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Fare la pace con se stessi per poter vivere in pace col mondo

di Francesco Lamendola - 08/04/2010


È una di quelle verità talmente semplici ed evidenti che, paradossalmente, la maggior parte delle persone vive la propria intera esistenza senza vederle, pur passando accanto ad esse ogni giorno e ogni ora, sfiorandole e quasi andando ad inciamparvi sopra.
In breve, si tratta di questo: non si può vivere in pace con il mondo, se prima non si è imparato a fare la pace con se stessi.
Da che esiste l’umanità, dottrine politiche, filosofiche, psicologiche, sociali, religiose, economiche, hanno preteso di insegnare agli uomini la strategia per costruire un mondo migliore, dove TUTTI siano felici e vivano finalmente appagati, null’altro desiderando e cercando che il proprio completo benessere, materiale e spirituale. Alcune hanno indicato l’arduo cammino dell’ascesi e della rinuncia; altre, viceversa, si sono avviate con disinvoltura lungo i sentieri del piacere e del soddisfacimento di ogni più piccolo desiderio. Alcune hanno proclamato il dovere di essere giusti, inesorabili, spietati con gli oppositori del proprio Paradiso in terra; altre hanno predicato la pazienza, la tolleranza, l’amore.
Eppure, nessuna di esse è stata in grado di mantenere le proprie promesse; mentre non è stato raro il caso di quelle che, una volta giunte ad impadronirsi della società, vi hanno imposto un sistema complessivo molto simile a come solitamente ci si immagina debba essere l’Inferno.
Non sarebbe giusto, tuttavia, metterle tutte sullo stesso piano: perché, mentre alcune hanno realmente consentito a un gran numero di uomini e donne di avviarsi, almeno, nella giusta direzione, altre li hanno totalmente confusi e sospinti lungo strade lastricate di illusioni deleterie, di crudeli sofferenze e di continui conflitti con i propri simili.
Semplificando al massimo, potremmo dire che esiste un criterio di massima pressoché infallibile per distinguere le dottrine capaci di elevare effettivamente il livello di consapevolezza spirituale (e perciò di benessere) delle persone, da quelle che, al contrario, le alienano sempre più da se stesse e dall’armonia del Tutto: e tale criterio è, appunto, verificare se una determinata dottrina ponga come elemento centrale, irrinunciabile, oppure no, il fatto di giungere ad una pacificazione interiore; il che presuppone, a sua volta, la capacità di guardarsi dentro con lealtà ed onestà.
Può darsi che la cosa non sia del tutto evidente: tuttavia, se dovessimo dire quale sia la ferita più grande che la modernità ha inferto all’anima dell’uomo, senza esitazione risponderemmo che si tratta del disamore nei confronti di se stesso.
L’edonismo e il narcisismo oggi imperanti non contraddicono questa affermazione, ma, semmai, la confermano: perché l’esagerazione, di qualunque tipo essa sia, indica sempre, infallibilmente, l’esistenza di una realtà di segno opposto, che ci si sforza di nascondere o di camuffare, allo scopo di ingannare gi altri o di autoingannarsi.
La grande maggioranza degli uomini e delle donne che affollano le nostre città, che si stipano nei grandi magazzini, che si stordiscono nelle discoteche, non si amano e non si stimano; ed è proprio a causa di tale disamore e di tale disistima che fuggono la solitudine, perché solo chi è in pace con se stesso la può vivere serenamente, in ascolto della propria anima; mentre chi non lo è, fa di tutto per stringersi alla massa anonima degli altri, nella gran confusione ove tutti sembrano uguali e, perciò, pare che sia più facile portare il peso che è comune a tanti: quello del poco amore e della poca considerazione per se stessi.
Ma è un’illusione, evidentemente; e la ricetta è perfino peggiore del male.
Ora, la maniera più drastica del non volersi bene è il non essere disposti a perdonarsi; e, pertanto, vivere portandosi dietro un greve, opprimente senso di colpa.
Anche qui, le apparenze potrebbero facilmente ingannare: perché l’apparenza è che mai, come oggi, le persone siano state inclini a passare sopra i propri errori e le proprie colpe, dimenticandosene fin troppo in fretta e creando, così, le condizioni perché tali errori e tali colpe si ripetano altre dieci, cento e mille volte.
Di questa duplice apparenza, solo la seconda parte è vera, vale a dire la tendenza a reiterare, per insufficiente o assente esame interiore, sempre gli stessi sbagli, con stolida, monotona perseveranza; ma è errata la prima: perché il fatto di non mostrare rimorso o pentimento per i propri errori e per le proprie colpe non significa che il rimorso non vi sia e, forse, anche il pentimento: significa solo che la coscienza ha deciso di ricacciarli indietro, nelle pieghe più profonde dell’anima, il più lontano possibile dalla luce della consapevolezza.
Ma le colpe e gli errori, non perdonati e respinti nei livelli più nascosti dell’anima, fermentano, marciscono, imputridiscono: mandano un terribile cattivo odore, si riempiono di vermi che li percorrono in ogni senso, brulicando come un esercito schifoso e senza pace. È l’esercito delle furie infernali, che mai darà tregua a colui che ne è caduto vittima, per quanto egli possa stordirsi con mille diversivi e con mille ingannevoli distrazioni.
Ciascuno di noi è fatto essenzialmente di energia: energia che può diventare positiva o negativa, a seconda di come noi decidiamo di porci nei confronti della vita e di come siamo capaci di vivere le nostre emozioni.
Una cosa è certa: l’energia non può rimanere rinchiusa all’interno della persona. Essa preme per venire alla luce, per estrinsecarsi, per diffondersi tutto intorno; e, se viene ricacciata all’interno, si trasforma drammaticamente in energia distruttiva.
Quando la persona che inibisce la propria verità interiore, che non si perdona e che non si ama, ha finito di consumare tutta la propria energia innata, trasformandola in negativa, allora incomincia ad espellerla all’esterno, investendo coloro che le stanno intorno, a cominciare dai familiari e da quanti le vivono materialmente e spiritualmente più vicini.
È questa una delle principali manifestazioni del cosiddetto vampirismo psichico: l’anima sofferente, dilaniata dal proprio tormento, di cui - non di rado - non è neppure pienamente consapevole, cerca istintivamente di afferrarsi a quanti le stanno intorno, per succhiare loro l’energia che le è venuta a mancare. Chi possiede un certo grado di sensitività riconosce immediatamente questo genere di persone, la cui frequentazione può divenire non solo estenuante, ma anche pericolosa, se non si possiedono forti risorse di equilibrio psichico.
Altre manifestazioni sono la gelosia patologica, l’invidia cronica, la malevolenza sistematica, l’odio, il rancore, l’ardente desiderio di vendetta: perché, analizzando ciascuno di questi stati dell’essere, non si tarda ad accorgersi che ciò che li origina non è, veramente (come sembrerebbe), un sentimento negativo nei confronti del prossimo, ma un sentimento negativo nei confronti di se stessi.
Chi sia ama, non odia nessuno; chi è in pace con se stesso, non serba rancore per tutta la vita e non insegue la brama di vendicarsi, alla prima occasione, delle offese patite, vere o presunte che esse siano. Chi bandisce le crociate, chi predica la guerra e chi promette un Paradiso da imporre con la violenza, non possiede neanche un briciolo di amore e di stima per se stesso: se li avesse, saprebbe che tutto l’odio che egli rivolge ai supposti nemici esterni (di classe, di razza, di religione) non è che una proiezione del disprezzo che egli nutre nei confronti di se stesso.
Non bisogna credere a quanti dicono di essere pronti a fare qualunque sacrificio per amore della persona amata, ma si aspettano di ricevere in cambio almeno altrettanto: non sono capaci di amare gli altri, perché non amano se stessi.
Molte persone si puniscono oscuramente, imboccando strade sbagliate, per procurarsi sofferenze e per inibirsi la possibilità di essere felici: ad esempio, unendo la propria vita alla persona sbagliata e legandosi ad impegni gravosi, convinte - magari - di essere indispensabili al benessere del proprio compagno o della propria compagna; mentre è vero che hanno bisogno di quell’alibi per tenere in piedi la menzogna con se stesse.
Ad un livello ancora più profondo, quello che molti individui non riescono a perdonarsi è proprio il fatto di esserci. Il caso più semplice (si fa per dire) è quello di un uomo sopravvissuto alla morte di un fratello o di una sorella; di un marito sopravvissuto alla morte della moglie; di un genitore sopravvissuto alla morte del proprio figlio; e così via.
Oppure non ci si perdona di godere di una buona salute, mentre i propri congiunti sono affetti da gravi malattie fisiche o psichiche; o, ancora, non ci si perdona di aver avuto successo nella vita, mentre una persona cara, un parente stretto, un amico, hanno fallito su tutta la linea, e la loro sola presenza suona come un rimprovero e una muta protesta. Una sorella sposata si sente in colpa perché sua sorella non è riuscita a trovare marito; un impiegato si sente in colpa perché ha fatto un balzo di carriera, mentre il suo amico e collega è rimasto al palo, in posizione marginale.
Sono tutti casi abbastanza frequenti e riguardano tutti, quale più e quale meno, l’ambito delle problematiche psicologiche.
Ma il senso di colpa per eccellenza non ha niente a che fare con simili cose; si tratta di un sentimento molto più radicato e profondo, di una struttura ontologica dell’essere: il senso di colpa per il fatto di esserci, di respirare, di vivere, sottraendo vita, spazio e respiro ad altri, per esempio a quei ventiseimila bambini che muoiono di denutrizione, ogni giorno (tre al secondo, se si preferisce), in qualche parte dimenticata del nostro pianeta.
Naturalmente, non è vero che un essere umano, per il solo fatto di esistere, sottragga qualcosa a qualcun altro: questa visione cupamente darwiniana della vita, intesa come «mors tua, vita mea», è tutta da dimostrare e, a quanto ci risulta, non è mai stata dimostrata in maniera convincente. Tuttavia, una caratteristica della libertà morale degli esseri umani è quella di potersi tormentare (ma anche, all’opposto, deliziare) non solo con le cose reali, ma anche con pensieri e sentimenti del tutto ingannevoli ed illusorî. Noi non siamo condizionati dalle cose, dicevano i filosofi greci, ma dall’opinione che ci formiamo di esse.
Vi sono anche persone il cui poco amore per se stesse consiste nel fare di tutto per rendersi impossibile di essere felici: condannandosi al’infelicità, esse ritengono, di solito a livello inconsapevole, di aver saldato il proprio debito con la vita, ossia con la colpa di esistere.
Il nostro problema essenziale, dunque, consiste nel dare libera espressione alle nostre energie, potenzialmente positive, o in attività esplicitamente costruttive, come  l’arte, la musica, la scienza, il pensiero, lo sport; o, quanto meno, in attività che ci consentano di assorbire e neutralizzare le energie negative derivanti dal loro scarso o insufficiente utilizzo e, quindi, dalla loro implosione: un po’ come le piante verdi, filtrando l’anidride carbonica, trasformano quest’ultima, di per sé nociva, in ossigeno, che è una sostanza utile alla vita.
Noi dobbiamo imparare ad elaborare le nostre emozioni e far sì che le nostre energie psichiche non ristagnino e non degenerino in una palude miasmatica, ma conservino la freschezza e la trasparenza delle acque correnti.
E per fare questo, non c’è che una strada: quella della conoscenza di sé; che porta, automaticamente - e sia pure dopo un percorso più o meno lungo e faticoso - a rappacificarsi con se stessi, a perdonarsi, a volersi un po’ di bene, a stimarsi e a ritenersi degni di poter essere felici.
Vi è una cosa che aiuta moltissimo ad acquisire una tale consapevolezza: il fatto che noi siamo degni del nostro amore, e quindi del nostro perdono, perché non veniamo dal caso, ma dall’Essere, che è Amore: noi non esisteremmo, se non vi fosse l’Amore; dunque, siamo anche amabili, degni di stima e meritevoli di raggiungere la felicità.
Certo, a ciascuno di noi accade di commettere degli errori, di macchiarsi di alcune colpe. Ma possiamo e dobbiamo imparare a perdonarci, ovviamente resi più saggi da tali esperienze e decisi a non ricadere nelle medesime strade sbagliate; e lo possiamo, perché non da noi stessi vengono l’amore e il perdono, ma dall’Essere che ci ha chiamati all’esistenza, che ci ha indirizzati verso uno scopo nella nostra vita, e che - quando sarà giunto il tempo - tornerà a chiamarci a sé, perché ogni separatezza scompaia e noi diveniamo tutto in tutti.