Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La perdita del sentimento creaturale riflette la scomparsa della categoria del “numinoso”

La perdita del sentimento creaturale riflette la scomparsa della categoria del “numinoso”

di Francesco Lamendola - 02/04/2010



L’intero genere umano si potrebbe dividere in due parti nettamente distinte: quella formata da coloro che avvertono il sentimento della propria creaturalità, che, a sua volta, è fatto dal senso del limite e dal senso del mistero nei confronti dell’Essere; e quella formata da quanti non l’avvertono e non l’hanno mai avvertito.
Non si tratta soltanto di due generi o di due tipi umani psicologicamente e spiritualmente diversi, ma quasi di due differenti specie umane, che non solo non possono condividere la medesima «Weltanschauung», ma che non possiedono nemmeno le medesime strutture di pensiero o le stesse categorie di rappresentazione della realtà.
Colui che si sente creatura avverte la presenza del “numen”, che non coincide con il “sacro”, poiché - per adoperare la terminologia del teologo  Rudolf Otto (1869-1937) - implica sia il “mysterium tremendum”, ossia il terrificante, davanti al quale l’essere umano è afferrato dal timore e dal tremore, sia la “tremenda majestas”, la sovrapotenza come inaccessibilità; sia, infine, il momento dell’”energico”  (volontà, forza, movimento, ecc.) e quello del  “completamento dell’altro” (l’ordine soprannaturale come completamento dell’ordine naturale).
Viceversa, colui che non ha mai provato alcunché del genere non è nemmeno in grado di capire quanti appartengono all’altro tipo: si tratta di due strutture mentali ed esistenziali totalmente differenti e pressoché impossibilitate a comunicare.
I primi due tipi umani dell’Occidente, l’uomo greco e l’uomo cristiano, rientravano entrambi nella prima categoria: per essi, la presenza del “numinoso” era una cosa ovvia e scontata, pur nella sua tremenda, affascinante alterità. La vivevano in maniera diversa, ma, quanto all’essenziale, si trovavano nella medesima condizione: l’uomo è un essere limitato e non deriva la propria esistenza da sé, ma da altro da sé; da qualcuno al cui cospetto si sente infinitamente piccolo.
Nel caso del’uomo cristiano, peraltro, il sentimento della propria creaturalità si arricchisce di una dimensione nuova: quella della paternità divina, che getta un ponte d’amore tra la sua inadeguatezza e l’incommensurabile potenza di Dio. In quanto figlio, l’uomo è, sì, una creatura piccola, ma non insignificante: anzi, tanto più significativa, in quanto che Dio stesso, nel farsi creatura, ha voluto rivestire la sua stessa natura. Ed è la gioia di questa consapevolezza che erompe da ogni parola, da ogni verso del «Cantico delle creature» di San Francesco d’Assisi, così come da ogni terzina e da ogni canto della «Commedia» di Dante.
Con il terzo tipo umano comparso nella storia occidentale, il borghese, il legame sacro e necessario fra la creatura ed il Creatore si appanna, si incrina, si allenta. L’uomo, in forza della sua intelligenza e della sua abilità (Boccaccio direbbe: della sua «industria»), si sente in gran parte emancipato da quel legame, che, di colpo, gli appare quasi come un pesante fardello; e scopre, per contro, la propria dignità, intesa come autonomia. «Aiutati, che Dio ti aiuta» diviene il suo motto, che si sostituisce al precedente: «Se a Dio piace»: l’accento si sposta così dal primo termine, il Creatore, al secondo, la creatura.
Si è molto insistito sulla “riscoperta” del concetto di dignità dell’uomo nell’Umanesimo e nel Rinascimento, a partire dal «De dignitate hominis», il “manifesto” della nuova età lanciato da Pico della Mirandola nel 1487; ma ciò non dovrebbe falsare la prospettiva sino al punto di negare che anche la cultura medievale serbasse un elevato concetto della dignità umana; solo che lo coltivava in maniera diversa. Per l’uomo medievale, la dignità dell’uomo coincideva con il suo unirsi a Dio, che, nel Cristo, si era fatto uomo a sua volta; per l’umanista, essa consisteva nel rivendicare la propria autonomia e, in ultima analisi, la propria autosufficienza.
Si capisce che ciò non sia sfociato automaticamente in un atteggiamento di ripudio del divino: l’Umanesimo, nella sua essenza, non è stato irreligioso e, meno ancora, pagano; tuttavia, le premesse del suo nuovo atteggiamento verso il trascendente, verso il sacro, verso il numinoso, erano tali che, in seguito - con la Rivoluzione scientifica del XVII secolo - non avrebbero potuto se non volgersi in quella direzione.
Che cosa significa, infatti, che l’uomo si sente autosufficiente, se non che egli non ha più bisogno della trascendenza e, quindi, che non avverte più quel sentimento di limite, di piccolezza, di timore e tremore davanti a ciò che è infinitamente più grande e che egli riconosce come propria fonte e come propria meta naturale? Il senso di autosufficienza è l’espressione di un atteggiamento di ateismo pratico, perché, se pure Dio non viene negato in modo esplicito, è come se la sua esistenza divenisse ininfluente per l’uomo. Quest’ultimo, infatti, si sente ora in grado di prendere la sua vita nelle proprie mani, di fare da sé, di decidere il proprio destino: il che è l’essenza della “rivoluzione” umanistica.
Se nel terzo uomo vi è ancora una problematica metafisica, tuttavia, è nel quarto tipo umano, ossia nel tipo post-moderno (o “uomo radicale”, come l’abbiamo altrove chiamato) che viene soppressa anche tale problematica e il sentimento creaturale non solo si attenua, ma scompare interamente. L’uomo radicale non conosce più drammi o conflitti con l’ambito del numinoso: lo ignora puramente e semplicemente; o, almeno, lo ignora a livello cosciente, perché, nel profondo della sua anima, le cose vanno altrimenti. Non è stato lo stesso Freud, il massimo teorico dell’uomo radicale, a riconoscere che quel Padre divino, cacciato dalla porta della consapevolezza, rientra, non invitato, dalla finestra e viene a turbare tutti i suoi istinti, a infiltrarsi nelle sue più segrete pulsioni, e sia pure come una ingombrante, ammirata e temuta figura che deve essere uccisa, cannibalizzandola, dalla cosiddetta “orda primitiva” dei suoi stessi figli?
Scriveva Rudolf Otto nel suo ormai classico «Il Sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale» (titolo originale: «Das Heilige Über  das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen», München, Oscar Beck, 1936; traduzione italiana di Ernesto Buonaiuti, Milano, Feltrinelli, 1966, pp.  19-22):

«Invitiamo il lettore a rievocare un momento di commozione religiosa e possibilmente specifica.
Chi non può farlo o chi non ha mai avuto di tali momenti è pregato di non leggere più innanzi. Perché è difficile di parlare di conoscenza religiosa a colui che può ricordare i suoi primi sentimenti dell’età-pubere, i propri disturbi digestivi o, magari, i suoi sentimenti sociali, ma non già sentimenti  spiccatamente religiosi. È da perdonare se per conto proprio si sforza, con i principî che sono a sua disposizione, di arrivare più lontano che può, e interpreta, per caso, l’estetica come diletto dei sensi, la religione come una funzione  d’impulsi sociali di un valore sociale o in maniera anche più elementare. Ma l’artista  che ha sentito in sé quello che è caratteristico dell’esperienza estetica, farà a meno delle sue teorie: molto più l’anima religiosa.
Invitiamo poi, nell’esame e nell’analisi di tali sentimenti e di tali stati d’animo di devozione solenne e di commozione, a tenere gran conto di ciò  che esse hanno dio comune con altre emozioni, per esempio con il sentimento di elevatezza morale che ci pervade nel contemplare una bell’azione, e di badare quindi a ciò che nel loro contenuto sentimentale hanno di più e di particolare. Qui senza dubbio incontriamo, come cristiani, anzi tutto dei sentimenti che, con minore intensità, ci erano di già noti in altri campi: sentimenti  di riconoscenza, di umile sottomissione e di devozione. Ma questi non esauriscono affatto il momento della religiosità, pia, né tradiscono i tratti specialissimi della solennità, quella singolarità della speciale commozione che soltanto qui si manifesta.
Lo Schleiermacher ha felicemente rilevato un elemento notevolissimo di tale esperienza: quello del sentimento della “dipendenza”. Ma due osservazioni si possono contrapporre alla sua importante scoperta.
In primo luogo, il sentimento di cui egli intende parlare, non è, per la sua qualità speciale, un sentimento nel senso “naturale” della parola, cioè tale, quale può riscontrarsi anche in altri campi della vita e dell’esperienza, prodotto dal riconoscimento della propria impotenza ed insufficienza di fronte alle relazioni con l’ambiente. Esiste una rispondenza fra questi sentimenti e quello messo in rilievo dallo Schleiermacher , il quale per mezzo di quelli può dunque essere segnalato, spiegato, meglio riferito al proprio oggetto, sì che divenga sentito e còlto per se stesso. Ma la cosa stessa nonostante tutte le somiglianze e tutte le analogie è qualitativamente diversa da tutti i sentimenti analoghi. Lo Schleiermacher stesso fa una distinzione vigorosa fra il sentimento di dipendenza religiosa e tutti gli altri sentimenti di dipendenza.  Ma il suo torto è d’aver ridotta la distinzione alle proporzioni appunto che corrono fra l’essenziale e il contingente, vale a dire: egli distingue solamente come l’assoluto e il relativo, il perfetto e un suo grado inferiore  senza conferire alla distinzione una qualità specifica.  Non si è avveduto che il chiamarlo anch’esso sentimento di dipendenza  fa sì che esso rimanga pur sempre una semplice analogia della cosa.  Si può dunque ora arrivare a trovare in sé, a mezzo di paragoni o di antitesi, ciò di cui intendo parlare ma che non posso indicare altrimenti, appunto perché è un dato originale fondamentale e quindi definibile solo da sé nel proprio animo?  Forse potrà essere di aiuto un esempio molto noto, nel quale proprio il momento di cui si tratta si è rivelato in maniera vibratissima. Quando Abramo (Genesi, 18, 27) osa rivolgere a Dio la sua parola sulla sorte dei Sodomiti, dice: “Mio sono fatto forza per parlare con te, io, che sono terra e cenere”.
Ecco un sentimento di dipendenza che si professa tale da se stesso, ciò che è pure molto di più e nello stesso tempo tutt’altra cosa qualitativamente, da tutti i sentimenti di dipendenza. Cerco una determinazione per la cosa e dico: “sentimento di essere creatura - il sentimento della creatura che s’affonda nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che sovrasta ogni creatura.
Si vede facilmente che neppure questa espressione dà una spiegazione concettuale della cosa.  Quel che infatti risulta qui non è soltanto ciò che la nuova denominazione può esprimere, il momento cioè dell’annientarsi e del riconoscere la propria nullità in confronto di una qualsiasi super-potenza, bensì di trovarsi al cospetto  di una tale super-potenza. è proprio questo “cotale”, questa speciale  qualità dell’oggetto, ineffabile ed inesprimibile in termine razionale è e può indicarsi soltanto in via indiretta  col particolare tono e contenuto della reazione stessa del sentimento che il suo apparire  nella coscienza suscita e che il soggetto sperimenta in se stesso.
L’altro errore dello Schleiermacher nella sua determinazione  è che egli attraverso il sentimento della dipendenza  o come noi diciamo ora attraverso il sentimento  creaturale vuole circoscrivere il contenuto caratteristico de sentimento religioso stesso. Secondo lui il sentimento religioso  sarebbe in primo luogo un auto sentimento immediato, un sentimento di peculiare determinatezza del mio io e precisamente  e precisamente della mia dipendenza. Soltanto mediante una deduzione, in quanto cioè  io posso immaginare una causa al di fuori di me,  si può stabilire, secondo Schleiermacher,  l’incontro col divino. Questo però è assolutamente contrario al dato di fatto spirituale.  Il sentimento di essere creatura è u soggettivo momento concomitante, ed  effetto di un altro momento sentimentale, che esso segue come un’ombra (vale a dire  al momento dello “sgomento”) il quale senza dubbio,  si riferisce primieramente  e direttamente ad un soggetto fuori dell’io.
Ma proprio questo è il numinoso.
Là dove il “nume” è sentito presente, come è il caso di Abramo, o là, dove si sente un qualche cosa  di carattere numinoso, o dove l’animo del proprio intimo si svolge verso di esso, , per ciò solo in conseguenza di un’applicazione della categoria del numinoso ad un oggetto reale o presunto, là può sorgere il sentimenti di essere creatura come suo riflesso.
Questo è un fatto di esperienza, così evidente che subito si impone allo psicologo, quando analizza l’esperienza religiosa,.  Nel suo libro “The Varieties of Religious Experience”, William James, accennando di passata alla genesi delle concezioni greche degli dei, dice, quasi ingenuamente:
“Non è nostro compito occuparci delle origini degli dei greci. Ma tutta la serie dei nostri esempi ci porta su per giù alla seguente conclusione: sembra che nella coscienza umana viva come una sensazione di qualche cosa di reale, il senso di una qualche presenza reale, la nozione di una esistenza obbiettiva, che è più profonda e più universale di qualunque singolo  e speciale senso, a mezzo del quale, secondo l’opinione della psicologia odierna, la realtà è comprovata.”
Poiché dal suo punto di vista empirico e pragmatistico egli è incapace di ammettere predisposizioni conoscitive ed una base ideologica nello spirito, deve quindi, per spiegare questo fatto, ricorrere a supposizioni alquanto strane e misteriose. Ad ogni modo intende perfettamente il fatto stesso ed è abbastanza realista per non rinnegarlo. Ma di questo sentimento di realtà, come dato primo e diretto, di tale sentimento del numinoso, preso oggettivamente, il sentimento di dipendenza o meglio il sentimento creaturale, è effetto consecutivo, e cioè una valorizzazione del soggetto sperimentale in se stesso.  O in altri termini, il sentimento di una “mia assoluta dipendenza” ha per presupposto un sentimento creaturale della inaccessibilità “sua”.»

Quando il sentimento creaturale si affievolisce e si spezza, l’esperienza del numinoso tramonta nel cielo della coscienza umana, sotto la duplice, concomitante pressione esercitata dalla laicizzazione e dalla secolarizzazione.
Secondo gli esponenti della “teologia negativa” novecentesca, il Dio che si nasconde per vedere come gli uomini, diventati adulti, sanno cavarsela da soli, è in qualche modo una conseguenza del rifiuto del “Dio tappabuchi”, ossia del Dio che interviene per supplire, con la sua potenza, alle mille imperfezioni e manchevolezze umane.
Certo, la teologia negativa prende le mosse da una constatazione ragionevole e condivisibile: quella della infinita, qualitativa distanza che separa il mondo creaturale dal mondo soprannaturale; constatazione che emerge con forza dalla speculazione filosofica di Sören Kierkegaard e che prosegue con la teologia di Rudolf Otto e di Karl Barth.
Vi è continuità, quindi, sul piano logico e anche su quello storico-religioso, fra la laicizzazione iniziata dall’Umanesimo, la Riforma protestante, la Rivoluzione scientifica del Seicento, il deismo illuminista e, più recentemente, tutte quelle forme e indirizzi della teologia liberale, specialmente protestante, che tendono a esplorare la possibilità, per l’uomo, di fare a meno della tutela di Dio e a vivere pienamente, responsabilmente, la propria autonomia.
Che cosa rimane, allora, della creaturalità e, per converso, del legame diretto e necessario fra creature e Creatore, fra enti ed Essere; che cosa rimane dell’esperienza del “numinoso” e della relativa esperienza di esso, nel segreto dell’anima?
Ben poco, crediamo.
Una volta che l’uomo ritenga di potersi fare misura di sé medesimo - e tutti gli attuali indirizzi della scienza sembrano spingerlo in tale direzione -, posiamo considerare l’esperienza del numinoso come una esperienza del passato, psicologicamente obsoleta e storicamente sorpassata, della quale egli non ha più alcun bisogno, lanciato, come orgogliosamente si sente, verso l’affermazione delle «magnifiche sorti e progressive».
Con quali esito, purtroppo, è sotto gli occhi di chiunque possieda ancora occhi per vedere, orecchi per udire e una mente per giudicare in tutta onestà intellettuale.