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La lobby israeliana e la politica estera USA (quinta puntata)

di John Mearsheimer e Stephen Walt - 30/04/2006

 
 
 
Un gruppo di studenti della NYU durante una parata israeliana a New York

Oltre ad influenzare direttamente il governo, la lobby si sforza di plasmare l’opinione pubblica riguardo ad Israele ed al Medio Oriente.
Essa non vuole un dibattito aperto su questioni riguardanti Israele, perché un tale dibattito potrebbe portare gli americani a mettere in discussione il livello di supporto che essi attualmente forniscono. Pertanto le organizzazioni pro-israeliane lavorano molto per influenzare i media, i «think tanks» ed il mondo accademico, in quanto tali istituzioni sono fondamentali per la formazione
della pubblica opinione.
Il punto di vista della lobby riguardo ad Israele viene ampiamente diffuso dai principali mezzi di informazione dal momento che la maggior parte dei commentatori americani è pro-Israele.
Il dibattito fra esperti di questioni medio-orientali, come scrive il giornalista Eric Alterman, è «dominato da persone che non osano immaginare di poter criticare Israele».
Egli elenca «editorialisti e commentatori il cui sostegno senza riserve verso Israele è fuori discussione».
Al contrario, Alterman ha trovato soltanto cinque esperti che criticano regolarmente le politiche israeliane ed appoggiano gli arabi.
I quotidiani di tanto in tanto pubblicano interventi di commentatori che criticano la politica israeliana, ma il contraddittorio delle opinioni è chiaramente a favore delle tesi opposte.
 
I pregiudizi a favore di Israele sono riflessi negli editoriali dei maggiori quotidiani.
Robert Bartley, ex editorialista del Wall Street Journal, una volta disse che «Shamir, Sharon, Bibi - qualunque decisione essi prendano per me va bene».
Non sorprende il fatto che il WSJ, assieme ad altri importanti quotidiani come il «Chicago Sun Times» ed il «Washington Times» regolarmente presentino editoriali marcatamente pro-Israele.
Anche riviste come il Commentary, New Republic ed il Weekly Standard difendono strenuamente Israele in ogni occasione.
Tali pregiudizi sono riscontrabili anche nel New York Times.
Questo giornale talvolta critica la politica israeliana ed ogni tanto riconosce che i palestinesi hanno le loro ragioni per protestare, ma non è equidistante.
Nelle sue memorie, ad esempio, l’ex redattore capo del Times Max Frankel riconobbe l’influenza che le sue opinioni pro-Israele ebbero sulle sue scelte redazionali.
Con le sue parole: «ero molto più devoto ad Israele di quanto non osavo ammettere».
Ed inoltre: «forte della mia conoscenza di Israele e delle mie amicizie lì, io stesso scrissi la maggior parte dei nostri editoriali sul Medio Oriente. Come i lettori (più gli arabi che non gli ebrei) riconobbero, li scrissi da un punto di vista pro-israeliano».


Le notizie riportate dai media su Israele sono in generale più imparziali rispetto agli editoriali, in parte perché i giornalisti cercano di essere obiettivi, ma anche perché è difficile parlare dei territori occupati senza riconoscere il reale comportamento di Israele.
Per scoraggiare la diffusione di notizie che mettano Israele in cattiva luce, la lobby organizza campagne di protesta, dimostrazioni e boicottaggi nei confronti di quei canali informativi i cui contenuti sono considerati anti-israeliani.
Un dirigente della CNN ha detto di ricevere circa 6.000 email in un unico giorno di persone che si lamentavano perché ritenevano un suo articolo anti-israeliano.
Allo stesso modo, l’organizzazione pro-israeliana «Committee for Accurate Middle East Reporting in America (CAMERA)» ha organizzato in 33 città delle dimostrazioni fuori dalle sedi della National Public Radio nel maggio 2003, ed inoltre ha cercato di convincere chi forniva contributi finanziari alla NPR a sospendere ulteriori aiuti, fintantoché tale radio non avesse riportato le notizie dal Medio Oriente secondo una prospettiva favorevole ad Israele.
La stazione di Boston della NPR perse più di 1 milione di dollari in contributi a causa di queste proteste.
Pressioni sulla NPR vennero fatte anche dagli amici di Israele al Congresso, che chiesero un’ispezione interna e maggior supervisione nei confronti dei servizi riguardanti il Medio Oriente.
Questi fattori aiutano a spiegare perché i media americani raramente criticano la politica israeliana, o mettono in discussione le relazioni di Washington con Israele e solo in rare occasioni discutono dell’influenza della lobby sulla politica americana.
 
I think tank che pensano a senso unico e le posizioni pro-Israele predominano nei think tank statunitensi, che svolgono un ruolo importante nella formazione dell’opinione pubblica e nel dibattito politico.
La lobby ha creato il suo think tank nel 1985, quando Martin Indyk contribuì a fondare il WINEP [Washington Institute for Near East Policy, ndt].
Benché il WINEP tenda a minimizzare i suoi legami con Israele e dichiari di fornire una visione «equilibrata e realistica» delle questioni mediorientali, le cose stanno diversamente.
Infatti il WINEP è finanziato e diretto da persone che sono profondamente impegnate a sostenere gli interessi di Israele.
L’influenza della lobby sui think tank si estende ben al di là del WINEP.
Durante i passati 25 anni, forze pro-Israele si sono stabilite nelle posizioni di comando dell’American Enterprise Institute, del Brookings Institution, del Center for Security Policy, del Foreign Policy Research Institute, del Heritage Foundation, del Hudson Institute, del Institute for Foreign Policy Analysis, e del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA).
Tutti questi think tank sono pro-Israele, ed hanno al loro interno pochi (o nessuno) critici del supporto USA allo Stato ebraico.
 
Un esempio illuminante dell’influenza della lobby nel mondo dei think tank è rappresentato dall’evoluzione del Brookings Institute.
Per molti anni, il maggior esperto di questioni mediorientali era William B. Quandt, un insigne accademico ed ex dirigente dell’NSC [National Security Council, massimo organo consultivo di cui si avvale il presidente USA per questioni di sicurezza nazionale e politica estera, ndt], il quale aveva una riconosciuta reputazione di equilibrio riguardo il conflitto arabo-israeliano.
Oggi, invece, le ricerche del Brookings Institute su tali questioni sono condotte attraverso il suo Saban Center for Middle East Studies, finanziato da Haim Saban, un ricco uomo d’affari israelo-americano nonché fervente sionista.
Il direttore del Saban Center è l’onnipresente Martin Indyk.
Pertanto, quello che un tempo era un centro di studi equilibrato sul Medio Oriente, adesso fa parte del coro dei think tank pro-Israele.
La lobby ha incontrato le maggiori difficoltà a soffocare il dibattito su Israele nei campus universitari, in quanto la libertà accademica è uno dei valori centrali della società e perché è difficile minacciare o ridurre al silenzio i professori di ruolo.
Anche considerando tutto questo, nel mondo accademico ci fu soltanto nel 1990 una debole critica ad Israele, mentre era in atto il processo di pace discusso ad Oslo.
Le critiche nacquero quando tale processo fallì ed Ariel Sharon salì al potere all’inizio del 2001, e divennero particolarmente intense quando l’esercito israeliano rioccupò la Cisgiordania nella primavera del 2002 ed usò la mano pesante contro la seconda Intifada.
 
La lobby si mosse in maniera energica per «riconquistare i campus».
Nacquero nuovi gruppi, come il «Caravan for Democracy», che portò i portavoce israeliani nei college.
Gruppi già esistenti, come il Jewish Council for Public Affairs and Hillel si unirono a tali iniziative, ed un nuovo gruppo, Israel on Campus Coalition, fu formato per coordinarne le attività.
Inoltre, l’AIPAC più che triplicò la spesa per programmi di monitoraggio delle università e per la formazioni di giovani sostenitori di Israele, al fine di «aumentare di molto il numero di studenti coinvolti nei campus…attivi nel promuovere la causa di Israele».
La lobby inoltre fa monitoraggi su quanto i professori scrivono ed insegnano.
Nel settembre 2002, ad esempio, Martin Kramer e Daniep Pipes, due appassionati neocon pro-Israele, diedero vita ad un sito web (Campus Watch) dove furono pubblicati dossier su accademici sospetti, e gli studenti furono invitati a riferire commenti o comportamenti che potevano essere considerati ostili ad Israele.
Questo tentativo di caccia alle streghe ed intimidazione provocò dure reazioni, e Pipes e Kramer rimossero i dossier, ma il sito web invita ancora gli studenti a segnalare presunti comportamenti anti-israeliani all’interno dei college.
Gruppi della lobby hanno scagliato i loro attacchi contro alcuni professori e contro gli istituti che li assumono.


La Columbia University, che annoverava l’accademico palestinese Edward Said nel suo organico, è stata oggetto di frequenti attacchi da parte delle forze pro-Israele.
Jonathan Cole, ex rettore di tale Università, disse che «si può star certi che ogni dichiarazione pubblica a favore della Palestina fatta dall’illustre critico letterario Edward Said darà origine a centinaia di lettere, e-mail ed articoli giornalistici che ci chiedono di prendere le distanze da lui e di punirlo o licenziarlo».
Quando la Columbia assunse lo storico Rashid Khalidi dall’Università di Chicago, Cole disse che «le proteste fioccavano da parte di coloro i quali erano contrari alle sue idee politiche». Princeton ebbe gli stessi problemi quando pensò di «strappare Khalidi dalla Columbia».
Un classico esempio degli sforzi di intimidazione delle Università accadde nel 2004, quando il «David Project» realizzò un film di propaganda per sostenere che il programma di studi mediorientali della Columbia University era anti-semita ed intimidatorio nei confronti degli studenti ebrei che difendevano Israele.
La Columbia si trovò nell’occhio del ciclone fra i circoli pro-Israele, ma una commissione della facoltà incaricata di far luce sulla vicenda non trovò alcuna traccia di anti-semitismo, e l’unico «incidente» degno di nota rilevato fu la possibilità che un professore avesse «risposto con veemenza» alla domanda di uno studente.
Il comitato scoprì anche che tale professore era stato oggetto di una pubblica campagna di intimidazione.


Forse l’aspetto più inquietante della campagna per eliminare le critiche ad Israele dai college è lo sforzo della lobby di spingere il Congresso a definire dei meccanismi di monitoraggio su quanto i professori dicono in merito ad Israele.
Gli istituti nei quali viene riscontrato un pregiudizio anti-israeliano dovrebbero essere privati dei finanziamenti federali.
Questo sforzo di costringere il governo USA a vigilare sui campus non ha ancora avuto successo, ma già il solo tentativo dimostra l’importanza che i gruppi pro-Israele attribuiscono al controllo del dibattito su queste questioni.
Infine, un gran numero di filantropi ebrei ha finanziato programmi di studio su Israele (in aggiunta ai circa 130 che già esistono) in modo da aumentare il numero di accademici pro-Israele nei campus.
La New York University ha annunciato la nascita del Taub Center for Israel Studies nel maggio del 2003, ed iniziative simili sono state adottate da altri istituti come Berkley, Brandeis e Emory.
Le amministrazioni accademiche enfatizzano il ruolo pedagogico di questi programmi, ma la verità è che essi hanno lo scopo di promuovere l’immagine di Israele nei campus.
Fred Laffer, il presidente della Taub Foundation, ha detto chiaramente che la sua Fondazione ha lo scopo di contrastare «il punto di vista filo-arabo» che lui ritiene prevalente nei corsi relativi al Medio Oriente della NYU.
In conclusione, la lobby ha fatto molti passi avanti nel tentativo di rendere immune Israele dalle critiche nei campus.
Tale iniziativa non ha avuto lo stesso successo riscosso a Capitol Hill, ma lo sforzo per impedire le critiche ad Israele è stato notevole ed ha avuto un discreto successo.


Nessuna discussione sulle modalità di intervento della lobby sarebbe completa senza esaminare una delle sua armi più potenti: l’accusa di anti-semitismo, «il grande silenziatore».
Chiunque critichi le azioni di Israele o dica che gruppi israeliani influenzino significativamente la politica USA in Medio Oriente - influenza decantata dall’AIPAC stessa - ha buone possibilità di essere definito un antisemita.
Per la verità chiunque sostenga che esiste una lobby di Israele corre questo rischio, anche se i media israeliani stessi parlano della «lobby ebraica» americana.
In effetti la lobby si vanta della sua potenza ma attacca chiunque cerchi di evidenziarla.
Questa tattica è molto efficace, in quanto l’antisemitismo è detestabile e nessuna persona responsabile vorrebbe esserne accusata.
Gli europei hanno criticato maggiormente Israele negli anni recenti rispetto agli americani, circostanza che alcuni attribuiscono ad un ripresa dell’antisemitismo in Europa.
L’ambasciatore USA alla Comunità Europea nel 2004 disse che stiamo «arrivando ad un punto in cui la situazione è simile a quella del 1930».
Misurare l’antisemitismo è complesso, ma l’esame della realtà fa propendere per la tesi opposta. Infatti nella primavera del 2004, quando le accuse di antisemitismo europeo riecheggiavano in USA, sondaggi di opinione condotti in maniera indipendente dalla Anti Defamation League e dal Pew Research Center mostrarono che effettivamente il sentimento antisemita era in declino.


Consideriamo la Francia, ritenuta dalle forze pro-Israele come la nazione più antisemita in Europa.
Un sondaggio condotto nel 2002 ha rivelato che: l’89% dei francesi poteva prendere in considerazione l’idea di vivere con un ebreo, il 97% considerava i graffiti antisemiti come un grave crimine, l’87% pensava che gli attacchi contro le sinagoghe erano scandalosi, e l’85% dei cattolici praticanti rifiutava la tesi che gli ebrei avessero troppa influenza negli affari e nella finanza.
Non sorprende il fatto che il capo della comunità ebraica francese abbia dichiarato, nell’estate del 2003, che «la Francia non è più antisemita degli Stati Uniti».
Secondo un recente articolo su Haaretz, la polizia francese ha riscontrato che episodi di violenza antisemita sono diminuiti del 50% nel 2005, e questo nonostante la Francia ospiti la più grande comunità musulmana di tutta Europa.
Infine, quando un ebreo francese fu ucciso il mese scorso da una gang di musulmani, decine di migliaia di dimostranti francesi sono scesi in piazza per condannare l’antisemitismo.
Inoltre, il presidente Jacques Chirac ed il primo ministro Dominique de Villepin sono stati ai funerali ed hanno dimostrato in pubblico la propria solidarietà alla comunità ebraica francese.
Va inoltre ricordato che nel 2002 più ebrei sono immigrati in Germania che non in Israele, facendo quella tedesca la «comunità ebraica che cresce più rapidamente», secondo l’articolo del giornale israeliano Forward.
Se l’Europa stesse tornando al clima degli anni 30, non si spiegherebbe perché un così gran numero di ebrei abbia deciso di stabilirsi lì.


Riconosciamo, in ogni caso, che l’Europa non è libera dalla piaga dell’antisemitismo.
Nessuno può negare che ci sono tuttora alcuni estremisti autoctoni antisemiti in Europa (come ci sono negli USA), ma sono un’esigua minoranza e le loro idee sono rifiutate dalla vasta maggioranza degli europei.
Né si può negare che fra i musulmani serpeggi l’antisemitismo, sentimento che trae origine dalle azioni di Israele contro i palestinesi oppure dal semplice razzismo.
Il problema è preoccupante, ma non certo fuori controllo.
I musulmani costituiscono meno del 5% della popolazione europea, ed i governi europei si stanno impegnando efficacemente per contrastare tale fenomeno.
Perché?
Perché la maggior parte degli europei rifiuta tali sentimenti di odio.
In breve, riguardo all’antisemitismo, la situazione europea attuale non può assolutamente essere paragonata a quella degli anni 30.  Questo è il motivo per cui le forze pro-Israele, quando viene loro richiesto di documentare le loro affermazioni, sostengono che c’è una nuova forma di antisemitismo, che loro identificano nelle critiche ad Israele.


In altre parole chiunque critica le politiche israeliane è per definizione un antisemita.
Quando il sinodo della Chiesa di Inghilterra ha recentemente deciso di vendere la propria partecipazione nella Caterpiller, a causa del fatto che tale ditta fornisce ad Israele i bulldozer per demolire le abitazioni dei palestinesi, il rabbino capo si è lamentato che tale decisione avrebbe avuto serie ripercussioni sulle relazioni fra cristiani ed ebrei in Gran Bretagna, mentre il rabbino Tony Bayfield, capo del Reform Movement, ha affermato che «c’è un chiaro problema di antisionismo sconfinante nell’antisemitismo che emerge all’interno della Chiesa».
In realtà la Chiesa non era né antisionista né antisemita, semplicemente era contraria alle politiche di Israele.
I critici sono inoltre accusati di rimanere ancorati ad un pregiudizio nei confronti di Israele o addirittura di mettere in dubbio il suo diritto all’esistenza.
I critici occidentali di Israele non ne mettono praticamente mai in dubbio il suo diritto ad esistere. Invece, disapprovano il suo comportamento nei confronti dei palestinesi, rilievo del tutto legittimo: anche molto fra gli stessi israeliani lo disapprovano.
Né Israele viene giudicato in maniera pregiudiziale.
Piuttosto, il trattamento che Israele riserva ai palestinesi è considerato contrario ai diritti umani ed alle leggi internazionali, nonché al principio di autodeterminazione dei popoli.
Molti altri Stati hanno subito critiche su questioni simili.
In conclusione: le altre lobby straniere possono solo sognare di avere l’influenza politica di cui le organizzazioni pro-Israele dispone.
La domanda è, quindi, quali effetti produce la lobby sulla politica estera USA?


John Mearsheimer e Stephen Walt


(traduzione di Sebastiano Suraci)


(continua...)


(esteri, prima puntata 31/3/2006)
(esteri, seconda puntata 7/4/2006)
(esteri, terza puntata 17/4/2006)
(esteri, quarta puntata 23/4/2006)