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Il "melting pot" del coyote

di Matteo Simonetti - 18/04/2010

 
 



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Un articolo comparso il 6 Aprile scorso sulle pagine culturali del Manifesto ha illustrato la nuova frontiera del progressismo utopico. Dopo la multirazzialità e la multiculturalità, dipinte come inevitabili quanto positivi caratteri del futuro prossimo, ecco a voi la multispecialità.
Non si tratta dell’elogio di una nuova edizione del triathlon o dell’eptathlon, ma dell’esaltazione della convivenza tra uomini ed animali nello stesso habitat urbano. Penserete: “embè?”, visto che cani, gatti, cavalli e persino topi, corvi e gabbiani sono nelle nostre città da un pezzo, ma purtroppo non si tratta di questo. Il Manifesto si esalta per la nuova vita urbana dei coyote e con loro di vari animali finora selvatici, come daini e procioni, nei sobborghi delle metropoli statunitensi (l’America è come sempre l'apripista in fatto di mescolamenti).
Ho parlato di progressismo utopico non a caso, infatti questa posizione culturale è il risultato esatto, come in una operazione algebrica, della tendenza a considerare l’ordine, la diversità, la separazione come mali assoluti. Nella rincorsa alla realizzazione del mondo tutto uguale, del “volemose bè” e del “siamo tutti fratelli”, che tra l’altro rimangono lettera morta mentre l’unica realtà ormai dispiegata è la globalizzazione voluta dai capitali, si finisce per esaltare ogni aspetto entropico, ogni diffusione e mescolamento, convinti che più ingredienti si ficchino insieme nel cocktail e più questo venga buono. Ecco allora che si vede come un passo avanti, un superamento dei limiti del passato, una liberazione dai lacci del pregiudizio, anche la fine della vita animale come la conosciamo da millenni, a favore di una versione 2.0. Il risultato è che gli animali selvatici divengono caricature antropizzate (i nuovi proletari), così come le attuali civiltà senza tratti distintivi sono caricature delle grandi culture del passato.
La trasformazione è per i progressisti sempre un bene. Maestri del nichilismo e della negazione di se stessi, in un delirio dialettico considerano la metamorfosi la normalità. Il giudizio positivo sulla transessualità ne è un esempio. Se questa “multispecialità” animale è difficile che si concretizzi a breve, certamente meno probabile dell’estinzione di alcune specie animali (novelli vandeani) che mai si violenterebbero pur di adottare la logica demente degli uomini, il significato ideale di questa posizione del Manifesto è invece eccezionale. In essa si palesa infatti l’egoismo antropocentrico, origine della modernità, che non si rende conto che tale convivenza conviene solo all’uomo in quanto piacevole svago e rassicurazione della propria bontà, come l’elemosina data ai poveri. Andando ancora a fondo con l'analisi, vediamo già delinearsi il sogno del progressista del futuro: non più e non solo un unico tipo razziale di uomo, non solo un unico sesso, ma anche un’unica specie, frutto di tutti gli incroci possibili. Questo per giungere finalmente alla vera egalitè.
Più che dire che anche questa utopia, come tutte le altre, è destinata a fare milioni di vittime, è più importante sottolineare come tale distruzione sia anche una devastazione estetica. Bellezza è infatti da sempre differenza ed eliminando questa si ottiene banalità, grossolanità, quindi bruttezza. Questa lotta alla bellezza, per la sua antidemocratica natura (il gusto e il genio non sono per tutti), è una costante dell’utopia progressista anche nella storia dell’arte. Solo per limitarci alla musica, basta pensare alla dodecafonia schoenberghiana e all’epigonismo comunista successivo, col loro corollario di giustificazioni teoriche.
Per concludere il discorso, imitando un po’ proprio l’ideologismo strampalato dei progressisti postmoderni, potremmo notare che i coyote, che da spazzini della savana divengono operatori ecologici delle periferie, per ironia della sorte cadono vittime della schiavitù del lavoro e del meccanismo di alienazione-sfruttamento. Non mi stupirebbe se tra settant’anni alla televisione, o a cosa per essa, ascoltassimo le invettive di un coyote sindacalista della California che, ritto su due zampe e in uno slang omocoyotesco, inneggiasse alla nuova lotta di classe.