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Vento

di Francesco Lamendola - 11/03/2010

 

Il vento ha urlato e fischiato per tutta la notte nelle fessure delle finestre e, al mattino, mi ha accolto gettandomi in faccia la sua sfida gagliarda.
Quel rude saluto non si è esaurito nel giro di qualche ora, ma è proseguito per tutto il giorno, con forza indomabile, come a voler mostrare che l’inverno è tutt’altro che finito e che il bianco Signore del Nord può riservarci ancora molte sorprese, prima che il tiepido soffio della primavera lo costringa infine a sgombrare il campo.
Le foglie volavano in tutte le direzioni, come sospese in una danza instancabile, mentre un fitto stormo di passeri roteava nel cielo grigio, numeroso e compatto, quasi che le bestiole cercassero di riscaldarsi tenendosi strette le une alle altre.
Il vento è vita, è esultanza e gioia di esserci.
Irrompe, per le narici, nella parte più profonda del nostro corpo: è tatto e olfatto nel medesimo tempo, ma è anche vista e udito. Entra nei polmoni a rinvigorire il processo naturale della respirazione ed è esso stesso una grande respirazione: è come il respiro della Terra e del Cielo uniti insieme.
Camminando lungo le strade quasi deserte del mattino, spazzate dal vento che scende dalle vicine montagne bianche di neve, mi sento afferrato e trascinato dal suo abbraccio vigoroso e tuttavia non ostile, anzi fraterno; come una Ciaccona di Pachelbel o come una Fuga di Bach, esso suonava nelle canne d’organo dei rami, delle siepi, dei camini, e portava con sé il profumo dell’infinito e dell’eterno.
Poche sensazioni al mondo possono eguagliare la sferzata di energia vitale portata dal vento, che è insieme schiaffo e carezza: schiaffo alla nostra pigrizia, alla nostra neghittosità e al nostro autocompatimento; carezza di incoraggiamento, di affetto, di amore, per sostenerci nei momenti di fatica e di scoramento.
Come un’amante saggia e benevola, il vento sa che di entrambe le cose abbiamo bisogno: di essere presi a schiaffi, per farci alzare in piedi quando vorremmo cedere all’indolenza e alla vigliaccheria; e di essere carezzati, quando siamo esausti e ci sembra che nessuno al mondo ci voglia bene, si ricordi di noi e ci riservi un pensiero affettuoso.
Osservo le foglie volare in aria e danzare in una sorta di pazzo mulinello: spettacolo strano ed incongruo in questa stagione dell’anno e più adatto ai colori caldi dell’autunno, quando gli alberi cedono al vento le loro chiome sontuose, con una generosità ed una opulenza quasi distaccate, da gran signori.
Queste foglie turbinano nel vuoto, come prive di peso e pare che non si debbano mai più fermare, che non si debbano mai più posare in alcun luogo; che questa loro condizione aerea e sempre mutevole sia proprio la loro dimora naturale e definitiva.
Invece nulla, in natura, è definitivo; e nulla è definitivo nella vita dell’anima, se essa rimane aperta alla dimensione della speranza e se continua ad offrire la propria disponibilità alla grazia di esistere consapevolmente e lietamente, radicata nel qui e ora ma, al tempo stesso, protesa con tutte le sue forze ad oltrepassare se medesima.
Le foglie rapite dal vento non hanno alcunché di triste: perché la loro destinazione è quella che esso indica loro, accompagnandole e salutandole con la sua forza giovanile e costringendole a staccarsi da ciò che è impermanente e che, pertanto, non potrebbe offrire loro un sostegno stabile né una dimora sicura.
Sicché anche noi dovremmo fare come loro: non offrire resistenza attaccandoci puerilmente alle cose, allorché la voce possente dell’Essere fa sentire la sua chiamata; ma lasciarci prendere e condurre per mano, liberamente e fiduciosamente.

*     *     *
Il vento non è un nemico, è un amico; non dovremmo accoglierlo brontolando e rialzando il bavero del cappotto, ma sorridendogli come a un vecchio amico che si era allontanato per un poco e che ora ritorna, con esuberante cordialità.
Il vento è leggerezza. Ci ricorda che dobbiamo imparare ad essere leggeri, lasciando andare le cose che hanno poca importanza e che ci trattengono, a causa del nostro attaccamento verso di esse, nelle dimensioni inferiori della vita spirituale.
Il nostro modo sbagliato di porci di fronte alla vita ci ha fatti diventare terribilmente pesanti. Sono pesanti i nostri odî e i nostri amori, le nostre paure e le nostre speranze, il nostro avanzare ed il nostro ritrarci. Pesanti sono il nostro egoismo, la nostra ignavia, il nostro conformismo e la nostra viltà; pesante è la nostra incapacità di essere veramente noi stessi.
Per diventare più leggeri, dobbiamo fare in noi stessi una ecologia della mente e separarci, senza rimpianti, da tutto ciò che ci appesantisce, che ci costringe a recitare dei ruoli inautentici, che ci inchioda al nostro falso Ego con le sue brame e i suoi timori, tutti veementi e tutti illusorî: frutto di stimoli artificiali, non di esigenze reali dell’anima.
Il vento passa e va oltre, carezzando le cime degli alberi e sfiorando le vette dei monti. Non ha casa, è un gran vagabondo che va alla ventura, che non si dà soverchio pensiero né di ieri né di domani, ma che guarda l’oggi dritto negli occhi.
È elastico e un poco imprevedibile, ma non è capriccioso né volubile: c’è una ragione ben precisa se ora soffia con forza giù dalle montagne, spingendo innanzi a sé piovaschi e nevicate anche a bassa quota, mentre fra alcuni mesi lambirà la campagna col suo fiato infuocato, carico dell’aria secca e arida di lontani deserti di sabbia.
Dice Gesù Cristo a Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni (3, 8):

«Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito»:

perché tanto in greco che in ebraico la stessa parola designa sia il vento che lo spirito.
Ecco: di tutti i fenomeni della natura, il vento è certamente quello che più si presta ad una analogia con la vita possente dell’anima, quando il soffio della Verità la riscuote e spazza via le false immagini di bene, inseguendo le quali essa si affannava inutilmente.
Il vento rappresenta la vita dell’anima anche perché la sua funzione principale è quella di spargere il polline e i semi delle piante, rendendo possibile la diffusione della vita anche là dove non vi sono che rocce laviche appena raffreddate, ad esempio quando un’isola vulcanica emerge per la prima volta dal fondo del mare.
Per questo San Francesco d’Assisi lo celebra in quei magnifici versi del suo «Cantico delle creature» (12-14):

«Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sustentamento».

Leggerezza, libertà, grazia: tutte queste cose sono nel vento, e il vento è in ciascuna di esse, con la sua benefica irruenza e con la sua forza purificatrice.
Per questo, ancora, l’autore degli «Atti degli Apostoli» si serve dell’immagine del vento per dare un’idea di quanto accadde il giorno della Pentecoste (2,  2):

«Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano…»
Per questo il vento non va respinto, sbarrando porte e finestre, ma va accolto come un ospite prezioso: perché ci porta aria di cose nuove, profumo di libertà e d’infinito, benefica nostalgia della nostra ulteriore dimora.
Per questo la sua voce ci risuona amica e la sua ruvida carezza ci riempie di speranza: perché avvertiamo, d’istinto, che viene a spalancarci nuovi orizzonti, non a molestarci inutilmente.

*     *     *
Il vento, infine, è forza: ma forza che non si vede, che nessuno può afferrare, nemmeno il gigante Briareo con le sue innumerevoli e smisurate braccia. Passa da un luogo all’altro, fugge e ritorna in piena libertà, senza dover rendere conto a nessuno.
Possiede anche, tuttavia, una sorta di grazia selvaggia, una delicatezza inaspettata, quando lo vuole e quando noi siamo pronti per riconoscerla e per accoglierla.
Queste cose mi vengono alla mente, mentre percorro la strada ormai bianca di neve, che il vento mi getta in viso a ondate ininterrotte, come un esercito di minuscoli soldatini di ghiaccio, che tornano senza posa a farsi avanti, instancabili e invincibili.
Ondata sopra ondata, battaglione dopo battaglione, essi ormai hanno imbiancato interamente i tetti delle case, i tronchi e i rami degli alberi, gli orti e i giardini ove già sbocciavano le gemme e occhieggiavano i crochi e le prime violette primaverili.
E il vento che pizzica la pelle del viso e che fa rabbrividire le membra, infiltrandosi tra le pieghe dei vestiti, sa di buono e di pulito; così come quando, rientrato in casa, lo sento ancora a lungo gemere e fischiare nelle fessure dei muri esterni, insinuarsi sotto le porte e socchiuderle, facendole scricchiolare, nel gran silenzio della notte.
Domani, forse, se ne sarà andato; rimarrà la neve, rimarrà il cielo grigio, ma lui sarà volato via, chissà dove.
Oppure, prima di andarsene, avrà squarciato gli strati color cenere e riportato l’azzurro tra i banchi delle nuvole, aprendoli al raggio benevole del sole di marzo.
La sua forza è enorme, ma raramente la ostenta; più spesso la trattiene nel palmo della mano e la lascia filtrare lieve, con discrezione.
Viaggiatore instancabile, non è solito dormire due volte nello stesso luogo e si rimette in viaggio quando noi riposiamo, senza lasciarsi vedere al momento del congedo. Non gi piace dire addio, non ama i commiati: anche perché sa che tornerà, un giorno o l’altro.
Sa che niente finisce, che niente scompare nel nulla; sa che ogni cosa ritorna incessantemente, finché non abbia placato la propria sete alla sorgente dell’Essere.
Quante cose ha visto nel suo continuo peregrinare, quante cose conosce; come sa leggere bene nel segreto dell’anima!
Come un caro, vecchio amico, lui sa bene di che stoffa siamo fatti; sa perché una lacrima brilla nel nostro occhio e sa quale emozione dischiude un sorriso sulle nostre labbra. Sa quando abbiamo bisogno di sentirlo vicino e di esserne rinvigoriti.
Viene senza farsi chiamare.
Parte senza lasciarsi salutare.
Non apprezza le smancerie e i complimenti inutili.
È virile.
È un vero amico.