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I rapporti con l’estero d’Israele (I parte)

di Pietro Longo - 01/04/2010


    
I rapporti con l’estero d’Israele: 1a parte

L’Antefatto

La notizia che circolava per le redazioni dei principali quotidiani di tutto il mondo già da qualche tempo alla fine è arrivata. Il governo britannico ha deciso di espellere un diplomatico israeliano per l’avvenuto uso di passaporti del Regno Unito in occasione dell’assassinio di un leader di Ḥamās a Dubai.

L’antefatto risale al 20 gennaio, quando Maḥmūd al-Mabḥūḥ è stato trovato privo di vita nella sua camera d’albergo. L’esecuzione sarebbe stata ordita e attuata da un gruppo di undici persone, munite di passaporti inglesi appartenenti ad individui realmente esistenti e che abitano in Israele. In altre parole, i documenti presentavano delle generalità reali e sono stati modificati unicamente per la fotografia e la firma. Le autorità che stanno indagando sull’accaduto, ritengono che probabilmente i passaporti sono stati sottratti e fotocopiati dallo staff dello stesso albergo in cui alloggiavano i nazionali britannici. Gli inquirenti inoltre sospettano fermamente che l’omicidio possa essere stato commissionato dal Mossad e che gli stessi esecutori siano stati degli agenti dei servizi segreti.

La vittima era sospettata di essere in viaggio verso l’Iran per concludere un affare che avrebbe dovuto rifornire la striscia di Gaza di missili iraniani. C’è da dire che i servizi segreti israeliani hanno già condotto azioni simili, impiegando documenti falsi. Nel 1997 un attentato ai danni del capo del movimento islamico palestinese, Ḫālid Maš’al, fu condotto da individui muniti di passaporto canadese e nel 2004 la Nuova Zelanda interruppe le relazioni con Israele dopo aver scoperto che gli agenti usavano identità neozelandesi.

Israele in merito all’accaduto ha commentato declinando ogni responsabilità e sottolineando che non esistono prove per affermare il coinvolgimento del Mossad. Come già avvenuto, quando su un’azione ricade la possibilità o semplicemente il sospetto che si celi la mano dei suoi servizi segreti, Tel Aviv rifiuta di fornire qualsiasi commento, assumendo un atteggiamento ambiguo.

Nuove ricerche della polizia di Dubai stanno svelando piste fin’ora ignote, mentre almeno altre 15 persone sono state registrate nel libro degli indagati, con l’accusa di collusione all’omicidio. Fra questi, tre degli identificati erano in possesso di documenti australiani mentre il resto proverrebbe da differenti paesi europei. In tutto dunque si è trattato di un vero e proprio commando, composta da 26 persone, che secondo l’Interpol (alla quale è stato trasmesso il fascicolo relativo all’episodio dalle forze dell’ordine degli Emirati) avrebbero lasciato immediatamente il paese per trovare riparo nello Stato ebraico, tranne due membri che potrebbero essere scappati in Iran via mare.

Israele e Dubai non hanno relazioni diplomatiche ufficiali, considerando che tutti gli Emirati Arabi Uniti propendono per la causa palestinese e per la fine dell’occupazione. Tuttavia negli ultimi anni si erano intravisti segnali di apertura, in seguito ad una serie di incontri politici, seppur di scarso rilievo e soprattutto per l’incremento degli scambi commerciali. In più un giocatore di tennis israeliano, Shahar Peer, aveva ricevuto recentemente il placet del governo per disputare un incontro nel Dubai Championship.

I 26 indagati per l’assassinio del dirigente palestinese non sono entrati nell’Emirato giungendo da un medesimo paese, ma vi si sono incontrati partendo da continenti diversi. Ciononostante si tratta di Stati con i quali Dubai ha stretto accordi che permettono l’ingresso senza che venga rilasciato un visto preventivo dalla rete consolare. Ciò ha fatto in modo che la squadra riuscisse ad entrare a Dubai, servendosi di documenti appartenenti ad altre persone, dotate di doppia nazionalità. Quanto accaduto ha indotto le autorità aeroportuali dell’Emirato a innalzare il livello di controllo, nei confronti di chiunque possieda un duplice passaporto.

La reazione più vistosa tra i paesi coinvolti in questa vicenda è arrivata dal Regno Unito. Il Ministro degli Esteri, David Milliband, ha chiesto all’Ambasciata israeliana di espellere dal paese uno dei suoi funzionari. La diplomazia britannica ha precisato che formalmente l’accusa non è relativa alla collusione del Mossad con l’omicidio di al-Mabḥūḥ, fatto questo non ancora suffragato dalle prove necessarie, ma circa la responsabilità dei servizi segreti nell’attività di clonazione dei documenti. Milliband ha anche annullato la partecipazione alla cerimonia di inaugurazione a Londra dei nuovi locali della sede diplomatica israeliana. L’espulsione è un tipo di sanzione decisamente poco comune, anche se proprio il governo inglese l’aveva adoperata sempre ai danni del personale israeliano in due occasioni nel 1987 e nel 1988. In questo nuovo caso, il destinatario sarebbe il responsabile del Mossad presso la missione diplomatica di Tel Aviv nel Regno Unito. Il governo israeliano ha risposto con una nota di disappunto , ma sottolineando che le relazioni tra i due paesi non sono a rischio, dal momento che sono di “mutuo interesse”.

Ḥamās ha commentato la vicenda come un “passo importante ma insufficiente”. Nell’ottica del portavoce del movimento, Fawzī Brahūm, l’episodio di Dubai è la dimostrazione che Israele impiega forme di terrorismo per risolvere le dispute politiche.


Lo Stato delle Relazioni Diplomatiche Israeliane


  1. I “Nemici di Israele”

Fin dall’anno della sua fondazione, il 1948, lo Stato di Israele ha riscosso il sostegno principale al di fuori della regione in cui si trova inserito. Tutt’oggi lo Stato ebraico non ha alcun rapporto con 37 paesi, 20 dei quali fanno parte della Lega Araba. Gli unici due paesi arabi che continuano ad avere relazioni politiche e economiche sono Egitto e Giordania, in forza dei rispettivi trattati di pace siglati dopo la Guerra del Kippur. Gli Stati della Penisola Araba hanno isolato di fatto Israele, specie dopo che nel 2009, a seguito dell’Operazione “Piombo Fuso”, il presidente siriano al-Asad lanciò alla Conferenza di Doha, in Qatar, l’iniziativa di sospendere ogni tipo di rapporto, diretto e indiretto. Una serie di questi paesi, oltre a non intrattenere relazioni di alcun tipo con Tel Aviv, non hanno nemmeno mai riconosciuto l’esistenza dello Stato. Tra di essi vanno annoverati l’Afghanistan, l’Algeria, l’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran, l’Iraq, il Kuwait, il Libano, la Libia, il Sudan, il Pakistan, la Siria e lo Yemen.

Le ragioni di questa situazione, che ha sempre obbligato i governi a ricercare un sistema di alleanze fuori dal quadrante vicinorientale, sono endemiche e vanno ascritte al “particolarismo israeliano”. Questa espressione non solo si riferisce alla diversità storica, religiosa e culturale dello Stato ebraico rispetto all’habitat arabo-islamico circostante, ma risiede proprio nella sua “ebraicità”. Il giudaismo e la sua storia hanno nutrito la propaganda del Sionismo, perorato soprattutto da ebrei secolarizzati. Questo a sua volta si può ritenere come una manifestazione del moderno nazionalismo ed una risposta al diffuso antisemitismo europeo degli ultimi due secoli. La politica estera israeliana, dacché esiste, è stata dunque intimamente influenzata dalla lettura giudaica della storia. Un esperto di relazioni internazionali israeliane, Bernard Reich, ha anche sottolineato che il profondo senso della storia (ebraica) del popolo israeliano ha creato una sorta di tendenza alla ghettizzazione e al vittimismo, elementi sui quali Tel Aviv ha edificato la sua politica estera e di sicurezza (L. C. Brown, a cura di, Londra, 2006). Le tesi di Theodor Herzl espresse nel celebre pamphlet “Der Judenstaat” si basavano proprio su una rilettura strumentale della tradizione ebraica e allo stesso modo la “Legge sul Ritorno” adottata dalla Knesset nel 1950, due anni dopo la nascita dello Stato, fu un mezzo che legalizzava un principio cardine del giudaismo, quello cioè della diaspora e della conseguente necessità di fare ritorno alla Terra Promessa ossia Eretz Isra’el.

Circa l’estensione di questa terra esistono diverse definizioni che variano a seconda del metro di giudizio assunto: da un punto di vista teologico, ossia sulla sola base della concezione giudaico-cristiana, il territorio del Grande Israele è delineato chiaramente nel Libro della Genesi 15:18-21 e comprende un’area estesa da est verso ovest dall’attuale Iraq all’Egitto (dall’Eufrate al Nilo) e dalla Turchia all’Arabia Saudita, procedendo da nord a sud. Ovviamente si tratta di un progetto irrealizzabile e lo stesso Olmert nel 2008 ha dichiarato che “non esiste più nulla di quello che si poteva considerare il Grande Israele” e che “quanti ci credono ancora resteranno tremendamente delusi”.

Dunque la teoria di un Israele esteso “dal fiume al fiume” non ha mai avuto un reale peso politico e non è mai stato un programma auspicato dai partiti. Piuttosto il progetto di uno Stato esteso “dal fiume al mare” (dal Giordano al Mediterraneo) ha sempre costituito il fine reale dell’azione espansionistica di Tel Aviv. Oggi il fiume Giordano costituisce la linea di demarcazione tra il West Bank (o Cisgiordania) ed il Regno di Giordania, tranne che per una piccola porzione di territorio settentrionale, nei pressi di Nazareth e del Lago di Tiberiade, in cui il fiume, unendosi ai suoi affluenti principali, solca il territorio israeliano.

Ma nel 1967, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, lo Stato ebraico aveva realizzato il suo proposito, occupando militarmente tutti gli attuali territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza) ed arrivando così a confinare direttamente con la Giordania. Inoltre la presa delle Alture del Golan, annesse nel 1981 e tutt’ora rivendicate dalla Siria, forniva il pieno controllo del Lago di Tiberiade che è il principale bacino di raccolta di acqua dolce di quel quadrante ed è alimentato dallo stesso fiume Giordano. Questo scorrendo da nord a sud per 320 km, sfocia nel Mar Morto ma durante il suo corso meridionale si restringe fino a diventare un torrente che scorre attraverso la piana arida del Negev. Per questo motivo, nel 1964, Tel Aviv aveva completato la costruzione del National Water Carrier ossia una grande arteria di distribuzione idrica, capace di arrivare dalla Galilea fin dentro alle zone più desertiche. Il progetto di un’estensione dal “fiume al mare”, all’indomani della guerra del 1967, si arricchiva anche dell’occupazione della Penisola del Sinai, sottratta all’Egitto. La successiva guerra del Kippur del 1973 ristabilì gli equilibri, allorché Israele venne obbligato a restituire il Sinai ma non il Golan, fatto che aprì la strada ai dialoghi israelo-egiziani e israelo-giordani e alla firma di una “pace separata” rispettivamente nel 1978 e nel 1994.

Lo storico accordo di Camp David, siglato da al-Sadat e Begin, servì a Israele a trasformare la principale minaccia araba, contro la quale erano state combattute ben cinque guerre, in un vicino neutrale. Ciononostante il governo del Likud commise un grave errore ipotizzando che questa manovra avrebbe comportato uno spill-over di buoni sentimenti nei confronti di Israele in tutto il mondo islamico. Piuttosto i paesi della Lega Araba risposero esattamente al contrario, prendendo la decisione di marginalizzare l’Egitto e spostando addirittura dal Cairo la sede dell’organizzazione. Questo gesto ebbe una risonanza enorme, dato che l’Egitto era (ed è tutt’ora) considerato un punto di riferimento dell’Islam sunnita, molto più dell’Arabia Saudita, nonostante i luoghi santi si trovino entro quest’ultimo paese.

Quanto ai rapporti giordano-israeliani, a 16 anni di distanza dall’accordo di pace, che auspicava una soluzione dei problemi per l’intera regione, tra i due paesi si è passati da una “pace fredda” ad una vera “guerra fredda”. Risolte le questioni relative all’approvvigionamento idrico, con la divisione in tre settori del Mar Morto (uno israeliano, uno palestinese e uno, più lungo, per la Giordania) e superate le velleità di ‘Ammān sul West Bank (al quale la monarchia rinuncerà definitivamente nel 1988) il trattato di pace in concreto non risolveva il nodo centrale del “diritto al ritorno” della popolazione palestinese, migrata fin dal 1948 e stabilitasi nei campi profughi giordani. L’accordo semplicemente rimandava la trattazione della questione agli accordi di pace tra i due popoli, quello israeliano e quello palestinese, a loro volta ancora irrisolti. In Giordania abitano ad oggi circa 1,9 milioni di palestinesi, una comunità piuttosto “ingombrante” capace di reagire in maniera diversa a seconda del bilanciamento tra l’idea di Stato palestinese e la cosiddetta ”opzione giordana”. In altre parole, più si allontana il processo di pace in seno alla causa israelo-palestinese e più si riaccende la possibilità per i profughi di restare pro tempore entro il regno hāšemita. Viceversa se una patria per i palestinesi dovesse venire creata, il governo giordano accoglierebbe di buon grado il trasferimento di tutti gli sfollati, concretizzando il trattato di pace con Israele ed allontanando il riemergere della possibilità di uno “Stato dentro lo Stato”, che già in passato diede vita ad episodi come quello del “Settembre nero” del 1970. In buona sostanza la Giordania prima della stipula del trattato di pace non si trovava in una condizione di belligeranza, né aveva mai ipotizzato di condurre unilateralmente un’azione di guerra contro Israele, data la consapevolezza dello squilibrio militare al confronto con lo Stato ebraico. Considerando come i rapporti non siano cambiati radicalmente, essendo rimasta irrisolta la questione più spinosa, si potrebbe concludere che il trattato di pace fu completamente inutile. Questo sarebbe indubitabile, se non fosse che Tel Aviv ha sperato quanto meno di potersi servire della monarchia giordana per contrastare il passaggio verso i Territori di mezzi, armi e munizioni, destinati ad ingrossare le fila della resistenza.

Ma se dati questi eventi si può spiegare come mai Egitto e Giordania siano gli unici paesi arabi ad avere relazioni con Tel Aviv, alla luce dell’importanza idrica vitale del Giordano settentrionale invece si spiega il persistente stato di belligeranza tra Israele e Siria. Entrambi i paesi hanno un interesse strategico per quanto riguarda il controllo del Lago di Tiberiade e se Israele cedesse nuovamente il Golan al suo legittimo proprietario, sarebbe costretta a condividere con la Siria questo bacino, che verrebbe diviso in due sezioni, sulla falsariga del Mar Morto. Viceversa Damasco ha posto la restituzione delle Alture come condicio sine qua non per procedere al riconoscimento dello Stato ebraico ed alla normalizzazione dei rapporti. Dato il costante rifiuto di Israele, il regime siriano ha fatto fronte comune con l’Iran e alcuni movimenti libanesi (soprattutto con Hezbollah), ossia con attori coi quali condivide un atteggiamento poco incline al dialogo, a meno che non vengano rispettate delle condizioni avvertite come inderogabili. Recentemente nella questione è intervenuta la Turchia, che in nome della politica di “azzeramento dei problemi con i vicini” lanciata dal primo ministro Erdoğan, ha cercato di porsi come “onesto broker” nelle tante questioni insolute del mondo arabo-islamico.

A sua volta la Turchia, che per ovvi motivi non fa parte della Lega Araba, ha avviato rapporti diplomatici ed economici con Israele fin dal 1949. I due paesi hanno sviluppato una stretta collaborazione, sulla presunta base di condivisione di sentimenti comuni di liberalismo e democrazia. Sia gli Stati Uniti che Israele infatti, sono stati considerati da Ankara proprio sotto la prospettiva di una convergenza ideologica che ha fatto in modo di classificare i primi due in termini di “amici” rispetto ai paesi arabi dell’area che invece sono stati pressoché dei semplici “vicini”. La differenza risiede proprio nei valori sui quali si fonda lo Stato turco (le 6 frecce del Kemalismo: repubblicanesimo, nazionalismo, populismo, statalismo, laicismo e rivoluzionarismo) rifiutati categoricamente in blocco o solo parzialmente accettati dai regimi arabi circostanti. Le relazioni turco-israeliane si incrinarono in occasione della Guerra dei Sei Giorni ma migliorarono sensibilmente in occasione degli Accordi di Oslo. Sulla base di queste premesse, la Turchia mentre intesseva buoni rapporti con Israele, sul finire degli anni ’80 rischiava di scendere in guerra contro la Siria e si scontrava verbalmente con la Repubblica Islamica iraniana, nata nel 1979 da presupposti completamente opposti. Nel 1996 si arrivò ad uno storico accordo di cooperazione con Tel Aviv, basato su tre pilastri: sul piano economico fu stabilita una zona di libero scambio, sul piano militare e della difesa venivano condivise informazioni di intelligence e svolti programmi congiunti di addestramento dei militari. Inoltre l’accordo serviva anche a dare una risposta adeguata all’avvicinamento avvenuto in quegli anni tra Siria e Grecia in funzione anti-turca. Ancora nel 2006 Tzipi Livni, Ministro degli Esteri israeliano, definiva eccellenti i rapporti tra il suo paese e la Turchia, non solo a livello personale di contatti tra i politici ma anche tra le rispettive popolazioni.

La cesura è avvenuta in occasione della cosiddetta Operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009, violentemente attaccata dalla Turchia. Qualche giorno dopo la prima incursione aerea su Gaza, il 27 dicembre 2008, Erdoğan e Olmert si incontrarono per discutere lo stato dei dialoghi segreti israelo-siriani, partiti almeno un anno prima sotto la mediazione turca. Ankara tradizionalmente si era astenuta dal prendere una posizione nella questione palestinese, dato che appoggiare una causa di autodeterminazione sarebbe apparso in netta contraddizione con lo strenuo contrasto all’indipendentismo curdo. Ma l’ingresso nel 2002 del partito AK sulla scena politica ha conferito una nuova spinta ai principi sui quali si basa la diplomazia turca e per converso l’assunzione nel 2009 di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per un periodo di due ann ha portato la Turchia a condannare duramente l’aggressione israeliana, ad allentare i rapporti e di conseguenza a terminare l’attività di mediazione con la Siria.

Lo stesso Primo Ministro turco aveva alzato i toni nei confronti dell’altro alleato strategico, gli USA, già in occasione della richiesta di impiegare le basi di Incirlik (ad est della penisola anatolica) per l’attacco all’Iraq nel 2003. Il contemporaneo allontanamento turco dagli Stati Uniti e da Israele è collegato e si può spiegare considerando la strategia di Washington, in risposta al disastro iracheno, di favorire la formazione di una enclave autonoma nel Kurdistan iracheno pronta a stabilire accordi di partenariato con Tel Aviv. L’esistenza di uno Stato semi indipendente dei curdi avrebbe aumentato la possibilità di emulazione da parte dei curdi turchi del PKK. In ragione di ciò Ankara ha riallacciato i rapporti con la Siria e, fatto ancor più grave per Israele, con l’Iran.

Le relazioni tra Siria e Israele quindi non hanno conosciuto un sostanziale sviluppo proprio nel momento in cui esisteva un canale di dialogo che avrebbe potuto preludere ad un cambiamento. Dei negoziati sotto la mediazione statunitense si erano già avuti nel 2000 in West Virginia ed erano falliti più che altro per la posizione irriducibile dell’allora primo ministro Ehud Barak, non disposto a ritirare le truppe entro i confini pre-1967. In quell’occasione però il presidente siriano Ḥāfiẓ al-Asad fece molte concessioni e Bill Clinton, presidente alla Casa Bianca, cercò di convincerlo a Ginevra a rendersi disponibile alla concessione più grande: la cessione ad Israele dei territori ad est del Lago di Tiberiade. Il rifiuto del capo di Stato siriano oltre a far saltare i colloqui, sarebbe stata anche l’ultima importante decisione della sua vita, che terminò nel giugno dello stesso 2000.

La nuova fase di dialoghi mediata dalla Turchia cadde in un momento infelice, sia per i motivi che stavano distanziando Ankara dall’asse USA-Israele, sia per motivi interni al governo di Tel Aviv guidato da Olmert. L’opinione pubblica israeliana era già rimasta sufficientemente influenzata dal ritiro dal West Bank e da Gaza nel 2005 e avrebbe mal sopportato una ulteriore “concessione” territoriale. Inoltre fin dai tempi della guerra civile libanese e dell’Operazione “Pace in Galilea” degli anni ’80 era emersa la forza di Hezbollah, manifestatasi in tutta la sua chiarezza nell’estate del 2006, durante la “guerra dei 34 giorni”. Inoltre non solo sul fianco settentrionale l’Israel Defence Force doveva proteggere i confini dai movimenti organizzati di resistenza ma anche entro gli stessi Territori, il ritiro delle truppe aveva causato il rafforzamento di Ḥamās che nel 2006 vinceva contro Fataḥ le elezioni generali in Palestina e che conseguentemente combatteva proprio con lo schieramento di Abū Māzen una guerra civile per mantenere il controllo del territorio.

Dal canto suo la Siria, apostrofata dopo il 9/11 dal presidente Bush come uno dei paesi dell’axis of evil o “asse del male”, assieme alla Corea del Nord e a Cuba, finì per trovarsi in una condizione di isolamento internazionale forzato e per uscirne non poté fare altrimenti che legarsi all’Iran e ad Hezbollah. Il presidente al-Asad figlio ha dichiarato più volte dopo la guerra all’Iraq del 2003 la sua disponibilità a dialogare per il Golan e i Presidenti dei due paesi si sono pure incontrati ai funerali di papa Giovanni Paolo II a Roma nel 2005. In quello stesso anno i soldati siriani lasciarono il Libano e durante un discorso alle Camere il Presidente ribadì la sua disponibilità a riprendere i negoziati, laddove nel 2000 si erano interrotti. L’accostamento di Damasco alla Turchia, ben più recente, ha condotto fino ad ora alla stipula di accordi di cooperazione, nell’ottobre del 2009 ad un accordo di libero passaggio tra i confini dei due paesi ed alla formazione di un Alto Consiglio di Cooperazione Strategica, organismo simile a quello già esistente tra Turchia e Iraq.

L’Iran è probabilmente il più grande “nemico di Israele”. Eppure guardando alla storia dei due paesi, non è un mistero che durante il regno degli ultimi sovrani Pahlavi, Tehran e Tel Aviv abbiano avuto molti rapporti economici e politici. Israele guardava all’Iran come ad un alleato naturale, dato che non è un paese arabo. Ben Gurion, uno dei padri fondatori dello Stato ebraico, elaborò una grande strategia, nota con il nome di “alleanza dei paesi periferici” secondo la quale Israele doveva ricercare alleanze militari fra i paesi non arabi nelle periferie del Vicino e Medio Oriente, ossia in Turchia, Iran e India. Durante la guerra del 1967, Tehran fornì il petrolio necessario per continuare le ostilità, considerato il Grande Gioco anti-arabo iraniano e servendosi della pipeline Eilat-Ashkelon, nota anche come linea “Trans-Israeliana”, costruita in quegli anni per veicolare il petrolio iraniano verso l’Europa.

L’atteggiamento mutò con l’arrivo dell’ayatollah Ḫumaynī e il successo della Rivoluzione Islamica. Israele adesso era divenuto il “piccolo Satana” accanto al “Grande Satana” costituito dagli USA. La situazione è rimasta praticamente immutata da allora, considerando che l’avvento dell’ayatollah Ḫāmene’i non ha condotto a sostanziali miglioramenti. Neppure fra il 2000 ed il 2005, durante la presidenza del riformista Ḫātamī, la considerazione di Israele riuscì a migliorare e si continuava a ritenerlo uno “Stato illegale”.

Dal 2005 l’Iran è guidato da Aḥmadī-Nağād, leader dello schieramento Ābādgarān, ideologicamente conservatore, islamico (nel senso di portatore di una visione integralista) e populista. Costui ha lanciato diversi appelli contro lo Stato ebraico e contro la politica occidentale nell’area, specie in opposizione alla questione del programma nucleare. Tehran sostiene di voler conseguire la tecnologia atomica a scopi civili, quindi in sostanza per la produzione di energia, fatto di per sé strano considerando le enormi riserve di gas e petrolio che possiede, ma più logico se si tiene conto che esse sono attualmente destinate in larghissima parte al consumo interno. È ben probabile che i continui appelli alla distruzione di Israele servano piuttosto al regime per creare un capro espiatorio al di fuori del paese, per nascondere alla comunità internazionale i problemi economici e per distogliere la stessa opinione pubblica nazionale, contrastando così la dissidenza interna, molto attiva specie nell’ultimo periodo.

D’altro canto Israele al momento è l’unico paese dotato di un arsenale atomico nell’area e dunque è molto geloso della propria superiorità strategica. In realtà Tel Aviv non è riconosciuto fra i paesi dotati di armi atomiche, secondo i parametri del Trattato NPT (Nuclear Non-Proliferation Treaty) e sull’argomento ha mantenuto sempre una certa ambiguità strategica. Il braccio di ferro tra i due Stati è arrivato ai ferri corti di recente, in seguito alla dichiarazione iraniana del raggiunto livello di 20% di arricchimento dell’uranio. Questo dato rientra nella strategia mediatico-propagandistica del paese persiano, atta a creare pressione internazionale. Infatti il livello raggiunto non è ancora sufficiente a costruire armi di distruzione di massa, né tanto meno è indice di un prossimo traguardo. Tuttavia ha sortito l’effetto che il regime iraniano sperava, ossia quello di un passo falso da parte dei nemici occidentali e soprattutto da parte israeliana. Tel Aviv spinge per l’aggressione militare, mentre gli USA hanno già messo in cantiere l’idea di colpire Tehran con “sanzioni paralizzanti”. In entrambi i casi, dal punto di vista delle masse popolari, l’Iran finisce per apparire come la vittima dell’imperialismo occidentale, e quindi dalla parte del giusto.

Il pericolo maggiormente avvertito da Israele non è tanto che l’Iran si doti di armi atomiche, che comunque date le distanze necessiterebbe di opportune tecnologie balistiche. Probabilmente Tel Aviv avverte una minaccia insostenibile circa il problema della “proliferazione nucleare” nel Vicino Oriente. In altre parole ciò che più si teme è che queste armi CBRN (chimiche, batteriologiche, radiologiche e nucleari), eventualmente una volta realizzate, possano finire nelle mani dei gruppi di “resistenza islamica”, primi fra tutti gli Hezbollah libanesi, accusati di aver assunto il ruolo di Iranian Western Command.

Israele ed il Libano non hanno mai avuto rapporti politici ed economici normali anche se Beirut è stato il primo paese a firmare un accordo di pace nel 1949 dopo la Nakba, ossia la disfatta araba subita all’indomani della nascita dello Stato ebraico. Benché il paese dei cedri non abbia partecipato alle guerre del 1967 e del 1973, ha dovuto subire un’invasione israeliana finalizzata a colpire la resistenza palestinese. Fu in quell’occasione che la milizia del Partito di Dio ottenne i primi successi, ripetuti nel 1996 durante l’Operazione “Grappoli d’Ira” e nel 1978 durante l’Operazione “Litani”. Parallelamente, il clima degli Accordi di Oslo, se spianava la strada al trattato di pace con la Giordania, non riusciva a sortire lo stesso effetto nei confronti del Libano che restava dominato dalle forze della resistenza. Un’altra vittoria significativa fu conseguita dal movimento nel 2000, allorquando l’ONU impose il ritiro israeliano al di sotto della “linea blu”, tracciata come confine tra Libano e Israele. Irrisolta rimase la questione delle fattorie di Šaba’a, ossia una porzione di territorio contesa tra i due paesi. Israele ne rivendica l’autorità sulla base dell’occupazione del Golan. Gli oppositori fanno leva sul fatto che le Alture sono state occupate forzatamente e quindi la sovranità israeliana è illegale, di conseguenza lo è anche quella sulle fattorie. In forza di questo sillogismo si spiega anche l’asse tra la Siria ed il movimento di Hezbollah, che trova un punto a suo favore anche nella comune fede musulmana ši’īta.

In occasione della festività musulmana del mawlīd al-Nābī che quest’anno si è celebrata a febbraio, il Presidente siriano, quello iraniano ed il capo di Hezbollah Naṣr Allāh si sono incontrati a Damasco dove hanno rinsaldato la loro alleanza. Appena qualche giorno prima, il segretario di Stato Clinton, aveva chiesto alla Siria di prendere le distanze dalla condotta iraniana e di cessare il rifornimento di armi al Partito di Dio. In tutta risposta i due Capi di Stato hanno preso la decisione di eliminare ogni restrizione per quanto riguarda l’entrata e l’uscita dai rispettivi paesi.

Per quanto riguarda gli armamenti di cui Hezbollah dispone, lungi dall’essere stati sospesi i rifornimenti, prima dello scontro con Israele dell’estate del 2006 da parte siriana erano giunti consistenti aiuti che sono stati in parte impiegati. Si ritiene che damasco abbia fornito stazioni mobili di lanciarazzi, come il BM-27 Uragan di inconfondibile manifattura sovietica (e non è mai stato un segreto che Damasco abbia avuto una relazione particolare con l’URSS durante tutta la guerra fredda) i missili B302, da 302 millimetri, di manifattura siro-cinese e ancora i razzi Grad-type Katyusha da 122 millimetri, anch’essi made-in-Moscow e con una gittata variabile da 30 a 50 kilometri.

Da parte iraniana, il Partito di Dio è stato armato con missili Fağr 3, calibro 240 e con un range massimo di 45 kilometri e con i ben più poderosi Zelzal 1, 2 e 3. Ascritti tra l’artiglieria pesante, questi esplosivi dal provocante nome di “terremoto” hanno un calibro di 610 millimetri ed una gittata di 210 kilometri e benché siano stati classificati come SRBM (short-range balistic missile) hanno la capacità teorica di veicolare una testata nucleare. Esistono infine anche equipaggiamenti shore-to-ship ossia i missili Nur C802, esplosi il 14 luglio ai danni della marina israeliana.

Quanto all’Iran non possiede ancora tecnologie nucleari da guerra, ma possiede verosimilmente i vettori necessari per trasportare una testata da Tehran a Tel Aviv (circa 1598 kilometri) cioè un missile balistico medium-range, capace di coprire una distanza compresa tra i 1.000 e 3.000 km. I Sağil 1 e 2 (noti anche come Ġadr-110 e Ašūra) sono missili balistici strategici in grado di coprire una distanza di almeno 1930 kilometri. Classificati come MRBM, sono stati sperimentati con successo nel novembre del 2008. In precedenza l’Iran aveva sviluppato anche altri missili a medio raggio, gli Šahāb (categorie da 1 a 6) che però non sono stati mai esplosi e probabilmente mai realizzati su grande scala.

Per concludere, è necessaria una disamina degli armamenti di cui dispone Israele. L’esercito consta di divisioni di fanteria, aviazione e marina. La fanteria è dotata di fucili M16, M4 (e la variante M4A1) e armi d’assalto CAR-15, tutti di manifattura statunitense e prodotti dalla Colt. Benché Tel Aviv importi i suoi equipaggiamenti soprattutto dagli USA, esiste un’industria di stato di armi, di nome Israel Militar Industries. Questo marchio è diventato famoso per l’invenzione delle pistole-mitragliatrici Uzi, esportate in tutto il mondo e riprodotte. Si ritiene che entro breve l’esercito verrà dotato essenzialmente di armi di produzione locale, come i fucili automatici Tavor e MicroTavor da 5 millimetri, gli ACE e i Galil che sono classificati come armi d’assalto. La stessa industria produce anche le mitragliatrici leggere non da postazione Negev che sostituiranno le MAG prodotte dalla Fabrique Nationale belga. Quanto invece alle armi pesanti, l’esercito è dotato di Browning M2 e lancia granate Mk19, prodotti negli Stati Uniti. Infine per colpire veicoli corazzati, sono impiegati RPG7 e M72 LAW, quest’ultimo un anti-carro leggero di manifattura americana mentre il B300 è prodotto dall’IMI. In diverse campagne sono stati impiegati anche missili TOW e Spike teleguidati, più precisi dei comuni missili anti-carro.

Entro la fanteria sono compresi anche i reparti corazzati e l’artiglieria: quanto ai primi Israele produce i carri armati Merkava III e IV, quanto ai secondi l’industria Soltam realizza gli howitzer M-71. Gli USA forniscono anche gli howitzer M109 e il lancia razzi M270. Quanto ai missili, Israele produce gli short-range Lance, i Jericho 1 e 2 dispiegati nel Golan e i missili da crociera Popeye Turbo.

Tralasciando la marina, l’Israel Air Force consta di circa 750 velivoli posizionati in nove basi dislocate in tutto il territorio. I mezzi spaziano dai caccia F15 ed F16 ad aerei da trasporto e da rifornimento, fino agli elicotteri e ai velivoli senza pilota Hermes ed Heron.

(continua)


* Pietro Longo, dottorando in Studi mediorientali (Università l’Orientale di Napoli), è un frequente contributore di “Eurasia”