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Dalla palinodia di Jean Baudrillard alla decrescita di Serge Latouche

di Pier Luigi Tosi - 18/05/2010

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Come la parola poetica di Friedrich Hölderlin è sempre anche
filosofica, la parola filosofica di Jean Baudrillard è sempre anche poetica. Un
chiasmo che probabilmente non esaurisce le affinità tra i due: se il poeta
tedesco scrive che «un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette»,
il filosofo francese fonda il suo pensiero sull'illusione radicale, autentica
creatrice di realtà in contrapposizione al virtuale-iperreale, ultima frontiera di
un mortifero razionalismo cartesiano: propone addirittura di sostituire
imagino ergo sum al noto cogito ergo sum. Forse il pensatore dell'assurdo, il
teorico della patafisica, il conoscitore profondissimo della postmodernità è in
fondo l'epigono più avanzato e geniale del romanticismo, da considerare non
una banale e superata inclinazione al sentimentalismo, bensì una profonda,
pur variegata, Weltanshauung fondatrice del pensiero contemporaneo, sia
sotto gli aspetti più fecondi, sia sotto quelli degeneri, come insomma l'ha
ottimamente delineato Sergio Givone.
Proprio in virtù della poeticità del discorso di Baudrillard è
inevitabilmente riduttivo cercare di illustrarlo, spiegarlo, commentarlo; ci si
ritrova invariabilmente a ripetere peggio, ciò che fu detto meglio, senza
possibilità di addizione o sottrazione che non comprometta la sua armonia:
quanto dovrebbe scoraggiare assolutamente a scrivere, secondo l'ottima
osservazione di Michel de Montaigne, vero genio del pensiero del
Cinquecento, troppo trascurato solo perché pensa in modo diverso da quello
che si suppone debba essere il modo del Cinquecento.
Pertanto nell'articolo cercherò il più che possibile di far parlare
direttamente Baudrillard, limitandomi a collegare le sue affermazioni e a
evidenziare le parti che più direttamente coinvolgono i concetti di natura ed
ecologia, al centro dell'attenzione nella pratica e nell'elaborazione della nostra
Associazione. Convinto fautore della decrescita, concluderò con alcune
considerazioni al riguardo.
Relativamente alla grande mole di scritti di Baudrillard, il termine
natura non ricorre molto spesso; essa è tuttavia ben compresa nelle
considerazioni sulla realtà, che certamente informano in sostanza l'intera
opera del francese. Già nel 1976, ne Lo scambio simbolico e la morte, libro che
sistematizza la sua asistematica riflessione (con questo pensatore ci dobbiamo
abituare a considerare di casa il paradosso), ci viene narrata la progressiva
eliminazione storica del reale per effetto dei simulacri, che intervengono fin
dalle origini della modernità, cioè dal Rinascimento, per completare la loro
opera nell'attuale postmodernità.
È dunque nel Rinascimento che è nato il falso, assieme al naturale. Questo va dal falso gilet sul
davanti alla forchetta protesi artificiale, agli interni di stucco e ai grandi macchinari teatrali
barocchi. Perché tutta quest'era classica è per eccellenza quella del teatro. Il teatro è una forma che
si impadronisce di tutta la vita sociale e di tutta l'architettura a partire dal Rinascimento. È là, nei
virtuosismi dello stucco e dell'arte barocca, che si decifra la metafisica della contraffazione, e le
nuove ambizioni dell'uomo rinascimentale sono quelle d'una demiurgia mondana, d'una
transustanziazione di tutta la natura in una sostanza unica, teatrale come la socialità unificata sotto
il segno dei valori borghesi, al di là delle differenze di sangue, di rango o di casta. Lo stucco è la
democrazia trionfale di tutti i segni artificiali, l'apoteosi del teatro e della moda, e che traduce la
possibilità per la nuova classe di fare tutto, da quando ha potuto spezzare l'esclusività dei segni. È
la vita aperta a delle combinazioni inaudite, a tutti i giochi, a tutte le contraffazioni ― perché la
mira prometeica della borghesia s'è riversata nell'imitazione della natura, prima di lanciarsi nella
produzione. (Dalla trad. it. di Girolamo Mancuso, i corsivi qui e successivamente sono sempre
dell'autore.)
Imitare la natura è in buona sostanza sopprimerla, con il fine di
addomesticarla e di piegarla a modello dei propri progetti sociali. Fin da
subito, fin da un'epoca così fertile artisticamente eppure già iniziatrice delle
tendenze massimamente rovinose di cui oggi vediamo i risultati in completa
chiarezza; il che pone immediatamente la questione, se siano e mai possano
essere compatibili democrazia borghese e forme di vita autenticamente
ecologiche, probabilmente in via di estinzione già a partire dalle grandi
trasformazioni del XVI secolo che eliminarono la società vernacolare, secondo
la definizione di Ivan Illich. Lo sguardo è quindi costretto a rivolgersi ai
tempi pre-moderni e in certo senso tramite Georges Bataille, cui l'autore
deve sicuramente tanto, riaffiora quel radicalismo aristocratico già attribuito
all'elaborazione nietzscheana.
Secondo la spiegazione di Michel Foucault, quando una parola-chiave
inedita irrompe nella società per creare nuove proporzioni di potere, si
afferma sempre sulla base di una nuova contrapposizione duale, delinenando
una coppia di termini destinati a costituire per sempre uno il risvolto
ineliminabile dell'altro. Ecco allora che Baudrillard all'inizio del brano citato
ci presenta l'ormai antico dualismo falso versus naturale, dandoci modo di
comprendere che il naturale è quasi ovunque l'assassino della natura vera e
propria: pensiamo a quanto il concetto sia cavalcato nella pubblicità di una
messe di prodotti chimici (detersivi, shampoo, carburanti...), contrariamente
alla loro effettiva responsabilità per i danni crescenti e finora inarrestabili alla
natura. Dove troviamo il naturale, insomma, non c'è già più la natura, così
come quando parliamo di giovanile di norma la giovinezza è già bella che
passata.
Ripercorriamo però l'ordine storico dei simulacri che hanno
successivamente eliminato il reale, sulla base della mutazione della legge del
valore:
― La contraffazione è lo schema dominante dell'epoca “classica”, dal Rinascimento alla rivoluzione
industriale.
― La produzione è lo schema dominante dell' era industriale.
― La simulazione è lo schema della fase attuale retta dal codice.
Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla
legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore. (Dalla trad. it.
cit.)
Dunque la postmodernità è fondamentalmente diversa non solo dalla
modernità mercantile preindustriale, ma anche dalla sua fase recente creata
dalla rivoluzione industriale. Da qui, allo scopo di un'analisi aggiornata,
l'invito a superare l'economia politica marxiana insieme ai suoi accompagnatori,
ovvero l'economia libidica freudiana e l'economia linguistica saussuriana.
Argomento delle considerazioni profonde deve pertanto diventare l'iperrealtà,
la quale in una sorta di delitto perfetto, ha soppresso la realtà, la natura e
perfino la morte, come l'umanità l'aveva concepita sin dai suoi albori. Lo
spettacolo della realtà, dell'esistenza in un interscambio incontrollato di segni
senza significato ha sostituito la vita che dovrebbe invece come una volta
svilupparsi attraversando una foresta di simboli, primo fra tutti la morte,
senza cui non può esservi nascita, né bios (che per Eraclito con uno
spostamento di accento vale “vita” e “arco”, ciò che ha tipicamente un inizio
e una fine e che è altresì uno strumento di morte), né ciclo della natura, né
dunque natura. L'uomo contemporaneo per Baudrillard è già morto,
imbalsamato nei cosmetici o nelle tute per motociclista, circondato di oggetti
inossidabili da cui vorrebbe magicamente ricavare la propria immortalità:
questo è l'effetto insuperabile del rifiuto della morte. Guai a trascurare il
memento mori nella circostanza del trionfo (che nel nostro caso è quello della
scienza e della tecnica)! Probabilmente il Savonarola intuì già in epoca
rinascimentale la pericolosa china assunta dalla cultura dei suoi anni con la
pretesa di dimenticare nei fasti, nella gloria e nel lusso il destino di ogni
mortale.
In luogo della morte simbolica, in grado per millenni di dare senso
all'esistenza umana e di ampliare per converso gli orizzonti della vita, si è
posta la morte naturale (ecco l'inganno della parola, di cui dicevamo!), una
specie di patrimonio personale di cui l'individuo dispone più o meno
giudiziosamente:
È una morte “normale” perché arriva “al termine della vita”. Il suo stesso concetto nasce dalla
possibilità di far arretrare i limiti della vita: vivere diventa un processo di accumulazione, e la
scienza e la tecnica entrano in gioco in questa strategia quantitativa. Scienza e tecnica non hanno
affatto appagato un desiderio originale di vivere il più a lungo possibile ― è solo il passaggio dalla
vita al capitale-vita (a una valutazione quantitativa), attraverso una districazione simbolica della
morte, che fa sorgere una scienza e una tecnica biomedica del prolungamento della vita.
La morte naturale non significa quindi l'accettazione di una morte che sarebbe nell'”ordine delle
cose”, ma una negazione sistematica della morte. La morte naturale è quella che dipende
giurisdizionalmente dalla scienza, e che ha la vocazione a essere sterminata dalla scienza. Questo
significa in chiaro: la morte è inumana, irrazionale, insensata, come la natura quando non è
addomesticata (il concetto occidentale di “natura” è sempre quello di una natura rimossa e
addomesticata). (Dalla trad. it. cit.)
Nel momento stesso in cui si pretenderebbe di allungare temporalmente i
limiti della vita, la si priva viceversa dei suoi orizzonti simbolici e la si
costringe pertanto in confini assai più angusti.
Da qui proviene la nostra religione della crescita e l'idolo imperante
dell'economia, la cui evoluzione è magistralmente rievocata da Serge
Latouche. La crescita come paradigma fondante della vita è una volontà di
sterminazione, di interdizione, di denegazione della morte. Come entrambi i
teorizzatori hanno ben compreso e non si stancano di evidenziare, l'idea
cardine dello sviluppo è inscindibile da una visione complessa, religiosa e
filosofica, che non si esaurisce certo nella pur indimenticabile complicità
originaria col protestantesimo che ha reso celebre Max Weber per la sua
scoperta.
Nel passo successivo, quello del razionalismo illuminista, secondo
Baudrillard accade che, quando la paranoia della ragione prevale, i suoi «assiomi
fanno sorgere ovunque l'inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e
insolubile, l'Accidente come persecuzione, come resistenza assurda e malvagia d'una
materia, d'una natura che non vuole mettersi in ordine sotti le leggi “oggettive” in
cui è stata cacciata». Il potere si instaura e perpetua allora come istanza che
vigila sull'interdizione della morte.
Spezzare l'unione dei morti e dei vivi, infrangere lo scambio della vita e della morte, ecco il
primissimo punto d'emergenza del controllo sociale. (Dalla trad. it. cit.)
Tali proposizioni vengono scritte negli anni settanta, quando la parola
rivoluzione è estremamente familiare. L'autore, coerentemente a quanto sopra
esposto, ne dà a mio avviso l'interpretazione più rivoluzionaria:
La rivoluzione può consistere solo nell'abolizione della separazione dalla morte, e non
nell'eguaglianza della sopravvivenza.
L'immortalità non è che una specie di equivalente generale legato all'astrazione del tempo lineare
(essa prende forma nella misura in cui il tempo diventa questa dimensione astratta legata al
processo d'accumulazione dell'economia politica e all'astrazione della vita tout court). (Dalla trad.
it. cit.)
Risulta allora spontaneo aggiungere e considerare: se la rivoluzione che crea
la via d'uscita più sicura dal sistema, che lo capovolge in maniera radicale, è
tale solo spezzando la linearità del tempo, il sogno-incubo di un'immortalità
materializzata nella prospettiva di una crescita incontrollata, non siamo già
nell'ambito della decrescita proposta da Latouche?! Anche se nei lavori
successivi Baudrillard propenderà, secondo un'inclinazione della quasi
totalità della cultura contemporanea, verso un'impronunciabilità riguardo il
futuro, il punto di contatto resterà, garantito fra l'altro da un autorevole
riferimento comune: Marcel Mauss.
La teoria del dono (e controdono) di Mauss ispira l'antimodernismo di
Bataille e Baudrillard ma al contempo è alla base dell'elaborazione di
Latouche e dell'azione dei movimenti che a quest'ultimo fanno esplicito
riferimento (MAUSS è divenuta perfino la sigla del Mouvement anti-utilitariste
dans les sciences sociales). Per chi tuttora non la conoscesse, ricordiamo
brevemente che la teoria maussiana prende le mosse dalle indagini
etnologiche sul potlach, fulcro dell'organizzazione sociale primigenia che
impone di donare il proprio surplus, non per effetto di una rousseauiana
generosità sentimentale innata e selvaggia, ma come gesto di sfida, insieme
motivo di confronto competitivo e premessa di un legame comune
inscindibile: il destinatario è moralmente obbligato a ricambiare con un
rilancio della posta, vale a dire restituendo un valore se possibile maggiore...
Proprio il crescendo del dare e del ricevere, la differibilità nel tempo e la
relativa spontaneità del gesto riparatore fondano l'abissale diversità con lo
scambio moderno, che si esaurisce nella contropartita immediata e definitiva
che “chiude i conti”, delineando l'individualismo atomistico che ci
caratterizza. L'iniziativa di alienazione dei beni accumulati corrisponde per
Bataille a quel principio di dispersione delle energie sovrabbondanti che è
proprio della natura; Baudrillard per parte sua rammenta spesso che essa
lascia «inutilizzati i due terzi del genoma umano» e in una recensione delle opere
di Bataille scrive che «l’idea centrale è che l’economia che governa le nostre società
risulta da una appropriazione indebita del principio umano fondamentale, che è un
principio solare di consumo». In certo modo la stessa pulsione di morte proposta
da Freud e negletta dai freudiani rientrerebbe nel concetto. Addirittura la
proibizione dell'incesto, altro leitmotiv del fondatore della psicanalisi, se si
portano alla massima estensione le conseguenze di questa chiave di lettura,
potrebbe dipendere non dal rischio di difetti genetici, come si sarebbe portati
a ritenere in ottica moderna, ma dall'obbligo del dono senza eccezioni, che
coinvolgerebbe insomma gli stessi membri della famiglia come oggetto dello
scambio intratribale e intertribale, a seconda dei casi.
Questo genere di relazione sociale simboleggia nella distruzione
materiale la distruzione vitale rappresentata dalla morte e dunque mantiene
il valore simbolico della morte al centro della costruzione sociale, che si
sviluppa così su basi di duratura armonia , ignote ai contemporanei
dell'occidente. In tal senso le argomentazioni di René Girard nel capolavoro
La violenza e il sacro non possono che rafforzare dette convinzioni.
La natura trova pertanto la sua prosecuzione nella cultura sul
fondamento della simbolgia della morte, vale a dire della religione, e la vita
trionfa nel sogno creatore che ne scaturisce: per gli antichi Elleni essere
umano è sinonimo di mortale. Altro che l'oggettività della natura postulata
dallo scientismo! Baudrillard la smaschera nel suo inganno, di cui indica
esemplificativamente come portatore anche il suo connazionale Jacques
Monod, che la vorrebbe quasi a-priori del pensiero.
La verità è che la scienza s'organizza, come qualsiasi discorso, su una logica convenzionale, ma che
essa esige per la sua giustificazione, come qualsiasi discorso ideologico, una referenza reale,
“oggettiva”, in un processo sostanziale. (Dalla trad. it. cit.)
E poi aggiunge:
l'”oggettività” non è nient'altro che questo, e l'etica che viene a sanzionare questa conoscenza
oggettiva non è mai che il sistema di difesa e di disconoscimento che vuole preservare questo
circolo vizioso. “Abbasso tutte le ipotesi che hanno permesso la credenza in un mondo vero”,
diceva Nietzsche. (Dalla trad. it. cit.)
Benché la scrittura di Baudrillard si faccia nei lavori posteriori sempre più
astratta, metafisica, paradossale e, in fondo, come proponevo all'inizio, poetica,
il nucleo di convinzioni su cui ho basato le mie osservazioni finora non muta.
Lo vediamo bene nelle sue espressioni del 1995, a quasi vent'anni di distanza
(Il delitto perfetto).
In un mondo reale anche la morte diventa reale, e secerne un terrore che ha la sua stessa forza. In
un mondo virtuale, invece, facciamo a meno della nascita e della morte, e al tempo stesso facciamo
a meno di una responsabilità talmente diffusa e opprimente da non poter essere assunta.
Probabilmente, siamo pronti a pagare questo prezzo per non dover più assolvere perpetuamente
l'enorme compito di distinguere il vero dal falso, il bene dal male ecc. (Dalla trad. it. di Gabriele
Piana.)
L'abbandono del reale a beneficio dell'oggettivizzazione e della
razionalizzazione, della natura simboleggiata e sognata a vantaggio della res
extensa e della natura cogitata, della trascendenza e della metafora linguistica a
pro di un'insignificante immanenza metonimica, hanno tramutato l'uomo in
un essere mai nato e già morto «nel lenzuolo funebre trasparente di
un'immortalità su misura».
La natura è odiata dai nostri coevi con ogni evidenza e i motivi
risalgono all'imperfezione, alla violenza, all'irrazionalità di cui pare
portatrice, al grado supremo nella creatura uomo.
Ora non può esserci perfezione del mondo naturale, e l'essere umano in particolare è una
pericolosa imperfezione. Il mondo, per essere perfetto, dev'essere fabbricato. E pure l'essere
umano, se vuole ottenere questa specie d'immortalità, deve prodursi come artefatto, espellersi da
sé stesso su un'orbita artificiale, in cui potrà gravitare eternamente. (Dalla trad. it. cit.)
Ciascun ecologista profondo sa bene che codesti sforzi da apprendisti
stregoni si rivoltano ineluttabilmente contro gli autori.
Abbiamo tenuto per un po' di tempo il destino e la morte a distanza; oggi è esso a rifluire verso di
noi attraverso gli schermi della scienza. In definitiva, per una deviazione ironica, è forse
addirittura la scienza che affretterà la scadenza. (Dalla trad. it. cit.)
Più precisamente:
La catastrofe artificiale, come gli aspetti benefici della civiltà, avanza molto più in fretta della
catastrofe naturale. I sottosviluppati sono ancora a questo stadio primario della catastrofe naturale
e imprevedibile, noi siamo già al secondo stadio, quello della catastrofe fabbricata ― imminente e
prevedibile ― e arriveremo rapidamente a quello della catastrofe programmata, la catastrofe del
terzo tipo ― deliberata e sperimentale. (Dalla trad. it. cit.)
La natura agli occhi dei contemporanei è un infido ricettacolo di insidie: di
batteri, di malattie, di veleni, di deperimento. L'antidoto così si è configurato
nella ricerca esasperata della sicurezza, da cui è sorta la biopolitica che struttura
le società attuali: come ben sappiamo è la parola d'ordine primaria e ricorrente
dei governanti occidentali, italiani in primis, che ormai non trascura nessun
ambito della vita pubblica.
Ciò caratterizzerebbe la minaccia assai più grave di disgregazione e di morte che deriva dal nostro
eccesso di sicurezza, di prevenzione, d'immunità, dall'eccesso fatale del positivo. (Dalla trad. it.
cit.)
Si tratta di una vera e propria chirurgia dell'alterità, come è intitolato un
capitolo cruciale del trattato.
Questa liquidazione dell'Altro si accompagna a una sintesi artificiale dell'alterità, a una chirurgia
estetica radicale, di cui quella del volto e del corpo non è che il sintomo. Il delitto, infatti, è perfetto
solamente quando sono scomparse anche le tracce della distruzione dell'Altro. (Dalla trad. it. cit.)
Ma l'Altro è la natura, il Divino, il sogno, con il loro potere seduttivo e
illusorio, che può senza dubbio atterrirci ma la cui distruzione è la nostra
distruzione. E se la natura è mistero della generazione, oltre che della morte,
l'Altro è anche Donna par excellance. Nei confronti della quale si costituisce
una differenza artificiale per abolirla in maniera altrettanto innaturale.
Questa invenzione della differenza coincide con quella di una nuova immagine della donna, e
dunque con un cambiamento del paradigma sessuale. Si tratta della produzione da parte
dell'isteria maschile, sul finire del XIX secolo e della modernità, di un'immagine della donna al
posto della femminilità rubata. In questa configurazione isterica è in certo qual modo la
femminilità dell'uomo che si proietta nella donna e la modella come figura ideale a sua immagine e
somiglianza. Non si tratta più, come nella figura cortese e aristocratica della seduzione, di
conquistare la donna, di sedurla o di esserne sedotti; si tratta di produrla come utopia realizzata ―
donna ideale o donna fatale, metafora isterica e soprannaturale. (Dalla trad. it. cit.)
Sono spunti di immensa forza su cui il femminismo non si è purtroppo quasi
mai soffermato.
Curiosamente Baudrillard, non so se consapevolmente o meno, ci
ripropone la tematica a cui Illich ha dedicato Il genere e il sesso, con piena
condivisione di senso, però capovolgendo nel significato gli elementi della
dicotomia. Dove per quest'ultimo il genere era sinonimo della separazione
simbolica di due mondi alternativi, tipica delle società tradizionali,
modernamente soppiantato dal sesso nell'intercambiabilità delle funzioni
produttive, il nostro inverte i due lemmi configurando comunque il
medesimo procedimento storico.
L'avvento della problematica del genere (gender), sostituita a quella del sesso, illustra questa
diluizione progressiva della funzione sessuale. È l'era del Transessuale, in cui i conflitti legati alla
differenza, e anche i segni biologici e anatomici della differenza, si perpetuano a lungo dopo che
l'alterità reale dei sessi è scomparsa. (Dalla trad. it. cit.)
Compiendo un passo indietro voglio ora indugiare su uno scritto del 1992,
L'illusione della fine o Lo sciopero degli eventi, che dedica una parte consistente
sia all'odierna concezione perversa della natura, sia all'auspicabile futura
ecologia filosofica. Nelle mie intenzioni ciò dovrebbe pure aiutarci a dissipare
tante ingannevoli interpretazioni superficiali dell'ecologia che scorgiamo di
frequente e a sciogliere taluni equivoci sulla decrescita di Latouche.
Di recente leggevo un documento che propugnava per rafforzare la
sensibilità ecologica l'insistenza sull'evoluzionismo, perché far parte di una
catena evolutiva ci porterebbe ad amare e rispettare meglio gli altri
appartenenti: si dimentica che noi saremmo all'apice di codesta carriera
filogenetica, convinzione che ha molto spesso offerto pretesto per considerare
le altre forme di vita alla stregua della nostra infanzia, della nostra fase
incompiuta, sulle quali dunque avremmo una naturale autorità e delle quali
una naturale disponibilità. Abituiamoci piuttosto sulla scia di Paul
Feyerabend a diffidare di tutte le facili certezze cosmologiche! Per
Baudrillard l'evoluzionismo dominante
è sempre stata la peggiore delle ideologie coloniali, quella secondo la quale ci sarebbe una linea di
progresso obiettivo, di cui tutti dovrebbero percorrere le tappe ― la stessa farsa si ha a livello
dell'evoluzione delle specie e di un evoluzionismo che celebra unilateralmente la superiorità della
specie umana. (Dalla trad. it. cit.)
Personalmente riesco ad ammettere l'evoluzione solamente nell'accezione di
Konrad Lorenz, che la presenta come un'infinità di possibilità scaturite da un
atto originario (divino?), che prendono forma secondo regola e libertà nel
contempo. Ritenere però di poter giudicare definitivamente con sicurezza al
riguardo presuppone il considerarsi osservatori esterni del mondo anziché
suoi abitanti e partecipanti, quanto invece ci comanderebbe un'ecologia
autentica.
Come dovrebbe agire un'ecologia del genere? Magari dovrebbe persino
essere malefica(!) secondo la definizione che Baudrillard ne fornisce in un
titolo interno; contrapposta a quella positiva del facile trionfalismo del
riciclaggio, alibi per la prosecuzione della produzione proliferante e ormai
triste analogia col destino umano di oggi, giacché la nostra specie «comincia a
prodursi da sola come rifiuto e a portare avanti su se stessa questo lavoro di
deiezione». Questa particolare ecologia che profila Baudrillard è l'ecologia
della decrescita? I suoi contorni sono ancora troppo sfumati per affermare che
sia soltanto ed esattamente essa, ma di certo è anche essa, le somiglia da
presso. Presuppone il ribaltamento di una gran quantità di valori, una
nietzscheana trasvalutazione, nel confronto con l'ambiente, ponendo in seria
discussione atteggiamenti consueti, anche se apparentemente “amichevoli”.
La distanza che occorre dunque instaurare è dalle semplici e banali
dichiarazioni di principio e dalla ineffabile salvaguardia della natura nella
qualità di soggetto di diritti.
Tutto ciò è il prodotto di un'evoluzione molto sospetta del concetto di natura. Quanto prima era
materia, ora è divenuto energia. La scoperta moderna della natura corrisponde alla sua liberazione
come energia e a una trasformazione meccanica del mondo. Oggi, dopo esser stata materia, poi
energia, la natura diviene soggetto interattivo. Cessa di essere oggetto, ma solo per meglio entrare
nel circuito dell'assoggettamento. (Dalla trad. it. cit.)
Il rischio delle più superficiali professioni di ecologia è l'ambigua
riconciliazione con la natura; dopo averla resa una cornice per i nostri
sentimenti, un ambiente di mera accoglienza turistica o una veduta per
cartolina, spesso le tributiamo una solidarietà che nondimeno la mantiene
circoscritta a un ruolo di servizio. Amarla equivale invece a conoscerla e
accettarla con tutto il suo carico di mistero, pericolo, diversità, inarrivabilità e,
non meno importante, con la ricchissima simbologia di cui è custode. James
Hillman, filosofo e psicanalista di derivazione junghiana, sostiene che motivo
preponderante delle moderne nevrosi è il distacco dal potere simbolico degli
animali, che i primitivi e ancora gli antichi al contrario esaltavano nello
zoomorfismo religioso. Baudrillard, dal canto suo, ci ammonisce a non rendere
la natura un museo, un parco dei divertimenti, un ennesimo simulacro
sterilizzato da ogni negatività, come Biosphere 2, l'ecosistema artificiale
costruito in Arizona, dove però sono per esempio banditi in partenza gli
scorpioni velenosi.
Quel che hanno dimenticato è che a legare gli esseri viventi tra loro è qualcosa di diverso da una
solidarietà ecologica, biosferica, qualcosa di diverso dall'equilibrio omeostatico di un sistema ― è
il ciclo della metamorfosi. L'uomo è anche uno scorpione, come i Bororo sono degli Arara, e,
lasciato a se stesso in un universo espurgato, diviene anch'egli uno scorpione. (Dalla trad. it. cit.)
L'ecologia di Baudrillard, quindi, come l'ecologia di Latouche non è mai
unicamente biologica, puro e semplice ambientalismo, ma inevitabilmente
altrettanto simbolica, filosofica e sociologica.
Non soltanto per distruzione del proprio ambiente e del proprio supporto biologico, ma anche per
distruzione del proprio spazio simbolico, e in modo specifico di ogni illusione vitale, di quella
delle apparenze, delle idee, dei sogni, delle utopie, delle proiezioni ideali come di quella dei
concetti e delle rappresentazioni, compresa la rappresentazione della morte e del corpo, che [la
specie umana] scompare sempre di più ― grazie al fatto che tutto ciò si attua immediatamente e
non si opera simbolicamente. (Dalla trad. it. cit.)
Il sovvertimento del sistema in atto, di pensiero oltre che politico,
conseguentemente deve guardarsi da un'eccessiva biologizzazione delle
problematiche attuali, anche nella ricerca di una buona prassi ecologica.
Paradossalmente, è l'irruzione della biologia, cioè della scienza della vita, che caratterizza
quest'irruzione del non-vivente, la fine della trascendenza del vivente sul non-vivente. Proprio
come l'irruzione della psicologia caratterizza la fine della trascendenza dell'anima a vantaggio di
una decostruzione analitica dell'universo interiore. (Dalla trad. it. cit.)
Arriviamo così a un punto per me ineludibile: la religione, la spiritualità.
Invito a leggere con particolare attenzione le parole del filosofo francese, che
credo, per la convinta asserzione dell'inseparabilità del discorso materiale
dalla dimensione ideale, si avvicinino molto alla visione cosmoteandrica di
Raimon Panikkar:
Gli dèi, l'anima, l'immortalità, tutto questo, cui abbiamo dato il nome di superstizione o di
feticismo, era ancora un'estrapolazione spirituale, metaforica, delle facoltà dell'uomo, compreso il
corpo come metafora della resurrezione. Artefatti certo, ma immateriali, e che conservano una loro
forza proiettiva, insieme alla potenza e al gioco dell'illusione. Invece con la biologia e la genetica
siamo nella materialità pura, nella simulazione materiale di esseri obiettivamente immortali, in
quanto composti di elementi nucleari e di un codice genetico intemporale. (Dalla trad. it. cit.)
Deteriore feticismo è al contrario il contemporaneo culto degli oggetti,
soprattutto di matrice elettronica. Sono i prodotti che non incontrano mai
crisi, come sappiamo anche per recentissima esperienza.
L'illusione omicida della perfezione: come quegli oggetti da cui l'usura, la morte e
l'invecchiamento sono stati sradicati dalla tecnica. Il compact per esempio. Non diventa mai usato,
anche a usarlo. Terrificante. È come se non ce ne fossimo mai serviti. Come se noi non esistessimo.
Se gli oggetti non invecchiano più al nostro contatto, vuol dire che siamo morti. (Dalla trad. it. cit.)
Inequivocabile eterogenesi dei fini: a tanto siamo giunti per la hybris di voler
eliminare l'ombra della morte dalla nostra vita e dal nostro corpo.
Il fatto è che noi siamo divenuti, nel frattempo, perfettamente trasparenti. Oppure è che non c'è
neppur più fonte di luce, non c'è più sorgente abbastanza luminosa per darci un'ombra. La nostra
sola ombra è quella proiettata sul muro dall'irradiazione atomica. Le sagome stampate sulle pareti
dall'esplosione di Hiroshima. L'ombra atomica, la sola che ci resti: né l'ombra solare e neppure
quella della caverna platonica, piuttosto l'ombra del corpo assente, irradiato, il grafo
dell'annientamento del soggetto, della scomparsa dell'originale. (Dalla trad. it. cit.)
L'homo oeconomicus occidentale è pervenuto a questo distruggendo la
dimensione simbolica e spirituale con il proprio fanatismo integralista, sia
pure di marca antireligiosa.
Nessuna religione ha mai chiesto tanto all'individuo in quanto tale, e si può dire che
l'individualismo radicale sia la forma stessa dell'integralismo religioso. Religione moderna
dell'abnegazione, dell'operazionalità a oltranza ― la peggiore di tutte, in quanto recupera l'energia
dell'irreligione, tutta l'energia liberata dal cancellamento delle religioni tradizionali. È la più
grande conversione irreligiosa della storia. Rispetto a questo olocausto volontario, a questa
escalation del sacrificio, il cosiddetto “ritorno del religioso”, di cui si fa finta di aver paura, le poche
risorgenze di religiosità o di integralismo tradizionale, sono trascurabili. (Dalla trad. it. cit.)
Alla questione del terrorismo legato all'oltranzismo religioso il pensatore
transalpino dedicherà buona parte della sua ultima produzione, ma qui
sarebbe fuorviante trattarne.
Come premesso e promesso, mi dedico piuttosto, ora, ad analizzare la
proposta di Latouche, alla luce delle indicazioni che abbiamo tentato di
ottenere dalle idee di Baudrillard. È noto ai seguaci e lettori di Latouche che
la parola d'ordine della decrescita è in sé ambigua e necessita di
puntualizzazioni. Non vuol essere una semplice diminuzione del prodotto
economico, un banale camminare a rebour, sostituendo il segno meno ovunque
troviamo il segno più. Lo scopo, estremamente ambizioso, è di agire sul piano
ideale non meno che su basi materiali, non per invertire l'economia, che
sarebbe una sua ulteriore vittoria, bensì per liberarci ed estrometterci dalla
sua logica illogica. Un'ecologia della mente, direbbe Gregory Bateson, prima
ancora di un'ecologia dell'ambiente e contestualmente a essa. Ecco perché
Latouche stesso parla di una de-crescita come a-crescita con alfa privativo,
ovvero di un modello che non abbia bisogno della crescita, dello sviluppo per
lo sviluppo. Ed è qui che ci soccorrono, e ci aiutano a comprendere e
completare il concetto, le valutazioni di Baudrillard per un radicale
ripensamento dei meccanismi esistenziali che si sono impadroniti delle nostre
abitudini e dei nostri stili, dirigendo non solo gli atti, ma prima di tutto le
idee, i progetti. Il ritrovamento della centralità del simbolo, ci chiarisce, è la
precondizione per il miglior rapporto con la natura e la rinnovata
focalizzazione sull'illusione è il presupposto per il miglior sguardo al futuro.
Il rifiuto netto della proliferazione incontrollata, dell'autoproduzione
bulimica, della moltiplicazioni degli scambi asimbolici, va posto nei confronti
delle merci, dei trasporti e dei consumi inutili e dannosi, senza dubbio
alcuno, tanto quanto nei confronti dei segni ormai privi di riferimento, degli
spettacoli fini a se stessi, dei discorsi autoreferenziali e soprattutto di
un'immanenza materiale onnipresente e onnivora.
Latouche ci rammenta che quando si procede nella direzione sbagliata
occorre il coraggio di cambiarla totalmente e non solo di rallentare;
analogamente per Baudrillard in apertura di uno dei suoi libri più felici, Le
strategie fatali (1983), «pare che la specie abbia raggiunto un punto specifico
misterioso, a partire dal quale sia impossibile tornare indietro, decelerare, rallentare».
Per esplorare le possibilità, il filosofo invece azzarda delle analogie con
le figure retoriche, giacché per lui il piano della poiêsis della vita e del mondo
coincide con quello della creazione artistica e poetica. Dopo averci
prospettato in svariate occasioni che la catastrofe della società consiste nella
perdita grave della capacità metaforica, e quindi inventiva, simbolica, a
vantaggio di un abuso metonimico, ovvero di una circolazione indifferente di
segni dai significati intercambiabili, ci indica come invenzione
potenzialmente risolutrice la palinodia, letteralmente un'ode, in generale un
componimento che inverte e sovverte uno precedente.
Il palindromo, questa figura poetica e rigorosa della palinodia, potrebbe servire, in questi tempi di
estroversione della storia, da griglia di lettura (alla dromologia di Paul Virilio occorrerebbe
eventualmente sostituire la palindromologia?). (Dalla trad. it. cit.)
Se il palindromo è la lettura indifferenziata da sinistra a destra e au contraire (il
più famoso è in girum imus nocte, ecce, et consumimur igni), la palinodia è
qualcosa di più complessivo: in greco antico pálin vale sia “di nuovo”, sia
“all'indietro”, mentre ōdé è con evidenza il canto poetico. Decisamente un
omologo letterario della decrescita, alla luce del quale possiamo cogliere tutto
lo spessore di questa prospettiva “poeticamente” fondatrice, innovatrice,
creatrice, in grado forse di dare l'avvio a un'inesplorata e coraggiosa odissea,
finalmente cantata coralmente.