell’analista.

Quindi l’esperienza sensibile, psico-emozionale, può far sorgere dinamiche rituali, imitative, scaramantiche o compulsive, utili a esorcizzare le paure e a governare un campo che provoca agitazione. Tali “ritualità” (che ovviamente di sacro non hanno nulla) allontanano da una percezione dell’evento nella sua immediatezza, nel suo presente, e creano un universo virtuale una specie di “Matrix” che ci tiene prigionieri del passato e del futuro… e ciò per la gioia di tutti gli psicoterapeuti di questo mondo.

Ma  coloro che ci hanno tramandato l’esperienza del sublime, o attraverso la mistica, o la gnosi o la dottrina ermetica, affermano che questa sovracoscienza, questa "ulteriore" facoltà, nella quale l’uomo percepisce in maniera sovrasensoriale, pur trascinandosi dietro il peso della logica, del mondo psicoemozionale ecc., non è soggetta al principio di contraddizione e soprattutto sovrasta ed annulla il dubbio[2].

Quel dubbio che è fonte d’ogni dialettica, d’ogni processo conoscitivo ma che è anche la causa prima d’ogni ansia, d’ogni angoscia esistenziale, d’ogni brivido dell’anima che si perde nei labirinti della sua essenza e dell’ inaffidabilità del mondo con cui viene a contatto.

E si dice anche che si raggiunga tale facoltà in grado di sovrastare il dubbio, soltanto attraverso la meditazione, la contemplazione o la preghiera, o attraverso una ritualità che non sia evocata dalle compulsioni dell’io, ma che faccia da ponte, da jerofante verso l’incommensurabile; insomma attraverso tutti quei processi che rendono onore all’oracolo delfico che invita alla “conoscenza di se” o forse del “SE”.

All’interno di questa facoltà straordinaria (che per dirla con Dante, “intender non la può chi non la prova”) si sviluppano quelle che noi definiamo esperienze “spirituali” che, come detto infinite volte in questa sede, nulla hanno a che vedere con quelle psico-emozionali che con le stesse, ahimé, vengono spesso confuse (anche perché inscindibilmente legate all’esperienza vitale, ai sensi, al pensiero e al “commercio” con il mondo della necessità, del desiderio, del potere).

Il percorso, o il processo, per raggiungere tale facoltà, può essere secco o umido o, come ci suggerisce a volte il linguaggio alchimico, può partecipare di entrambe queste valenze (da non confondere con un atteggiamento attivo nel primo caso e passivo nel secondo, che è una semplificazione abbastanza faziosa, che non rende affatto giustizia né ai mistici né agli ermetisti).

Qualunque sia la via prescelta, si assiste quasi sempre ad un processo parzialmente “guidato”, in cui uno psicopompo (una guida, un maestro) fornisce gli strumenti basilari e i consigli per accedere a tale facoltà, curando e verificando, contemporaneamente, la purificazione e la separazione da tutti quei processi emozionali che inquinerebbero il “campo” nel quale agisce la succitata facoltà sovracoscenziale.

L’assenza di tale purificazione è l’origine d’ogni disastro animico e spirituale.

C’è stato un tempo in cui ogni essere era “psicopompo” di se stesso? Forse; era il tempo in cui… Pan era… ancora vivo, e l’osmosi fra uomo, ambiente esteriore ed interiore non aveva bisogno di mediatori o di riti; era il tempo del regno informale di Chronos, in cui tutta la manifestazione era un Rito vivente, non soggetto alle leggi meccanicistiche di causalità, così come noi le conosciamo. Ma tale tempo… si è chiuso da un pezzo. E se Giasone doveva superare le Simplegadi per giungere al Vello d’Oro, oggi per aprire le sinapsi delle nostre… simplegadi cerebrali e le orecchie del nostro cuore malandato…non basta un bazooka.

Ed è forse dall’inizio di tale chiusura o di tale precipizio, che il simbolo è entrato nella spirale gerarchica, nella liturgia religiosa e nella tradizione ermetica. Per necessità dunque,…e per virtù.

Tale precipizio ha scollato l’uomo dalle sue origini e il lungo viaggio di ritorno è diventato il principale ostacolo di ogni “sistema” spirituale. Forse per tale ragione alcune conoscenze sublimi o sovracoscenziali, che travasano l’esperienza dal piano materiale a quello spirituale, facendone un tutt’uno, sono apparse raggiungibili solo attraverso una liberazione dall’ignoranza, dalla cecità dell’avidya, dalla maya, o dai veli di Diana, e sono state considerate talmente straordinarie e pericolose, dal dover essere occultate sotto il linguaggio simbolico e, quando tale linguaggio, oltre ad avere una chiave logica ne ha assunta una spirituale e realizzativa, è stato chiamato, ermetico spesso vicinissimo a quello religioso, altre volte lontano .[3] 

A volte la detenzione dei “misteri” è stata soprattutto fonte di detenzione di potere, ma il principio che ispira il filtraggio dell’accesso ai medesimi era ed è denso di saggezza, e ogni volta che la “democrazia” ha invaso le conoscenze di un certo tipo si è assistito, in Egitto, come in Grecia, come a Crotone, come a Roma, allo sfacelo delle società, a quello di intere civiltà e al conseguente occultamento della “luce inestinguibile”.

Il linguaggio ermetico, associato al rito, struttura la tradizione ermetica; ma la pura conoscenza intellettiva di alcuni (o anche di tutti) gli elementi del medesimo non assicura alcun ingresso in alcuno stato. Lo studio del simbolo e del mito al di fuori della pratica e dell’uso corretto, virtuoso e puro del rito non serve assolutamente a nulla.

Ciò soprattutto perché comprendere la natura dei metalli e dar loro una collocazione psico-astrologica, senza “lavorarli” attraverso i procedimenti propri dell’Arte e quindi fissarli nella sfera spirituale, è una semplice titillazione intellettuale che può produrre, al più, qualche… rigonfiamento dell’ego (ma di… oro, non se ne parla proprio).

Senza la “visita” delle profondità della Terra e senza la rettificazione, non si trova un accidente di nulla.

Ecco perché la ricerca del simbolo non va vissuta come una ricerca intellettuale ma come la riscoperta di un Arcano Vivente e Vivificante, che, per avere “effetto” deve essere legittimato e operativamente impiegato da chi ne ha l’attitudine, la preparazione e il diritto. Se il Simbolo (o l’insieme di simboli viventi in un rito legittimo) arriva direttamente al cuore di colui che lo “contatta”, dopo essersi opportunamente preparato, può avere un reale potere trasmutativo; altrimenti resta una pura rappresentazione folcloristica, più o meno emozionante, a seconda del carisma dei celebranti.

Quali sono i reali confini tra simbolismo religioso e simbolismo ermetico, e quando è che l’uno confluisce nell’altro?

Le gerarchie cattoliche sono (salvo alcune eccezioni) assai maldisposte verso la tradizione ermetica ed esoterica cristiana, e con ciò condannano una infinita serie (migliaia) di sacerdoti e di cristianissime confraternite di ermetisti e di grandi artisti, che per secoli e secoli, hanno lavorato specificamente nell’alveo cristiano. Questo è un gran peccato perché, soprattutto nel medioevo e nel rinascimento, proprio all’interno delle mura conventuali, si sono sviluppati i più importanti filoni del simbolismo ermetico occidentale e la rinascita delle tradizioni alchmiche ed ermetiche più antiche.

Del resto crediamo di comprendere il perché di tale atteggiamento. Di fronte alla pletora di esoteristi new-age e di mistificatori della tradizione forse la soluzione più semplice era di fare di tutta un’erba un fascio (vedi certi personaggi che mettono in un solo calderone, Castaneda Kremmerz, Evola, Virio e chiunque parli di esoterismo). Da tale “strage” intellettuale è conseguito un disastro che ha sviluppato ancor più il mondo del “fai da te” (avallato da laici e sacerdoti), lo sviluppo di vari movimenti “carismatici”, e la mortificazione di tutti coloro che non volevano entrare affatto in conflitto con la tradizione religiosa (v. vari editoriali in questo sito).

C’è da dire, ma ne abbiamo parlato altrove[4], che attribuire alla religiosità ufficiale un carattere esclusivamente exoterico e confinare l’esoterismo nell’alveo delle sette o dei gruppi “eretici” è, a nostro avviso una grande stupidaggine. Non riconoscere, nell’ambito di una tradizione che, di per sé, viene chiamata misterica, la presenza di un esoterismo profondissimo, che richiede qualificazioni particolari e che viene rappresentato in ogni angolo del tempio cristiano, vuol dire gettare dalla finestra alcuni secoli di spiritualità, che ha coinvolto santi, papi, vescovi e re. E non vogliamo pensare che fossero tutti cretini o fanatici.

Conformemente al tipo di tradizione a cui mi ispiro che è quella pitagorica, vorrei a questo punto entrare nel merito “geometrico” di alcuni segni simbolici che caratterizzano buona parte delle rappresentazioni otticamente percettibile dello sconfinato libro di Ermes.

Le basi di tale rappresentazione sono riducibili, sul piano, dai quattro segni a seguire. La loro sovrapposizione, o moltiplicazione o rotazione, consente di formare tutti i simboli astrologici e alchimici conosciuti.

se trasferiamo tali segni simbolici e archetipici nella geometria tridimensionale abbiamo:

Ovviamente non abbiamo fatto una trasposizione spaziale seguendo una direzione di riferimento, così come insegnato dalla geometria euclidea, né un lavoro sulle coordinate ortogonali, come suggerito dalla geometria cartesiana (altrimenti dal punto avremmo ottenuto una retta, dal segmento un quadrato ecc.,) ma abbiamo fatto una traslazione simbolica, metafisica, anche se la rappresentazione sul foglio è puramente sensoriale (argomento su cui ci soffermeremo nel prossimo incontro).

Con questi 4 segni (che sarebbe meglio chiamare Enti, con la E maiuscola), la sapienza ermetica ha costruito tutta la simbologia di tipo operativo.

Dal sale al solfo…al mercurio ecc.

 

Diciamo pure che il triangolo, essendo costituito dall’incrocio di tre rette, potrebbe anche essere sottinteso. Ma poiché è di per sé un Ente formatore generale (così come straordinariamente dimostrato dopo 2500 anni, per via non trigonometrica, dal Maestro A. Graziotti, seguendo le indicazioni di Platone) mentre le possibilità di incroci e orientamenti fra segmenti sono pressoché infinite, abbiamo inserito come simbolo geometrico archetipo anche questo segno composto, e di conseguenza, nello spazio, il tetraedro.

Dal punto di vista geometrico, tali segni costituiscono l’ermetica chiave del rito: di qualsiasi rito, in quanto sono i formatori della successione gestuale, della sintesi dei sigilli e della struttura simbolica delle lettere sacre.

C’è un vecchio libro di G. D’Amato (Principio fondamentale delle arti umane) che noi non condividiamo affatto nelle conclusioni, ma che schematizza in modo assai efficace la matrice originaria del sigillo e del simbolo. D’Amato riprende le considerazioni dell’archeologo F. Patrie, nonché di Herder e di De Albertis (viaggiatori assai noti a inizio ‘900 e dimenticati ai nostri giorni). Anche se alcune considerazioni semiologiche possono considerarsi sorpassate, si tratta sempre di un testo straordinario, poco conosciuto e assai puntuale.

Il testo si occupa soprattutto del rapporto fra segni archeologici, lettere e fonemi.

Senza entrare nei dettagli riproduciamo in questa sede il grafo di base (studiato oltre che da D’Amato, da moltissimi semiologi) che è il seguente:

Si può facilmente dimostrare che in tale grafo insistono buona parte delle formazioni alfabetiche. Questo non vuol dire (come sostiene lo stesso D’Amato) che esistesse prima la griglia e poi l’alfabeto ma che la natura delle cose e del simbolo fa si che la quadripartizone (o la croce esadirezionale) consentano, per approssimazioni e partizioni successive, di mediare ogni percorso grafico e ogni rappresentazione simbolica.

Ovviamente esistono basilari differenze sull’uso del segno, in funzione del codice genetico della tradizione d’appartenenza ma, come cercherò di dimostrare nel prossimo incontro incentrato sul rapporto fra danza, musica e geometria sacra (e simbolica) tutto inizia da lì.

E come diceva il mio amato Maestro pitagorico Adriano Graziotti, senza geometria non è possibile alcun processo di conoscenza, né di “sovracoscienza”, né di ritorno a quell’universo da cui supponiamo d’essere venuti.

 

 


 [1] Letture utili e consigliate risultano sempre il De Santillana-Dechend con “Il Mulino di Amleto”, la Riemschneider con i “Miti Pagani e Cristiani”, l’ineffabile Eliade, con “La nostalgia delle origini” e il classico “Miti e Misteri” di Kereny. Anche le nostre edizioni hanno stampato due bei libri di antropologia che ci raccontano qualcosa di importante sul rito primordiale (La Caverna cosmica di A. Bonifacio e il Sacro Arcaico di M. Giannitrapani). Altri testi (il recente Mitologia del Rito, di D. Lanzetta, A.M. Del Bello, E. Albrile) e alcuni articoli sul sito (I Teschi cabirici di P. Galiano) parlano dei riti primordiali, della religiosità primigenia, dell’omaggio agli Dei, della testimonianza di “presenze straordinarie” in epoca protostorica e del formarsi della ritmica cultuale.

Inoltre, anche il sottoscritto, sia in Ritmi e Riti che in Misteri e Simboli della Croce, ha cercato di affrontare il tema delle radici del Rito.

 

[2] V. Sentieri Spirituali- Simmetria

[3] v. Simmetria-Rivista n°3-4 7

 

[4] Simmetria. Rivista n°3-7