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Il male di vivere della modernità è la perdita di amore verso la vita

di Francesco Lamendola - 16/05/2010

 

 

 

Uno degli aspetti più vistosi del disagio della modernità, oggi così diffuso tra milioni e milioni di persone, è il male di vivere che si diffonde come una gigantesca metastasi e che le sprofonda nella depressione, nella nevrosi, nella schizofrenia, nel suicidio - magari lento, come avviene attraverso l’abuso di droghe, alcool e tabacco.

È come se un gigantesco grido di sofferenza, di angoscia e di disperazione salisse da innumerevoli individui, alcuni dei quali dissimulano agli altri ed a se stessi il proprio male profondo, spingendolo sempre più addentro, mentre altri lo lasciano erompere in forme conclamate, precipitando nel baratro dello sconforto e provocando immense sofferenze anche ai loro cari e alle persone che dividono con essi la loro vita.

Se poi ci interroghiamo sulle cause di un così vasto e generalizzato male di vivere, non tarderemo a renderci conto che esse affondano non in singole situazioni ed eventi, sebbene - spesso - le persone che ne sono afflitte lo credano fermamente; ma in un atteggiamento generale verso la vita, in uno stato d’animo largamente diffuso, che si possono sintetizzare nell’espressione, schematica ma efficace, di perdita di amore nei confronti della vita.

E con questa espressione non intendiamo qualche cosa di generico e quasi di astratto, ma, al contrario, qualche cosa di estremamente concreto e che va inteso nel senso più letterale: ossia come sfiducia verso la vita, come disincanto del mondo, come perdita della speranza, come nausea dell’esistenza e come profonda disistima verso se stessi. La mancanza di amore verso la vita è la perdita di amore verso se stessi e di ottimismo verso il domani.

Strano, almeno in apparenza: proprio quando la vita sembra essere diventata più comoda, o almeno più facile, per tutti; proprio quando gli immani sacrifici materiali che dovevano sopportare i nostri nonni sembrano cose di un passato lontanissimo, ormai a stento immaginabili; proprio quando la scienza, la tecnica, in una parola il progresso, hanno dispiegato tutta la loro capacità progettuale per facilitare la vita e per rimuovere dai nostri passi ogni ostacolo, o almeno gli ostacoli più grossi e difficoltosi, ecco che si diffonde a macchia d’olio un sentimento ignorato dalle generazioni passate, per quanto dura fosse la loro esistenza quotidiana: il disamore verso la vita.

Non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.

Se ci muoviamo per le strade delle nostre città, quel che vediamo sempre più spesso sono case fornite di ogni comfort, automobili di grossa cilindrata, vetrine traboccanti di merce allettante, persone che se ne vanno in giro con i vestiti firmati: persone ben truccate, per pettinate, ben vestite, ben nutrite, bene abbronzate e ben palestrate, con l’orologio di marca al polso e il braccialetto d’oro al polso o la catenina d’oro al collo.

È così: anche le persone di modeste possibilità economiche, a prezzo di immani sacrifici oppure tagliando sulle spese veramente necessarie, come la qualità del cibo, oppure ancora indebitandosi o pagando la merce a rate, riescono a procurarsi almeno una parvenza di quello stile di vita.

Anche nelle case più modeste, ormai, ci sono non meno di due o tre televisori, la lavastoviglie automatica, un paio di computer, tre o quattro telefonini cellulari e un paio di automobili nel garage; anche le persone meno abbienti riescono, in qualche modo, a procurarsi dei vestiti e delle scarpe firmati, o almeno delle discrete contraffazioni di essi.

E anche le persone di estrazione sociale più modesta riescono, in una maniera o nell’altra, a concedersi qualche giorno di vacanza non nelle località di villeggiatura più vicine, ma su qualche spiaggia esotica in un grande albergo internazionale e, magari, anche una piccola crociera a bordo di un piroscafo con piscina, sale da gioco e cabina con l’aria condizionata.

È una follia: ma una follia collettiva, che dà anche all’operaio l’illusione di non essere escluso dal grande banchetto del consumismo e consente al miliardario di non provare nemmeno l’ombra del senso di colpa, mentre conduce una vita di lusso e di sprechi, pur nella consapevolezza delle tante famiglie che stentano ad arrivare a fine mese o dei pensionati che elemosinano un piatto di minestra alla mensa dei Cappuccini o un po’ di frutta avariata ai mercati generali.

Sia come sia, questo benessere generalizzato, mescolato alla sua grossolana ma puntigliosa contraffazione, può dare l’impressione che tutto vada bene e che non altro rimanga da chiedere alla vita, se non comodità materiali sempre maggiori e accessori tecnologici sempre più sofisticati: e tale è, infatti, l’impressione che ricevono milioni di persone che vivono nei Paesi poveri, ma che ricevono via satellite i nostri programmi televisivi.

La realtà è completamente diversa.

Le persone di ogni ceto sociale, all’interno della società consumista post-moderna, sono afflitte da un disamore sempre più diffuso nei confronti della vita; disamore che si manifesta nei comportamenti autodistruttivi che abbiamo descritto e che fornisce una miniera d’oro ai professionisti del dolore altrui: una pletora di psicologi, psichiatri e psicanalisti, non più del dieci per centro dei quali persegue il fine di alleviare le sofferenze del prossimo, mentre tutti gli altri non sono che dei vili sciacalli e avvoltoi, interessati solo al denaro dei loro pazienti e moralmente, oltre che intellettualmente, incapaci di fornire un vero aiuto a chicchessia.

La verità, dunque, è questa: non ci vogliamo bene, non crediamo più nella vita; non pensiamo più che la vita sia una cosa bella, che la nostra vita sia un’occasione straordinaria di crescita, di amore, di bellezza.

Amara conclusione, dopo tre o quattro secoli di ideologie progressiste che hanno fatto a gara nel prometterci la felicità in Terra se solo avessimo deciso di affidarci, una buona volta, ai Lumi della Ragione, mettendo definitivamente in soffitta la metafisica e la trascendenza e scacciando l’anelito verso il divino, come una pericolosa forma di squilibrio mentale. Significa che generazioni di intellettuali illuministi, positivisti, neopositivisti e compagnia bella, con tutto il loro chiacchierare di magnifiche sorti e progressive, non hanno saputo portare al sentire comune nemmeno un briciolo di speranza, nemmeno un pallido riflesso di fiducia nel domani.

Non è un risultato di cui possano andare particolarmente fieri, in verità; anche se, imperturbabili davanti a un così manifesto fallimento, continuano a intronarci gli orecchi con i loro ditirambi in onore della Scienza, la quale, così come la intendono loro - e cioè in senso grossolanamente razionalistico e materialistico -, altro non è che una pallida e deformata caricatura del vero sapere scientifico.

Il Dio della modernità, il Dio del progresso, ha miseramente fallito e non è stato in grado di realizzare nemmeno una delle sue promesse. Nemmeno quella del benessere puramente materiale, perché la devastazione ambientale, frutto inevitabile di un rapporto aggressivo e conflittuale con la natura, ci ha regalato, oltre a un profondissimo malessere spirituale, anche tutta una serie di pesanti situazioni negative sul piano pratico e materiale: prima fra tutte, il proliferare di malattie legate all’inquinamento e allo stile di vita consumistico, le quali, dai tumori all’infarto, dalle affezioni alle vie respiratorie, alle allergie sempre più diffuse, per non parlare delle morti violente dovute al traffico automobilistico, testimoniano un drammatico, incontestabile peggioramento delle condizioni generali in cui si svolge la nostra esistenza.

Dunque: il male oscuro, profondo, nascosto che mina alla base l’edificio grandioso, ma effimero della nostra civiltà, è il disamore verso la vita; e tale disamore nasce dal sentimento della impossibilità di stare bene con se stessi e con gli altri, di armonizzare l’io con il tu ed anche l’io con se stesso; in una parola: dal disgregamento inarrestabile, incontrollabile della coesione intima del nostro io e del ruolo che esso è chiamato a svolgere nel mondo.

La perdita di amore verso la vita ci ha resi una folla disgregata e frammentata, in cui - a dispetto del gigantismo patologico delle nostre megalopoli – ciascuno è sempre più solo e isolato, sempre più smarrito e abbandonato a sé stesso, senza certezze e senza punti d riferimento: senza nulla in cui credere, se non nel Dio denaro.

Troppo poco davvero, per rendere l’esistenza di un essere umano qualche cosa di tollerabile; per imprimerle un indirizzo; per prospettarle una direzione, un senso e uno scopo. Troppo poco per sostenere la quotidiana fatica del vivere, resa ancora più improba dal continuo aumento della complessità del mondo in cui ci muovianmo: complessità che non era neppure immaginabile solo fino a un paio di generazioni fa.

Oggi è tutto tremendamente più complesso, più arduo, più problematico: tutto, vogliamo dire, tranne le comodità fatue, come quella di accendere il televisore senza doversi alzare dalla poltrona, o come poter parlare con chiunque al telefono in qualsiasi luogo, anche dalla cima di una montagna, e in qualunque momento, ventiquattr’ore su ventiquattro.

È più difficile, infinitamente più difficile, essere padri o madri, di quanto non lo fosse meno di cinquanta anni fa; è infinitamente più difficile essere mariti o mogli o compagni; è infinitamente più difficile essere figli; è infinitamente più difficile essere nonni; è infinitamente più difficile essere lavoratori; è infinitamente più difficile essere consumatori; è infinitamente più difficile essere cittadini.

È più difficile fare la dichiarazione dei redditi per pagare le tasse, guidare l’automobile, fare una corsa in bicicletta (con il traffico che rende le strade pericolosissime), scegliere la merce al negozio o al supermercato: specialmente i generi alimentari, che nessuno sa più se provengano da organismi geneticamente modificati o se contengano coloranti, conservanti, ormoni ed altre innominabili sozzure.

È più difficile essere bambini, anzi si potrebbe dire che è diventato quasi impossibile perché gli adulti, impazziti, hanno rubato l’infanzia ai loro figli e nipoti; ed è infinitamente più difficile essere anziani, perché il mondo sta cambiando talmente in fretta, che ad essi non viene lasciato letteralmente il tempo di farsi da parte, ma vengono sospinti via nel modo più brutale, dato che di loro il mondo, oggi, non sa letteralmente cosa farsene, se non - forse - sfruttarli fino al’ultimo come baby-sitter gratuiti a vantaggio di figli e nipoti.

È più complesso spedire una lettera, pagare una bolletta all’ufficio postale, aprire un conto in banca o fare un semplice bonifico; acquistare un biglietto ferroviario, salire su un treno, avere informazioni in un aeroporto, farsi indicare la strada a uno svincolo stradale.

È più complesso orientarsi in un grande ospedale e pagare allo sportello automatico; perfino comperare la frutta al supermercato: bisogna infilare i guanti, munirsi del sacchetto, prendere nota del numero di codice della merce, pesarla sulla bilancia: tutte operazioni non così semplici, ad esempio, per una persona anziana.

Anche consultare l’elenco telefonico è divenuto più difficile: bisogna memorizzare, oltre al numero desiderato, anche il prefisso, entrambi scritti in caratteri piccolissimi: chi non possiede una buona vista e una buona memoria, si trova fatalmente impacciato.

Cose da poco, si dirà. È vero; ma mettiamo insieme cinque, dieci, venti di queste “piccole” difficoltà ogni giorno; mettiamone cento in un mese: ed ecco che la vita si fa tesa, problematica, irta di noie e di lievi, ma continue frustrazioni: da ultimo, una buona percentuale della popolazione finirà per sentirsi inadeguata, incapace, superflua, in un mondo che corre freneticamente, senza curarsi di lasciarla indietro.

Perfino gli spazi fisici non sono più pensati se non a misura di consumatori giovani, forti, sani: gli spazi architettonici, i modelli di automobili, le stesse barriere anti-velocità (che, pure, servirebbero a rallentare i ritmi eccessivamente veloci del traffico), sono pensati in modo da ignorare completamente le esigenze degli anziani, dei malati, dei sofferenti.

Tutto questo aumento della complessità si è accompagnato ad un aumento delle comodità materiali; ma, a sua volta, quest’ultimo ha provocato, automaticamente, un ulteriore aumento della complessità. Il tutto in un circolo vizioso sempre più stretto, in una sarabanda sempre più febbrile, in una corsa sempre più pazza.

E quello che la tecnica ci ha dato con una mano - ad esempio, un miglioramento delle pratiche chirurgiche o delle terapie antitumorali - se lo è ripreso, con gli interessi, con l’altra mano: ad esempio, con l’aumento esponenziale delle malattie iatrogene, ossia delle malattie provocate dagli effetti collaterali delle cure stesse o, semplicemente, dal cattivo funzionamento delle strutture sanitarie.

Vogliamo tentare di uscire dal pantano del disamore verso la vita, del disamore verso noi stessi e tornare a guardare al futuro con fiducia e ottimismo, come facevano i nostri genitori e i nostri nonni, sebbene non avessero almeno due auto nel garage e non disponessero di tre televisori e quattro o cinque telefonini cellulari?

Ebbene, dobbiamo abbandonare la pericolosa illusione che la tecnica, di per se stessa, ci farà stare meglio e che risolverà tutti i nostri problemi; mentre dobbiamo riprendere in mano le nostre vite, le nostre aspirazioni profonde: prima fra tutte, la tensione verso la trascendenza.

Dobbiamo tornare a credere in noi stessi, con tutte le nostre umane debolezza e i limiti insiti nella nostra condizione, ma anche con la nostra volontà di migliorarci e di trascenderci, non sul piano banalmente economico e sociale, ma su quello della consapevolezza spirituale.

Dobbiamo riscoprire il valore della semplicità, della sobrietà, della solidarietà, dell’apertura verso il tu e della gratitudine verso la vita: e tornare a fare affidamento nella sua saggezza, e non nel Vitello d’Oro di una Ragione divinizzata che ci promette una felicità illusoria e ingannevole, espropriandoci, nel frattempo, della nostra più autentica e profonda umanità.