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Emergency e il militarismo umanitario

di Roberto Zavaglia - 18/04/2010

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Le imputazioni contro i nostri connazionali sono davvero poco credibili. E’difficile pensare che dei medici disperatamente impegnati a salvare ogni giorno vite umane, in condizioni difficilissime, abbiano progettato un attentato contro il governatore della provincia di Helmand. Ancora più assurda appare l’accusa contro il chirurgo Marco Garatti di avere collaborato al rapimento del giornalista Daniele Mastrogiacomo e di essersi, poi, intascato 500mila dollari del milione e mezzo pagato dal nostro governo per la sua liberazione. Se volessimo inoltrarci nel gioco delle supposizioni, ci pare allora meno inverosimile che le armi ritrovate nell’ospedale di Lashkar Gah le abbiano messe quegli stessi poliziotti afgani i quali le hanno poi “scoperte” con irrisoria facilità.
  Congettura per congettura, potremmo addirittura immaginare che i medici italiani siano “impazziti”, dopo avere visto tanti morti e tante distruzioni, e siano passati dalla parte dei talebani contro gli invasori della Nato. E’ meglio, però, stare con i piedi per terra e ragionare sui dati reali. E’ noto che la struttura di Emergency è da lungo tempo invisa alle forze di occupazione e all’esercito del governo collaborazionista. La mediazione di alcuni suoi uomini nelle trattative per la liberazione di Mastrogiacomo e del fotoreporter Gabriele Torsello aveva, di fatto, esautorato i servizi di sicurezza di Kabul e questo “affronto” non è stato certo dimenticato. Ancora più moleste, alle orecchie degli occupanti e degli uomini di Karzai, sono state le ripetute denunce di Gino Strada sulla brutalità dei metodi impiegati nelle offensive contro i talebani e sull’alto numero di vittime civili. Da ultimo, il fondatore di Emergency aveva poi duramente protestato per il fatto che la Nato, durante l’assedio della cittadina di Marjah, avesse impedito l’apertura di un corridoio umanitario per consentire ai feriti di raggiungere l’ospedale di Lashkar Gah.
  Sia che si tratti di una mera provocazione, come nel caso di una falla nei controlli della struttura sanitaria, il ritrovamento delle armi è stata l’occasione per liberarsi di testimoni scomodi in previsione della prossima offensiva nella regione. E’ovvio che in una situazione di normalità sarebbe assurdo, da parte delle autorità, pretendere di allontanare le persone che potrebbero  denunciare eventuali crimini.  L’Afghanistan, però, non è un Paese normale, ma una nazione in cui si combatte una vera e propria guerra e, da sempre, chi conduce delle offensive militari non vuole troppi curiosi intorno. E’una verità cruda, ma è una realtà che vale per tutti gli eserciti del mondo. L’aporia delle “missioni di polizia internazionale”, in qualsiasi modo vengano definite dalla neolingua dell’ “umanitarismo militare”, è quella di non essere definite guerre, pur riproponendo alcuni degli elementi principali delle guerre tradizionalmente intese.      
  In questo equivoco cadono anche le missioni umanitarie in zona di guerra, Emergency compresa. La “guerra umanitaria”, in un certo senso, ha bisogno dell’assistenza umanitaria per accreditare la propria moralità. Salvo poi sbarazzarsi di quelle strutture, come quella di Gino Strada, che non rispettano le regole del nuovo gioco e anzi pretendono di denunciarle. La finzione è duplice: i militari combattono senza dirsi in guerra, Emergency presta la propria opera di soccorso pretendendo di godere di tutti i diritti di una situazione di pace. La “finzione” di Emergency è assai più generosa e coraggiosa, mentre quella dei capi politici degli eserciti è semplicemente strumentale e propagandistica. Ancora una volta, comunque, l’attenzione va portata sull’essenza dei nuovi conflitti scatenati dopo la fine del bipolarismo.
  Il militarismo umanitario produce sì autentiche guerre, ma è pur vero che esse posseggono, in parte, una natura diversa da quelle del passato. Molto sinteticamente, possiamo indicare tre sostanziali differenze. Innanzitutto, trattandosi di guerre asimmetriche, le “battaglie” vengono combattute solo dalla parte debole che è quella che subisce la stragrande maggioranza delle perdite, mentre le potenze prediligono i bombardamenti di vario tipo da distanze di sicurezza. L’importanza  della propaganda, poi, per i belligeranti nettamente più forti, è ancora più grande che nel passato. Occorre, infatti, agli occidentali, un sovrappiù di giustificazione etica, poiché combattono (dichiarando di fare altro) senza avere messo in discussione il tabù della guerra prevalente nei loro i Paesi. Infine, i nuovi conflitti sono caratterizzati da una intensità fortemente altalenante, non essendoci , a causa della disparità delle forze in campo, uno scontro aperto continuato né un teatro di operazioni ben delimitato. Ciò rende anomala la condizione in cui si trovano i popoli  invasi: vivono in stato di guerra, ma contemporaneamente possiedono spazi e periodi di precaria “normalità” in cui la vita pubblica prova ad assumere le sembianze dei tempi di pace.
  La novità di queste guerre non consiste, ovviamente, nell’eliminazione del sangue e del dolore che organizzazioni come Emergency, pur con le loro contraddizioni, tentano nobilmente di mitigare.