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La guerra che non c`è

di Carlo Lupo - 02/03/2010

   

    


Quando si nasconde una guerra, le contraddizioni alla fine vengono alla luce. Quando si ammanta una “guerra preventiva” con ideali umanitari e invece è da subito evidente che i primi a non rispettare le vite umane sono le autoproclamatesi truppe del bene, il primo sentimento è l’indignazione. Quando si comprende che “la guerra del bene contro il male” non è vinta, bisogna prenderne atto e trarne le più immediate conseguenze. Se a capo delle truppe del bene per gestire lo “scontro fra civiltà” viene piazzato “l’uomo della speranza” ma poi il gioco al massacro non cambia affatto, anzi diventa addirittura più sanguinario, allora anche coloro che sono i più sprovveduti cominciano a porsi delle domande. Quando si continuano a massacrare innocenti e a proclamare come eroi gli stessi rappresentanti delle aggressive truppe del bene, l’ipocrisia rischia di toccare il tetto massimo. Quando un funzionario della presidenza del Consiglio, un cosiddetto agente dei servizi segreti italiani, muore in un attacco dei talibani è sicuramente lecito pensare che sia morto “un fedele servitore dello Stato, che stava compiendo il suo dovere”. Ma è ancora più doveroso cominciare a dubitare della buona fede del governo che lo ha mandato lì, a Kabul, a sostegno di una sanguinosa guerra preventiva. Se poi il presidente del Consiglio dello stesso governo sostiene che l’Italia continuerà ad opporsi alla violenza, allora dalla retorica si cade inevitabilmente nella tragedia del ridicolo. Sono ventidue gli italiani morti, negli ultimi cinque anni e mezzo in Afghanistan, ed è una guerra cominciata nel 2001. A fronte delle vittime italiane se ne contano a migliaia fra i civili afgani. La matematica non è un’opinione e la violenza, quella della Nato che massacra inutilmente i civili o impedisce ai feriti di arrivare in ospedale finché morte non sopraggiunga, chiama come minimo altra violenza. L’occupazione genera resistenza.