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La dialettica degli opposti: prospettive su Arché e Anarché

di Giuseppe Gorlani - 24/05/2010

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La diade Arché-Anarché può essere considerata sotto diversi punti di vista e assumere di volta in volta le connotazioni di un’opposizione, di una complementarità-identità, o anche di una relazione gerarchica tra due aspetti dell’Essere. Nell’affrontare il tema in oggetto, ci avvarremo principalmente della chiave di lettura Vedanta, uno dei sei darshana o sistemi ortodossi del cosiddetto Hinduismo o, meglio, del Sanatana-dharma, la Tradizione eterna. Questa dottrina distingue innanzitutto l’Essere in Immanifesto e Manifesto.[1] All’Immanifesto inerisce la metafisica pura; esso corrisponde al Brahman nirguna, ovvero all’Essere privo di qualificazioni, accostabile solo apofaticamente, e vien detto anche Turiya, il Quarto stato, o turiyatita, ciò che sta al di là di tutti gli stati, la Realtà assoluta. All’Essere nel suo aspetto Manifesto ineriscono invece l’ontologia, la cosmogonia e la cosmologia; esso viene diviso, sia sul piano universale (macrocosmo) che su quello individuale (microcosmo), in tre stati di coscienza, in tre mondi, in tre piani o corpi e in tre qualità fondamentali.

In ambito individuale, abbiamo dunque uno stato di veglia (jagrat), uno stato di sonno con sogni (svapna) e uno stato di sonno profondo senza sogni (sushupti). Lo stato di veglia corrisponde al corpo fisico o involucro denso, ovvero alla guaina fatta di cibo, e alla qualità o guna di tamas, l’inerzia, la staticità, l’oscurità. Lo stato di sonno con sogni corrisponde al corpo sottile, includente le tre guaine o involucri costituiti di prana o energia, di mente dicotomica o manas e di mente intuitiva o buddhi; ad esso si associa la qualità di rajas, l’attività, il desiderio, il calore. Lo stato di sonno senza sogni corrisponde al corpo causale, all’involucro di beatitudine (anandamayakosha), in cui la molteplicità si riassorbe nel silenzio e ad esso si associa la qualità di sattva, equilibrio, armonia, purezza. Parallelamente, in ambito universale, abbiamo: Virat o Vaishvanara, la totalità della manifestazione densa: il corpo tangibile e visibile dell’universo; Hiranya-garbha – il germe d’oro, l’uovo cosmico, covato dal Cigno simbolico Hamsa –, la totalità della manifestazione sottile; e infine Ishvara, il Principio primo o causale, l’Uno ontologico, l’Essere qualificato (saguna) che racchiude in sé, allo stato quiescente, tutte le possibilità della manifestazione. Quanto sovraesposto sinteticamente vale a guisa di mappa orientativa ed è espressione di una Scienza sacra che, diversamente formulata, appartiene sia all’Oriente che all’Occidente. Se ad Arché attribuiamo il significato essenziale di “principio” e ad Anarché di “senza principio”, possiamo qui stabilire una prima corrispondenza tra Arché e Brahman saguna, o Ishvara, o principio causale, e tra Anarché e Brahman Nirguna o Turiya, o Immanifesto. Per dirla con Meister Eckhart, Arché corrisponderebbe a Gott, il Dio creatore, dotato di qualità pensabili, e Anarché a Gottheit, la Divinità impensabile, il Deus sine modis, di cui non si può dire nulla.In questo sistema di equivalenze, Anarché non ha nulla a che vedere col significato che gli si attribuisce, in altri contesti concettuali, di rifiuto del principio di autorità, del governo, dello stato, della gerarchia e dell’ordine sociale. Esso piuttosto rimanda all’Àpeiron, all’Infinito-Illimitato e qualitativamente indeterminato, di Anassimandro,  o alla dimensione del Cháos, da non intendersi come disordine, bensì come stato dell’Essere antecedente il Principio da cui emana l’ordine, il Kósmos. Quindi, in un’ottica gerarchica, Anarché si rivela qui superiore ad Arché, poiché identico all’Assoluto.È bene precisare, tuttavia, come le distinzioni e le corrispondenze che proponiamo siano di natura puramente concettuale e non abbiano alcuna pretesa di assolutezza.[2] Nel mondo tradizionale orientale si è sempre tenuta presente la regola aurea delle due verità: quella realtiva e quella assoluta. Nagarjuna, logico buddhista del II sec. d.C., scrive nelle Madhyamaka karika, “Le stanze del cammino di mezzo”: «L’insegnamento della legge da parte degli Svegliati si svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e quella assoluta».[3] Anche il Vedanta pone una distinzione tra aparavidya – la conoscenza o verità non suprema, all’interno della quale ravvisa tre ordini di realtà: ontologica (paramarthika), fenomenica (vyavaharika) e illusoria (pratibhasika) – e Paravidya, la Verità suprema o Conoscenza dell’Assoluto, della quale si può dire che è priva di relazioni e di dualità, non limitata, non condizionata, non qualificata, non agente, incomprensibile, impensabile, indefinibile. Ovviamente il linguaggio e la scrittura, che appartengono alla sfera della verità relativa, sono, nel migliore dei casi, dita puntate sulla Realtà inesprimibile. Proprio come sostiene eloquentemente Chuang Tzu: «Lo scopo delle parole è l’idea: afferrata l’idea metti da parte le parole. Come troverò io un uomo che metta da parte le parole, a cui indirizzare le mie parole?».[4] Proseguendo nella nostra disanima di tipo analogico, lo stato indifferenziato (in sanscrito avyakta), al quale in precedenza abbiamo associato Anarké, non necessariamente rimanda all’Immanifesto, oltre il Principio, ma può essere associato pure, all’interno del Manifesto, allo stato dell’Uovo cosmico o Uovo di Brahma, immediatamente seguente il Principio, in cui la molteplicità dei nomi e delle forme giace ancora allo stato indistinto, potenziale. Secondo il punto di vista della cosmogonia Sankhya (un altro dei sei darshana ortodossi della Tradizione indiana), il cosmo è costituito da venticinque categorie o tattva, delle quali le prime due sono Purusha e Prakriti; Purusha è il principio attivo, maschile, portatore di forma e lo si potrebbe far corrispondere ad Arché; Prakriti è la sostanza primordiale, la materia-energia informale, indifferenziata, passiva, femminile e corrisponderebbe ad Anarché. Sulla base di questo breve accenno, si può intuitivamente comprendere come mai, presso tutti i popoli tradizionali dell’area indoeuropea, fosse e sia di fondamentale importanza sapere con certezza l’identità del padre; questi, infatti, è portatore del Principio, della forma, nel senso di essenza, che non potrebbe manifestarsi senza la disponibilità e l’apertura incondizionata della madre. Incidentalmente osserviamo come la tendenza contemporanea di rifiutare il valore della figura paterna si inscriva in un più ampio e integrale movimento di impoverimento e di annichilimento della realtà umana. Comunque, il sistema Sankhya, codificato dal saggio Kapila, è eminentemente dualista, poiché la diade Purusha-Prakriti costituisce una dualità irriducibile. Nello Yoga-darshana la diade del Sankhya verrà reintegrata nel Principio Ishvara che costituirà la ventiseiesima categoria. Stando alle dottrine taoiste, ab origine dal Tao, il Vuoto-Pieno ineffabile, emanò l’Uno, il Ch’i, l’etere primordiale; dall’Uno emanarono contemporanente due princìpi antagonisti e complementari, in rapporto continuamente variabile tra loro e compenetrantesi l’uno nell’altro, lo yin e lo yang: il primo di natura ricettiva, passiva, femminile e centrifuga, il secondo di natura attiva, propositiva, maschile e centripeta. Indi, dalla relazione tra i due si produsse il tre e dal tre le diecimila cose. Si noti come al passato remoto “emanarono”, testé usato, si dovrebbe più opportunamente sostituire il presente “emanano”, dato che presso tali tradizioni non si dà alcun valore al tempo storico, lineare, e si reputano coesistenti i tre momenti fondamentali dell’Essere: emanazione, mantenimento o equilibrio e dissoluzione. Abbiamo inoltre utilizzato l’ossimoro “vuoto-pieno” per sottolineare come il Tao sia vuoto solo dal punto di vista mentale, relativo, poiché è assurdo e contrario ad ogni evidenza e logica sostenere che dal vuoto o dal nulla possa emergere il qualcosa. Per curiosità, si noti come, secondo Alain Daniélou: «Nozioni come quelle di Yin e di Yang – trascrizione cinese dei vocaboli Yoni (vulva) e Linga (fallo) –, che rappresentano i princìpi femminile e maschile strettamente abbracciati, non si potrebbero distinguere dal Linga racchiuso nell’arghya (ricettacolo) del culto sivaita e indicano l’influenza del simbolismo sivaita alle fonti stesse del pensiero cinese».[5] La dottrina Taoista ha attinenza col sistema Sankhya dell’India, con la differenza che, mentre nel Taoismo i due princìpi, dalla cui unione – il numero tre – promanano i mondi, gli esseri e le cose, si risolvono, attraverso l’Uno, nel Tao, nel Sankhya non ci si preoccupa di ciò che sta oltre Purusha e Prakriti e, in termini realizzativi o di soluzione della sofferenza, esso auspica che il Purusha si distacchi dalla Prakriti, permanendo, come Testimone (Sakshin), nel suo stato originario di autosufficienza incondizionata. Stranamente ciò sembra attribuire al principio del Purusha una sorta di preminenza ontologica rispetto al principio della Prakriti. Nell’Introduzione alle Sankhyakarika di Isvarakrsna, Raniero Gnoli equipara il Purusha alla realtà assoluta e la Prakriti alla realtà relativa, sottolineando però come non si possa fare a meno di servirsi della realtà fenomenica per svelare la realtà ineffabile.[6] Tuttavia, l’idea che dal Vuoto-Pieno ineffabile emerga il Principio Ishvara, l’Arché, e da questo sorgano in contemporanea due principi di pari dignità e valore non è in genere riconosciuta dalla Tradizione del Sanatana-dharma. Per esempio, nella Prashna Upanishad si sostiene esplicitamente che dal Brahman emana il Sole, il divoratore del cibo, da questo la Luna, il cibo, e dalla Luna la molteplicità degli esseri. Si tratta pertanto di un’emanazione di natura gerarchica indicante pure il percorso di reintegrazione dell’individualità nell’Essere: dalla condizione umana al mondo della Luna o degli Antenati, da questo al Mondo del Sole o degli Dei, dal Sole a Ishvara, o punto di congiunzione tra il Manifesto e l’Immanifesto, che noi abbiamo fatto corrispondere ad Arché, e da questo all’Assoluto, al senza Principio. Tale manifestazione scalare dei princìpi la si ravvisa pure nella rivelazione biblica: da Adamo, l’uomo primordiale, di natura androgina, Dio estrae la donna, il principio femminile. Agli inizi del processo generativo abbiamo dunque una sorta di incesto: la figlia, emanata dal padre, si unisce al medesimo. In modo pressoché identico si svolge il mito vedico della creazione: Prajapati, l’uomo universale, prima ipostasi divina, genera Ushas, l’Aurora, alla quale in seguito si unisce per dare il via alla molteplicità degli esseri. Tale unione viene sia favorita che osteggiata da Rudra Shiva, nella sua forma di Sharva, l’Arciere selvaggio, il quale, mentre tenta di proteggere l’Increato, che egli più di ogni altro dio rappresenta, suscita contradditoriamente il desiderio erotico in Prajapati.[7] Alle radici dell’esistenza vi è pertanto una contraddizione irrisolvibile razionalmente. Il mito indiano sembra volerci dire che, distaccandosi dalla perfezione dello stato incondizionato, la creazione è imperfetta sin dall’origine. A ciò posero però riparo gli Dei, modellando coi mantra Vastoshpati, il Custode e Protettore dell’ordine sacro. Benché i modelli cosmogonici delle diverse tradizioni presentino delle costanti, si prestano a plurime interpretazioni. Nella Teogonia di Esiodo, le tre Potenze principiali sono Chaos, Gea ed Eros; qui però è Gea, la madre Terra, che emana il proprio figlio-sposo, Urano, il cielo stellato. Anche in India abbiamo un culto assai diffuso, detto Shakta, il quale identifica il Principio attivo dell’esistenza nella Shakti, la potenza o energia femminile. Soltanto elevando il proprio stato di coscienza dal manas, la mente dicotomica, alla buddhi, la mente intuitiva e sintetica, e da questa all’Atman-Brahman, il Testimone immutabile, l’Osservatore che non può essere osservato, l’uomo esce dalla dimensione gerarchica o labirintica della dualità e dell’opposizione, caratterizzante l’esistenza, per risvegliarsi nella coincidenza degli opposti, identico all’Essere.  Arché ed anarché possono essere altresì interpretati nel senso di dharma ed adharma. Dharma è un termine sanscrito dall’ampiezza semantica sterminata. Deriva dalla radice √ dhri, che significa mantenere, preservare; è etimologicamente connesso col sostantivo dhara, «che mantiene, sostiene, supporta, preserva». Dharma, soprattutto nella sua accezione più antica, vedica, è dunque innanzitutto ciò che sostiene e supporta l'intera manifestazione. Come la sostiene? La sostiene in qualità di norma, di legge, ordine. Nel Glossario Sanscrito si legge: «Questa parola, nel suo significato più generale, designa un “modo d’essere”; vale a dire, la natura essenziale di un essere, ovvero il “modo di essere” inerente alla natura essenziale dell’essere. Quindi conformità al Principio unitario-tonale».[8] Adharma significa invece “mancanza di conformità al Principio”; rifiuto sia dell’Ordine universale che della propria vocazione individuale; squilibrio, disarmonia, disaccordo; «non compimento del proprio dovere inerente allo stadio di vita (ashrama) o all’ordine sociale di appartenenza (varna)».[9] Da quanto sopra esposto si evince che il dovere primario dell’uomo consiste nel mettersi in armonia, sia a livello personale che universale e metafisico, con l’Arché, il Principio di Intelligenza-Legge-Ordine che sostiene la Manifestazione. Mettersi in armonia sul piano individuale, svadharma, significa prendere il proprio posto nel mondo umano, a seconda delle proprie caratteristiche fisiche, psicologiche e spirituali. Scrive Alain Daniélou, nella sua nota opera Siva e Dioniso: «Conformarsi a ciò che si è, è dharma. Dharma è un vocabolo che significa “legge naturale”. Conformarvisi è l’unica virtù. Non c’è altra religione che la realizzazione di ciò che si è per nascita, natura, atteggiamenti. Ciascuno deve recitare come meglio può la parte che gli è assegnata nel gran teatro della creazione. La felicità dell’uomo e la sua sopravvivenza dipendono dall’attuazione del posto che egli occupa tra gli esseri viventi come specie e tra gli uomini come individuo. Se cerca di attribuirsi un ruolo che non è il suo nella società, diventa un nemico dell’umanità. Se è un predatore, un nemico delle altre specie, diventa il nemico degli dèi, il nemico della creazione».[10] Detto ciò, apparirà chiaro come un’educazione corretta, volta al perseguimento del bene interno ed esterno, soggettivo e collettivo, non dovrebbe indirizzare i giovani verso questo o quel lavoro, a seconda delle esigenze adharmiche di chi muove i fili delle mode, delle tendenze consumistiche o delle situazioni politiche e di mercato, bensì permettere di realizzare al meglio le doti naturali di ciascuno, individuandone e favorendone la vocazione o svadharma. Oltre al dharma soggettivo, abbiamo pure un dharma supremo o metafisico, comune a tutti gli esseri, il cui fine è la realizzazione della Conoscenza di Sé in quanto Atman-Brahman. A questo punto sarà opportuno sottolineare come, secondo la prospettiva tradizionale orientale ed occidentale, il mondo moderno occidentale sia sostanzialmente adharmico, ovvero contrario al Dharma-Arché. Oggi il processo di distruzione della Norma e dell’Equilibrio su cui si fonda la vita umana e di tutto il pianeta ha raggiunto il suo apice o, quanto meno, vi è assai prossimo; non importa se, con l’intento di ingannare i semplici, tale disordine o squilibrio venga ancora ipocritamente ammantato in un sistema socio-politico ordinato, basta scavare almeno un poco sotto la superficie dell’apparenza per far emergere la natura demoniaca, perversa, o se vogliamo anarchica, delle forze che stanno guidando il mondo verso l’annichilimento. Tale processo, che dall’Illuminismo in poi è entrato in una fase di forte accelerazione, ha radici assai lontane; il suo inizio coincide con il sorgere dell’Era Oscura, o Kali-yuga, che, secondo la cronologia puranica, risale al 3102 a.C.. Il principio del Kali-yuga è contrassegnato da grandi battaglie – per esempio quella tra Pandava e Kaurava sullo Kurukshetra, che rimanda allo scontro-incontro tra dravidi e ariani – e dall’emergere di istanze di ribellione da parte del potere politico-militare, rappresentato dalla casta degli kshatriya, nei confronti del potere sacerdotale, detenuto dalla casta dei brahmani. Ciò può essere letto simbolicamente come un abbassamento dello stato di coscienza dell’uomo: dalla contemplazione, che è azione spirituale, teurgica e sottile, si decade all’azione mentale, utilitaristica, densa, fisica. Con l’Umanesimo, che pone al centro l’uomo, sostituendolo a Dio, e poi con l’Illuminismo, parodia dell’illuminazione, in cui la casta dei mercanti si sostituisce a quella dei prìncipi, abbiamo ulteriori abbassamenti coscienziali. Va tuttavia sottolineato come, secondo la Tradizione indiana, le prime tre caste – brahmana, sacerdoti, kshatriya, prìncipi, e vaisya, mercanti, contadini, artigiani – beneficino in ogni caso di gradi decrescenti di iniziazione al Gayatri mantra, il mantra vedico per eccellenza; esse dunque pongono ancora al centro, sia pur in modo viepiù fievole e deforme, il Sacro. Con l’avvento del marxismo, invece, che nominalmente eleva al potere il proletariato, recidendo ogni legame col Sacro, si conclude il capovolgimento gerarchico in relazione all’Arché. Nel mondo contemporaneo, che molti designano già come post-moderno, non è nemmeno più il proletariato, ovvero la casta dei shudra, collegata pur sempre ai piedi del Purusha, l’Uomo o Spirito cosmico, ad essere posto al vertice, bensì l’individuo privo di ogni orientamento e di ogni possibile comprensione dell’Arché, ormai appiattito all’interno dell’identificazione nei corpi fisico e mentale. Scrive il più volte citato Alain Daniélou nella sua interessantissima opera I Quattro Sensi della Vita: «Quasi tutta la società europeizzata di Nuova-Delhi che governa oggi l’India è in effetti dal punto di vista hindu una società di paria. Ciò spiega spesso la perfidia con la quale essi combattono le istituzioni tradizionali che li rifiutano».[11] Non è questa la sede adatta per aprire una parentesi sul significato profondo di varna o casta; basti dire che questa parola, varna, oltre a significare letteralmente “colore”, rimanda all’idea di qualità, intesa come attitudine, ed è collegata con la dottrina dei guna. Si legge nel Mahabarata: «Non c’è alcuna casta superiore. L’Universo è l’opera dell’Essere Immenso. Gli esseri creati da lui furono solamente divisi in caste secondo le loro attitudini-qualità».[12] La dottrina dei varna consiste dunque in nuce nel riconoscimento delle diverse qualità dell’uomo che devono cooperare tra loro per il bene comune, nel rispetto e nella comprensione della centralità del Principio. Si accennava poc’anzi all’ipocrisia caratterizzante il mondo moderno, il quale cela la sua natura tirannica, i suoi veri propositi egoistici e le sue pulsioni distruttive dietro la retorica dell’ordine cosìddetto democratico. Lao Tzu, il quale nel Tao Te Ching accenna ripetutamente all’Età aurea in cui la virtù dimorava tra gli uomini, parla esplicitamente, riferendosi all’Era attuale, di “grande ipocrisia”: «Quando il gran Tao fu messo in disparte / ci fu l’umanità e la giustizia / quando apparve accortezza e scaltrezza / allor ci fu la grande ipocrisia».[13] Tutte le antiche tradizioni sono concordi nell’affermare che attualmente stiamo vivendo nell’Era Oscura o Età della Discordia e dei Conflitti. Esiodo, ne Le opere e i giorni, ce ne dà una descrizione, sostenendo che l’ultima parte dell’Età Oscura o Età del Ferro vedrà sorgere, dopo l’estinzione della razza degli Eroi, la razza di Ferro; egli scrive: «Non avrà grazie l’uomo di parola, né il giusto né il buono, ma invece rispetteranno l’autore di misfatti e l’uomo violento. Il diritto starà nei muscoli [...] Il cattivo ingannerà l’uomo buono dicendogli parole oblique, e sopra vi farà giuramento».[14]  Anche Ovidio ne parla nelle Metamorfosi; ne citiamo una sola frase emblematica: «Non ci si accontentò più di richiedere alla terra feconda le messi e gli alimenti necessari, si scese fino alle sue viscere, e le ricchezze ch’essa teneva nascoste vicino alle tenebre dello Stige, tratte alla luce, risvegliarono tutti i mali: ben presto si mostrarono il ferro sì nocivo, l’oro più pericoloso ancora, la guerra che prende per strumenti l’uno e l’altro, la cui mano arrossata di sangue scuote le armi rumorose».[15] Se possibile ancor più esplicite ed eloquenti sono le descrizioni dell’Era Kali delle scritture indiane. Nel Bhagavata Purana sta scritto: «Quando regnano l’inganno, la menzogna, l’inerzia, il sonno, la malvagità, la costernazione, la pena, il turbamento, la tristezza: questa si chiama Età Kali, esclusivamente tenebrosa. Durante questo periodo gli uomini hanno l’intelligenza limitata».[16] Tutto è capovolto nel Kali-yuga e dunque, riallacciandoci al tema in oggetto, domina l’Anarché o Adharma, il rifiuto del Principio, dell’Ordine, dell’Armonia. Si tratta tuttavia di un capovolgimento subdolo, poiché nel punto centrale o apicale, che dovrebbe spettare al Principio o Dharma universale, viene collocata una parodia del medesimo – una sorta di “pane dipinto”, per dirla con Sant’Agostino – da cui non può che discendere un ordine contraffatto e innaturale. Si tratta di un pane raffigurato con consumata abilità, intendiamoci, ma chiunque può comprendere come esso sia incapace di soddisfare le vere esigenze dell’essere umano; esigenze che, ovviamente, non sono solo di ordine fisico o psicologico, ma innanzitutto spirituale. Non è fortuito il fatto che oggi si parli tanto di “realtà” virtuale, ovvero fittizia, e che questa venga data generosamente in pasto alle masse in nome dell’evoluzione intellettuale della specie, del progresso o dello sviluppo guidati, non si sa come, dal dio Caso. Altrettanto significativo e allarmante è il capovolgimento implicito nella distinzione tra cibo biologico e cibo convenzionale, come se potesse esistere un cibo che non è biologico. Ma allora il cibo convenzionale che cos’è? Evidentemente anch’esso è biologico, ma in modo distorto; a tale cibo, infatti, per motivi economici e non certo salutistici o umanitari, vengono pesantemente aggiunte sostanze chimiche nocive alla salute che lo snaturano, per non dire dei metodi insalubri, dannosi e inquinanti con i quali viene prodotto e dell’avanzare terrificante in agricoltura, ma anche in altri ambiti, dello spettro degli organismi geneticamente modificati. Non si deve, infine, sottacere un sia pur breve cenno agli orizzonti orripilanti che si aprono  dietro l’arbitraria definizione di “morte cerebrale”, sulla cui base è legalmente lecito espiantare organi vitali a persone nelle quali il cuore batte, il sangue circola e il respiro fluisce. In una siffatta situazione, Anarché può assumere il significato positivo di “Rivolta contro il mondo moderno”, per dirla con Evola, ossia di rifiuto di un falso ordine, di un falso governo, di una falsa autorità fondata non sulla ricerca della verità e sul rispetto del bene individuale e collettivo, ma sulla violenza, che è uso arbitrario della forza, e sull’inganno. Secondo tale chiave di lettura, l’Anarchia, che come filosofia è nata nell’800, equivarrebbe ad una sorta di medicina purificatoria: si brucia e si rifiuta tutto ciò che è fasullo, affinché emerga l’Ordine o il Vero in sé. Nei Tarocchi – i quali, secondo Eliphas Levi, compendiano in immagini la sapienza immutabile –,[17] la carta raffigurante l’iniziato è l’Appeso, come a dire che, quando l’errore è diventato norma, è indispensabile ribaltarne il punto di vista per tornare a vedere correttamente. Molti oggi usano il termine anarchia senza preoccuparsi di comprenderne i vari significati. A titolo di esempio, ho udito gli anni scorsi, nell’ambito degli incontri della Rete Italiana Villaggi Ecologici (R.I.V.E.), alcuni partecipanti affermare che, sebbene sia auspicabile relazionarsi gli uni con gli altri in un cerchio ideale, non esiste in realtà un centro, che la comunicazione è prettamente orizzontale e di tipo anarchico e che quindi non sono ammissibili gerarchie di sorta, né tantomeno alcuna forma di autorità, dato che tali concetti sono di natura “fascistoide” e rimandano necessariamente alla “fantasia” della verticalità. Basta fermarsi a riflettere un’attimo per rilevare come un cerchio senza centro sia un’assurdità geometrica, metafisica e filosofica, e come sia pure assurdo immaginare che la vita si riduca unicamente alla dimensione orizzontale, togliendo agli enti la loro anima sovrasensibile, e cioè quel quid o quel soffio che li collega e unisce all’Inesprimibile.[18] Quanto sopra evidenzia il persistere, anche in ambito cosiddetto “alternativo”, di un conformismo dell’anticonformismo, di un’ideologia dell’anti-ideologia. Non è certo pretendendo di rifiutare tout court il pensiero razionale, e neppure l’arché e il nomos, che si esce dal labirinto della dualità e si accede alla dimensione dell’unica “libertà” possibile, quella che scaturisce dall’identità tra il Sé (Atman) e l’Essere (Paramatman). Soltanto se si usa e pregia il pensiero per quello che è, esso ci paleserà il suo aspetto sottile, intuitivo (buddhi): l’intelligenza del Cuore, capace paradossalmente di tacitare se stessa e di penetrare la coincidenza degli opposti.

Tra l’altro, le medesime persone che proclamano l’anarchia, intesa quale rifiuto di ogni autorità, governo od ordine, vero o falso che sia, non possono evitare di cadere in contraddizione quando, esprimendosi in modo autoritario, utilizzano nelle relazioni con gli altri il proprio potere personale e una logica di natura gerarchica. Contrapporsi al Principio (arché), variamente definito ed interpretato, da cui emana l’ordine cosmico, e dunque anche la simbologia del linguaggio, non può che ingenerare confusione e ipocrisia. Il Principio può essere penetrato e risolto solo metafisicamente e perciò soltanto il sannyasin, ovvero l’aspirante alla liberazione in vita, che ha rinunciato ad identificarsi nell’apparenza, è legge a se medesimo e merita gli epiteti di svaraj, maestro di se stesso, e di ativarnashramin: colui che trascende i varna, gli ordini sociali, e gli ashrama, gli stadi esistenziali con i loro doveri e diritti connaturati all’esistenza umana.  Per concludere, nell’Era Kali in cui viviamo (che non vuol dire Era di Kali, la divinità, ma semplicemente “era oscura”) è indispensabile sì imparare a nuotare contro corrente, purché si resti orientati verso quel significato eminente o Dharma o Arché dell’esistenza, senza il quale questa si riduce a un flatus vocis: un vacuo frastuono offerto al nulla. L’Ecclesiaste ammonisce eloquentemente in tal senso. E ci sono dei versi del poeta indiano Bhartrihari che andrebbero meditati profondamente: «Gente, se delle vostre menti avete cura, / volgete dunque il desiderio al Brahman / senza fine o vecchiaia, sommo, esteso, / da cui consegue che [l’identificazione cieca in] ogni godimento, / la signoria sul mondo e via dicendo, / è fisima di uomini meschini».[19] E Giamblico, riferendosi alle idee e alle mete degli uomini accecati dalla nescienza, afferma in modo consonante in un suo frammento: «Giocattoli di fanciulli».[20] Da dove viene dunque l’enfasi con la quale il mondo moderno ci propone le sue mete di progresso e di sviluppo illimitati, fondati su di una tecnologia che è sostanzialmente frutto di un ladrocinio perpetrato nei confronti della terra, e i cui effetti collaterali sono incontrollabili, se non dalla pretesa di spiegare i significati ultimi dell’esistenza in termini materialistici? La forma particolarmente subdola, sofisticata e attraente in cui si manifesta questa ennesima illusione fuorvia molti. Ecco allora profilarsi la provvidenzialità di una sorta di “anarchia” interiore, spirituale, volta a ribaltare la prospettiva adharmica, che oggi viene imposta come unica “realtà” ed esportata urbi et orbi, affinché si riaffermi l’ordine dharmico emanato dall’Arché. Se davvero si vuole che questa sorta di restaurazione della Norma si realizzi, è indispensabile riconnettersi con i cicli naturali e reali – dell’acqua, della terra, dell’aria, del fuoco e dell’etere – che ci costituiscono, riscoprire i significati eminentemente affermativi del rito, del sacrificio, della rinuncia all’ignoranza, del rifiuto della logica del sasso che cade (per dirla con Michelstaedter) e armonizzarsi con i ritmi cosmici. Occorre altresì avere la forza interiore di rimettere in discussione tutto ciò che viene diffuso come ordine e come legge indiscutibili, per vagliarli alla luce del proprio intellegere o discriminare profondo. Inevitabilmente, nell’affermare cose ovvie e normali si rischierà di scandalizzare gli obnubilati che hanno perso il contatto con la realtà.  Ma soltanto in tal modo potremo tener viva nelle tenebre la fiaccola dell’intelligenza e del rispetto-amore per l’Arché, radicato nell’Ineffabile, Anarché. [Note al testo]