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Breve storia dei brogli italiani

di Angelo Spaziano - 09/03/2010

Giorgio Almirante soleva affermare che la democrazia, subito dopo le dittature, è il peggiore dei regimi. E per chiarire il concetto soleva richiamare alla memoria il famoso episodio dei Vangeli che narra del giorno in cui il popolo di Gerusalemme venne incaricato di scegliere tra Gesù e Barabba chi tra i due dovesse essere “amnistiato” in occasione della Pasqua ebraica. Si potrebbe affermare che in pratica si trattava del primo esempio di democrazia diretta mai tentato in precedenza. Bene. La gente, artatamente subornata dai galoppini al soldo degli zeloti, non ci capì nulla e optò per il peggiore. E considerando che tra i due candidati il “trombato” risultò essere nientemeno che Gesù Cristo, il “Re dei Giudei”, la mente rimanda immediatamente alla memoria l’analogia col referendum del 1946, nel quale gli italiani furono chiamati a scegliere tra il Re e la repubblica.

A dire il vero i nipotini di Dante optarono per la corona, ma se il confronto “maggioritario” tra Gesù e Barabba invece che nella Giudea romana di due millenni fa si fosse svolto nell’Italia del dopo Seconda guerra mondiale, l’esito sarebbe stato il medesimo. E perché mai? Per il semplice fatto che la consultazione tenuta nella Penisola fu, come dire, “addomesticata” in favore della repubblica da coloro stessi che s’erano dati da fare come matti per “liberarci” dall’oppressione fascista. Per lorsignori, infatti, “liberazione” voleva dire soltanto adeguarsi alla volontà dei nuovi padroni del vapore. E nelle segrete stanze del potere, vale a dire colà dove «si puote ciò che si vuole», la gente “doveva” scegliere la repubblica e nient’altro che la repubblica, senza permettersi di «dimandar di più».

Era, per essere precisi il 2-3 giugno dell’anno di grazia 1946. Piazzale Loreto era ancora impregnato dell’odore del sangue del Duce, quando gli ex-balilla e le ex-figlie della lupa furono chiamati alle urne per scegliere la forma di Stato che li avrebbe sgovernati e corrotti da quel momento in poi. Era la prima volta, dopo un lungo periodo di stasi, che a sud delle Alpi si tenevano libere elezioni e la folla accorse entusiasta pensando di poter seriamente decidere per la prima volta in piena autonomia il proprio destino. Invece, i nuovi partiti scaturiti dal conflitto presero tutte le misure cautelari possibili e immaginabili per far vincere lo schieramento repubblicano truccando le carte. I seggi infatti furono off limits per gli elettori dell’Istria, di Trieste, Gorizia e Bolzano, per 400.000 prigionieri di guerra, 600.000 “epurati” e a 1.500.000 cittadini non venne neppure rilasciato il certificato elettorale. Quel referendum fu la madre di tutti i brogli. Su 35.318 seggi scrutinati si contarono ben 21.000 ricorsi, inesorabilmente rigettati in blocco senza manco avvertire la necessità di operare uno straccio d’approfondimento.

Fra il 13 e il 17 giugno poi vennero passati al setaccio i verbali e si scoprì che contenevano di tutto: buchi, errori, imbrogli, doppioni, alterazioni, omissioni, cancellazioni e correzioni, e contestazioni d’ogni genere. Inoltre nessuno s’era preso la briga di calcolare separatamente le schede nulle, le bianche e quelle contestate. Una sòla, insomma. Ma la Suprema corte di Cassazione non volle sentire ragioni e arrampicandosi sugli specchi stabilì che per “votante” non doveva intendersi chi va al seggio e mette la scheda nell’urna, ma solo chi esprime voto valido. Pensa te che razza di democrazia…

Questo volgare artifizio consentì infatti agli scorrettissimi campioni delle istituzioni democratiche scaturite dalla resistenza di stabilire un taroccatissimo quorum che andava a vantaggio dei fan della repubblica, che la spuntarono per poco. Se oggi come oggi si andassero a ripescare le schede di quella lontana vergogna per sottoporle a una seria verifica, certamente la consultazione sarebbe dichiarata nulla. Ma cosa fatta capo ha… La monarchia perse e la repubblica vinse col trucco.

Già da quell’episodio era chiara la musica che si sarebbe suonata da allora in poi nelle segrete stanze del potere. Il nuovo assetto istituzionale comunque s’instaurò “ope legis”, e lentamente, col passare del tempo finì bene o male con l’affermarsi più per rassegnazione che per convinzione. E’ pur vero che si possono escogitare altri vari trucchi per “addomesticare” l’esito delle urne, per esempio disegnando i collegi in modo da favorire questo o quel partito secondo la sofisticata tecnica del Gerrymandering, inventata da quei marpioni degli inglesi, ma diciamo che al quel tempo la pratica elettorale nel Belpaese era appena ai primordi e i contraffattori di schede di professione ancora non avevano avuto il tempo di fare esperienza. E del resto, se perfino nella più “rodata” democrazia del mondo, vale a dire quella stellestrisce, può accadere che un barboncino resti iscritto per due anni nelle liste elettorali senza che nessuno se ne accorga, figuriamoci cosa possa mai essere avvenuto in quegli anni alle nostre latitudini durante la celebrazione del “sacro” rito per eccellenza di ogni democrazia.

Fatto sta che per un lungo periodo di tempo tutto è sembrato filare liscio nell’efficiente ingranaggio manipolatore della nostra cleptocrazia, fino al fatidico 1960, anno durante il quale un governo legittimamente varato dal Dc Fernando Tambroni con l’appoggio del Msi non fu rapidamente spazzato via dalla “democraticissima” canea comunista scatenata nelle piazze di tutt’Italia dai caporioni del Bottegone. Così, almeno per quell’occasione di brogli perpetrati nel segreto delle urne non ce ne fu neppure bisogno. A raddrizzare democraticamente la “cantonata” del parlamento, espressione della volontà popolare, ci pensarono direttamente, “brevi manu”, i camalli genovesi e i gappisti del Pci  rimasti disoccupati dopo la dipartita di Baffone.

Portato a termine il lavoro più sporco, fino al 1970 non fu necessario operare alcun maquillage all’efficientissimo meccanismo parademocratico della macchina di corruzione tricolore. Nel 1970 la rivolta di Reggio Calabria, saggiamente capeggiata dal missino Ciccio Franco, offrì alla pubblica opinione italiana l’esempio palmare di come un governo democratico tutelasse gli interessi del meridione. L’appoggio fornito dal Msi alle istanze dei rivoltosi lasciò un’impressione positiva nell’elettorato dello Stivale, tanto che alle elezioni politiche del 1972 il partito fece il pieno dei suffragi, fino ad arrivare a sfiorare il10% a livello nazionale. Apriti cielo! Subito le prefiche della democrazia furono prese dal panico, e fin dai primi commenti ai risultati appena scrutinati fu chiaro che un simile andazzo non sarebbe stato tollerato dai piani alti delle «istituzioni nate dalla resistenza ecc ecc…». L’ordine era quello di far cessare il “disordine”. Detto fatto, e venne inaugurata in tutta Italia la famigerata strategia della tensione, con attentati, assalti e sparatorie pressoché giornaliere sulle strade delle nostre città. Naturalmente, secondo gli arguti tromboni democomunisti alla Taviani il pericolo per le istituzioni veniva solo dalla Destra, la quale, demonizzata e perseguitata dai mass media al servizio dei poteri forti, risultò soccombente alle successive elezioni. E anche a quelle venute dopo.

E così via disinvoltamente democraticheggiando, fino ad arrivare al 1978, allorché la strage della scorta di Moro e il successivo assassinio del politico dc da parte delle Br non resero chiaro a tutti che il vero pericolo per le farsesche istituzioni proveniva in realtà da tutt’altra parte. Era venuto il momento degli “opposti estremismi”. Ad ogni modo la mattanza del leader Dc spalancò se non altro ai “figli di un dio maggiore” le porte dell’esecutivo. Era il coronamento del “sagace” progetto politico di marca degasperiana, secondo il quale «la Democrazia Cristiana era un partito di centro che guardava a sinistra». E così l’ “Andreotti III” fu spicciamente cassonettato per permettere al Pci di passare dalla “non sfiducia” dell’astensione all’appoggio diretto esterno. Ma la cosa non funzionò un po’ per l’impossibilità pratica di mandare avanti un pateracchio del genere, un po’ perché evidentemente Oltreatlantico quell’ircocervo non godeva di molte simpatie.

E fu così che nel 1980, dopo la vittoria del cosiddetto “Preambolo” nella Dc contro la segreteria Zaccagnini e il prevalere di Craxi nel Psi contro Lombardi, si optò per il ritorno a una collaborazione diretta tra Dc e Psi. Qualcosa però s’era rotto nell’equilibrio politico italiano. Il Pci era stato cacciato dalla stanza dei bottoni. Non era più trendy, non era più à la page, in soldoni: non faceva più paura, e questo non poteva essere tollerato da chi tramava per un ritorno all’amplesso contro natura soprannominato “compromesso storico”, vale a dire l’abbraccio del grande capitale rappresentato dalla Fiat coi sindacati confederali. E si tornò all’antica con la mobilitazione dei soliti furbetti della “schedina” (elettorale).

Era il 26-27 giugno 1983 quando, durante le elezioni politiche, si verificarono brogli da parte di presidenti, scrutatori e rappresentanti di lista. Venti persone saranno condannate nel giugno 1986. Pochi anni dopo venne archiviato dalla Camera un altro caso di brogli, ampiamente documentati, avvenuti durante le elezioni politiche del 1987 nella circoscrizione di Napoli-Caserta. Nella democrazia da operetta scaturita dalla guerra “di liberazione”, spoglio (dei voti) ancora una volta ha fatto rima con imbroglio. Senza contare i molti referendum nel frattempo votati ma letteralmente ignorati dai “supremi controllori” con la costituzione sempre in mano.

In Italia questa sorte è toccata al referendum sulla responsabilità dei magistrati (nel 1987), a quello sul finanziamento pubblico ai partiti (nel 1993), a quello sulla cancellazione di alcuni ministeri (sempre nel 1993). Inoltre, in occasione del referendum del 1998 per l’abolizione della residua quota proporzionale nel nostro sistema elettorale semi-maggioritario, il quorum fu artificialmente alzato con volgari inghippi, ammettendo al voto nominativi di elettori scomparsi da tempo, provocando così, per una manciata di voti appena, la sconfitta degli abolizionisti. E poi si lamentano se uno invece che ai seggi se ne va al bowling.

E siamo arrivati agli anni di Tangentopoli, durante i quali la floscia democrazia con lo stellone viene corroborata dall’imprevisto e inaspettato crollo dell’Urss e dall’apporto di un pool di magistrati che all’improvviso si mettono a lavorare come dannati. In pochi mesi l’intera classe politica moderata viene spazzata via. Dalla strage rimangono illesi il Pci e il Msi. Lì per lì tutti sono entusiasti. Non se ne poteva più di «Pci-Psi-Pli-Pri-Dc-Dc-Dc-Dc…Cazzaniga / Nuntereggaeppiù», come cantava Rino Gaetano. Ma dopo un po’, allorché gran parte dell’ex-pool di Milano butta la toga nel cesso e va a piantare la tenda in quel che resta dell’ex Pci è ben chiaro a tutti che questa sgangherata rivoluzione, lungi dall’essersi realizzata per volontà popolare e per bisogno di pulizia morale, ha avuto luogo per ben altre e più…remunerative ragioni, come la famosa foto di Di Pietro e Contrada sorpresi a bisbocciare insieme ha rivelato. Un altro “aggiustamento”? Beh sì, e forse anche qualcosa di più. E ancora una volta a vantaggio degli orfani dei piani quinquennali, venutisi a trovare all’improvviso senza papà, ma soprattutto senza i rubli copiosamente profusi fino all’ultimo respiro da papà.

Malgrado tutto, però, la “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria si rivela più scassata di una Zigulì, e Silvio vince alla grande. Panico. Subito la Nomenklatura scende sul piede di guerra e ordisce una congiura di palazzo con la quale il “Silvio I” viene affondato e tutta la restante legislatura si trasforma nella brutta copia del Machbeth. E tutto il resto è noia, parafrasando Califano. Sino ad arrivare alle recenti politiche del 2006, che il premier Silvio Berlusconi, paventò essere state platealmente manipolate, sebbene il presidente Ciampi e il ministro dell’Interno Pisanu avessero espresso scetticismo.

Durante i giorni dell’insediamento del Senato della Repubblica della XV legislatura Roberto Calderoli ha continuato comunque a insistere sulle ipotesi di brogli elettorali, confermando la sua convinzione secondo la quale la Casa delle Libertà fu vittima di un complotto che l’ha orbata della vittoria. Alle elezioni amministrative del maggio 2007 sono stati arrestati due presidenti di seggio accusati di brogli elettorali e gli agenti avrebbero anche riscontrato la falsificazione di numerosi atti elettorali, verbali e comunicazioni. Insomma, ci vuole proprio la faccia tosta di questi epigoni di Houdinì per assegnare ora a questo ora a quello grotteschi patentini viola di “costituzionalista doc”. Mai nessuna carta costituzionale è stata tanto inflazionata e contemporaneamente tanto disattesa come quella italiana. Mica per niente il viola è il colore degli occhi pesti…