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L’uomo moderno è l’uomo radicale che riduce la persona ad individuo atomizzato

di Francesco Lamendola - 17/03/2010

 

L’uomo post-moderno è il quarto tipo umano occidentale della storia, dopo il tipo greco, il tipo cristiano e il tipo borghese; potremmo anche definirlo il tipo radicale, nel senso che egli incarna la compiuta espressione dell’ideologia radicale, punto di arrivo di un continuo processo di laicizzazione e secolarizzazione della cultura.
L’uomo radicale parla sempre di diritti, ma quasi mai di doveri; non riconosce alcuna dimensione trascendente e non ammette alcuna forma di spiritualità; si identifica con il corpo e con i suoi processi vitali, e si riserva di decidere se e fino a quando la vita umana, in presenza di fattori che ne limitino lan pienezza fisiologica, possa essere considerata ancora un valore, ed eventualmente soppressa (eutanasia).
L’uomo radicale è figlio della doppia rivoluzione del XVIII secolo, quella politica (americana e francese) e quella industriale; la prima ha prodotto il mito della felicità come progresso, la seconda ha ridotto il progresso a fattore puramente materiale, quantitativo. In un certo senso, egli conclude l’opera di scristianizzazione dell’Europa occidentale iniziato in quel secolo e perseguito intenzionalmente dalla Massoneria e da altre società segrete, come gli Illuminati di Baviera, ispirate a un deismo talmente astratto da qualificarsi come un vero e proprio ateismo.
L’uomo radicale si sente come un piccolo Dio: adoratore dello scientismo, non ammette alcun limite alla ricerca e alle applicazioni pratiche della tecnica e non riconosce altra etica che quella dell’edonismo, della competizione e della realizzazione individuale. Per lui non si dà più un mondo di persone, ma solo un mondo di individui atomizzati, ove ciascuno pensa solo a sé stesso e a rafforzare il proprio ego.
Non si vuol dire che egli sia incapace di solidarietà; ma, se lo è, lo è a dispetto delle sue inclinazioni e dei suoi convincimenti, come il protagonista del romanzo di Alberti Camus «La peste», un medico che si batte strenuamente contro la devastante epidemia che infierisce nella città, ma senza una motivazione coerente con la propria visione del mondo, che parte dal presupposto della solitudine irrimediabile dell’individuo.
In un certo senso, gli manca la dimensione della speranza: e un essere umano privo di speranza è un essere umano a metà. Tendenzialmente egli è un demone, perché lo statuto ontologico del demone è precisamente quello di essere morto alla speranza; e una creatura demoniaca, anche se si gonfia la bocca con le parole d’ordine illuministe del progresso, della filantropia  e della felicità, non si vuole veramente bene e, quindi, serba un segreto rancore verso il mondo intero.
L’uomo radicale, infine, non rispetta veramente la morale, ma solo il diritto, e solo nella misura in cui esso gli garantisce la massima fruizione dei “diritti”; se viene a mancare questa condizione, egli si ritiene sciolto da qualunque vincolo di fedeltà e responsabilità verso la sfera della socialità e quindi anche da ogni impegno nei confronti della legge: perché, in fondo, egli è convinto di essere legge bastante a sé medesimo.
In definitiva, l’uomo radicale è una creatura profondamente squilibrata e profondamente infelice: per un verso è ubriaco del proprio senso di onnipotenza, ritiene di avere il mondo nelle proprie mani; per l’altro, sente di essere intimamente disperato, perché l’infinito piacere cui aspira - come già aveva ben visto Leopardi, che pure si riconosceva in questo tipo umano - non potrà mai trovare appagamento nella sfera finita in cui egli vive e nei sensi finiti che, per lui, sono le uniche finestre aperte sul mondo.
Scrive Ignazio Sanna nel volume antologico «Un mondo di libertà. Le professioni tra individualismo e responsabilità» (a cura di R. Balduzzi e I. Sanna, Roma, Editrice AVE, 2005, pp. 110-16):

«La conseguenza più grave del rifiuto e dell’abbandono del concetto ontologico di persona da parte della cultura radicale è quella di operare un taglio netto tra individuo e persona, tanto da poter affermare che una prima caratteristica dell’antropologia radicale sia, appunto, la concezione dell’uomo come un individuo e non come una persona.  Tra individuo e persona c’è indubbiamente una distinzione concettuale, in quanto individuo ha un ambito semantico molto più ampio di quello di persona, ma non una netta divisione,. È individuo anche un mattone, un garofano, una mela, un gatto, mentre persona è soltanto chi appartiene in qualche modo al mondo dello spirito.  La persona è tale in forza di ciò che è e non di ciò che ha e tanto meno in forza del riconoscimento che essa può ricevere dalla società e dall’altro.
Ora, mentre il concetto di persona indica reciprocità, dialogicità, comunionalità, anche per il atto che la sua ultima origine risiede nella stessa reciprocità e relazionalità delle persone divine della Trinità, il concetto di individuo indica singolarità, solitudine, chiusura in se stessi. La persona è tale in quanto ha la potenzialità del rapporto cin l’altro. Il rapporto dell’io con il tu, secondo martin Buber, spinge la persona all’incontro e la immerge interamente nel dinamismo del dialogo. La relazione io-tu non è qualcosa di accidentale o di superfluo che si aggiunge alla persona, ma è quello spazio internazionale che rivela e costituisce l’io come io e il tu come tu, in un orizzonte di uguaglianza, di apertura e di disponibilità alla comunione, Il dialogo interpersonale, epifania di due personalità, si nutre e si sviluppa nel mutuo scambio di “parola” e di “amore”; una parola che, mentre disvela l’io e riconosce il tu, nasce dall’amore e comunica amore; tale amore rivela parzialmente la ricchezza nascosta della persona nella fragilità della parola che diventa vincolo di comunione interpersonale. Il vero rapporto interpersonale io-tu non si esaurisce in una forma di chiusura e di sterile egoismo a due, , ma, a partire dalla ricchezza di un tu conosciuto e amato,  allarga e moltiplica i rapporti interpersonali sottostanti alla comunità umana in cui si è immersi, fonda la comune ricerca del rapporto interpersonale fondamentale con il Tu assoluto di Dio, scaturigine primordiale di ogni possibilità di parola  e di amore, e precisa il nesso misterioso tra l’uomo e il cosmo, che dovrebbe conferire alla materia inerte la luce della parola e la forza dell’amore umano. Filosofi come il Berdiaev e il Mounier sostengono la necessitò di una sostruzione del concetto di individuo, categoria naturale e biologica, con quello di persona, categoria spirituale, che si effettua mediante la comunicazione.  […]
La cultura radicale e buona parte della cultura “laica” in generale rifiuta il concetto stesso di persona, perché filosofico-teologico, e quindi non “scientifico”. Nel linguaggio scientifico comunemente utilizzato, si può arrivare al massimo ad accettare l’espressione “individuo umano”, e si dà a questa espressione  una valenza soprattutto biologica, per cui con essa spesso si intende soltanto il corpo.  Ma sappiamo che il solo corpo non è tutto l’uomo. […]
Dalla concezione dell’uomo come individuo e non come persona deriva direttamente o indirettamente la cultura dell’individualismo.  Esso è oggi un modo di sentire, di pensare e di vivere  più diffuso di quanto si creda.  È presente a tutti i livelli della vita personale, sociale e politica. […]
L’individualista è un uomo che, come suo unico criterio di stabilità,  come unico valore riconosciuto, ha il suo io, il proprio vissuto. Se in lui esiste la speranza, essa non riguarda più il cambiamento del mondo, ma soltanto la propria pienezza, il proprio personale futuro, e ciò non tanto come fondamento di future responsabilità quanto piuttosto come ricerca di gratificazione personale. Essendo ilo prodotto di una cultura che ha accantonato tradizione e riferimenti individuali, egli è insicuro senza essere tentato di cercare sicurezza nell’esperienza del passato, è critico mentre è disincantato sul senso delle grandi domande  della vita, è disorientato ma anche ammaliato dal nichilismo che il postmoderno  porta con sé.  […]
Una caratteristica dell’antropologia radicale è la convinzione che l’uomo è totalmente e pienamente autonomo. Una delle tesi della cultura post-moderna, infatti, è che non esista un ordine metafisico dell’essere e che l’intelligenza umana, qualora esso esistesse, non è in grado di conoscerlo. Ma se non vi è un ordine metafisico  che fondi una certezza di verità, non può esservi neppure una legge morale ed una regola degli atti umani, che possa valere per tutti. Per cui, il soggetto opera non ciò che è bene, ma ciò che egli vuole.
La conquista della libertà verso cui si protende la prassi radicale non è la ricerca di una liberazione etica, di una pienezza di vita etica mediante cui la persona si eleva interiormente in virtù, saggezza e amore.  Si presenta piuttosto nella pura forma di una richiesta di libertà come soddisfazione dei bisogni, dei desideri, delle passioni, garantito dal pieno godimento, assicurato dalla società, di un numero crescente di diritti  da contenuto sempre più ampio e senza essere costretti a corrispondenti doveri. La difesa dell’autonomia personale assoluta è chiaramente dissimmetrica, perché si afferma di possedere solo diritti e di non essere vincolato a nessun dovere verso gli altri. Poiché, poi, la libertà dell’individuo si esprime solo come una forma di obbedienza a se stesso, né si accompagna ad una responsabilità verso il bene comune, la dottrina della libertà del radicalismo non può giustificare razionalmente neppure l’autorità politica e l’obbligazione politica. In tale dottrina, infatti, il potere pubblico riceve significato solo dal principio di utilità.»

Abbiamo detto che l’uomo radicale è il tipo umano caratteristico della post-modernità, in quanto prolunga e oltrepassa, nella sfera del secolarismo, il precedente tipo moderno, ossia il borghese. Potremmo però anche affermare che egli è il tipo caratteristico della fine di un ciclo di civiltà e, in questo senso, presenta significative analogie con l’uomo dell’ellenismo (il sofista), con l’uomo del tardo Medioevo (il pre-umanista velleitario e narcisista, alla Petrarca), oltre che, ovviamente, con il borghese del tardo capitalismo, come magistralmente descritto in romanzi quali «I Buddenbrook» di Thomas Mann.
In questo senso, l’uomo radicale è un decadente: il suo abito mentale  è quello tipico delle epoche di decadenza, quando i valori precedenti si sono irrimediabilmente logorati e quelli nuovi tardano a comparire all’orizzonte - posto che compaiano.
In fondo, il dramma dell’uomo radicale è l’allontanamento dalla parte più profonda di se stesso, in cui risiede il suo intimo legame con la pienezza dell’Essere. Negata quella parte e reciso quel legame, egli non è che un atomo disperso nel gran mare degli enti, tutti ugualmente transitori e tutti ugualmente sfuggenti: perché la sola cosa che l’essere umano abbia il potere di stringere veramente è la propria anima, non certo le cose.
La potenza di cui l’uomo radicale si vanta così spesso e volentieri, e che è rappresentata al massimo grado dalla tecnica, non è che una potenza illusoria ed effimera: perché mentre egli, dominando le cose, pensa di poter meglio realizzare se sesso, in realtà non domina le cose, ma semmai ne è dominato, nello stesso tempo in cui si allontana sempre più da se stesso.
Questo aggrapparsi alle cose è appunto tipico delle epoche di decadenza; nelle epoche di pienezza spirituale, l’uomo non si aggrappa alle cose, ma con tenace energia e con chiarezza di visione punta dritto alla realizzazione del proprio essere, sbarazzandosi di tutto quanto è superfluo sul piano grossolanamente materiale.
È questo, crediamo, che Drieu La Rochelle intendeva, allorché affermava che l’uomo moderno ha bisogno di ben altro, che di costruire sempre nuove macchine; nessuna macchina potrà mai riempire il suo vuoto, la sua nostalgia, la sua infelicità. L’uomo moderno, cioè l’uomo radicale, è infelice perché si è rinchiuso con le sue stesse mani in una terribile prigione, e questo proprio mentre - il paradosso è solo apparente - si impegna per conquistare sempre nuovi diritti e sempre nuovi spazi di libertà individuale.
La vera libertà, infatti, non è mai puramente individuale; non può mai essere concepita separatamente, o addirittura in opposizione, a quella delle altre persone - a meno di retrocedere queste ultime, come ora sta avvenendo, al ruolo di semplici individui.
La vera libertà è, innanzitutto, libertà di divenire se stessi: il che non può avvenire contro il tu, ma insieme ad esso; né può avvenire senza l’Essere o al di fuori dell’Essere, ma solo in unione e in armonia con l’Essere da cui ogni cosa discende e ogni cosa aspira a ritornare.