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Il nostro cuore è abbastanza grande da lasciar andare le persone che amiamo?

di Francesco Lamendola - 27/05/2010

 


Abbiamo sostenuto più volte che alla radice dei nostri errori esistenziali vi è essenzialmente l’attaccamento: l’attaccamento smodato, compulsivo, nevrotico, alle situazioni. alle cose  e soprattutto alle persone; che può manifestarsi nelle due forme - solo apparentemente opposte - della brama e del timore.
Vogliamo ora riprendere questo concetto e vedere in quale misura e in quali forme esso abbia una ricaduta nella concretezza della nostra vita affettiva, che è alla base del nostro benessere e, per usare una parola grossa, della nostra possibilità di essere felici.
In generale, noi ci attacchiamo alle cose per una forma di ignoranza circa la reale natura dell’affettività e per una sottovalutazione della nostra capacità di amare. In altri termini, ci sembra che solo afferrandoci alle cose e alle persone noi troveremo la nostra sicurezza affettiva: perché abbiamo costantemente bisogno di sentirci sicuri e, quindi, di sentirci amati.
Tutto ciò nasce da una profonda sfiducia in noi stessi, dato che, evidentemente, non ci sentiamo abbastanza sicuri di noi da poter accettare l’idea che possiamo bastare a noi stessi; o - il che è la stessa cosa, ma considerata da un altro punto di vista - che possiamo amare veramente tutto il mondo, senza però cadere nell’attaccamento egoistico.
Ci sembra, cioè, che, se non ci adoperiamo in ogni modo per conquistare e conservare, con le unghie e con i denti, il nostro pezzettino di sicurezza affettiva, il primo soffio di vento ci spazzerà via, insieme alle cose che amiamo, lasciandoci nudi ed esposti, come i più miseri esseri  dell’universo.
Si prenda, come tipico esempio in proposito, l’atteggiamento di moltissime donne nei confronti dell’amore. Vivono in uno stato di perenne sospettosità, perché vedono ovunque delle possibili rivali, sempre pronte a soffiargli il loro uomo: diffidano di tutte, a cominciare dalle migliori amiche, dalle sorelle, dalle madri e dalle figlie. E il bello è che non hanno nemmeno tutti i torti: perché vi sono veramente moltissime donne che puntano senza posa l’uomo di un’altra donna -  meglio ancora se è l’uomo della migliore amica, della sorella, della madre o della figlia - non per altra ragione che per sentirsi rassicurate circa la propria irresistibile femminilità, circa il proprio sconfinato potere seduttivo.
Perché di una lotta per il potere si tratta, senza esclusione di colpi: l’amore non c’entra affatto, anche se loro non se ne rendono conto. E l’uomo c’entra meno ancora: non  è che l’idiota di turno, che le donne vogliono possedere al solo scopo di mostrare al mondo intero che possono soffiarlo ad un’altra quando e come vogliono; oppure, viceversa, che possono difenderlo contro qualsiasi rivale, per quanto temibile e agguerrita.
Insomma, moltissime donne vivono con l’ascia di guerra eternamente a portata di mano, non perché vogliano conquistare o conservare un bene reale, ma per poter sconfiggere qualsiasi rivale in qualsiasi momento; e, dal momento che vedono rivali ovunque, almeno allo stato potenziale -comprese le loro figlie ancora impuberi - tutta la loro vita si svolge all’insegna della competizione, della lotta, dello strafare e della nevrosi da prima del reame.
E adesso torniamo al nostro assunto.
Quando ci comportiamo come degli esseri affettivamente minuscoli, che possono amare una persona sola ed essere amati da una persona soltanto, riceviamo già in noi stessi l’inevitabile castigo: quello di essere in uno stato di tensione e insicurezza permanenti, come un cane che ha rubato un osso, ma che non può mai mangiarselo e tanto meno concedersi un po’ di riposo, perché il branco dei suoi simili è lì tutto intorno, pronto a rubarglielo a sua volta al suo minimo errore, alla sua minima distrazione.
La persona affettivamente matura, viceversa,  è quella che non si attacca alle cose e alle persone, per il semplice fatto che possiede già in se stessa una sufficiente dose di autostima e che non nutre invidia nei confronti di nessuno, perché non si sente inferiore a nessuno e, sopratutto, non si sente in competizione con nessuno.
Se ama qualcuno in particolare, la persona affettivamente matura sa che non può mettergli la catena al collo, né lo desidera: perché, amando davvero, non desidera altro che il bene della persona amata, senza senso di proprietà e di attaccamento; e, se il bene di quella persona  è quello di rivolgere a trecentosessanta gradi il proprio potenziale affettivo, lei ne è felice di riflesso, come la buona madre è felice che i suoi aquilotti spicchino il volo.
E qui non posiamo non fare un altro esempio concreto, sempre traendolo dalla psicologia femminile (non per inconfessabili turbe misogine, ma per spassionata considerazione della realtà). La madre, che ha portato nel suo seno la nuova creatura venuta al mondo e che l’ha seguita e accompagnata nel processo di crescita, facilmente finisce per dimenticarsi che il suo compito è quello di farsi da parte, una volta che il figlio abbia raggiunto l’autonomia psicologica e affettiva.
Sappiamo che non è facile: è istintivo, per la madre, attaccarsi alla propria creatura, cercando di rimandare il più possibile il momento del distacco e, magari, barando con se stessa, laddove si ripromette di fare un passo indietro, ma solo quando sarà ben certa che egli sappia camminare da solo: perché questi non imparerà mai a camminare da solo, se una buona volta lei non si farà da parte, a costo di vederlo cadere in terra, qualche volta.
Paradossalmente - ma, forse, solo in apparenza - sono proprio le madri più amorevoli, le più scrupolose, quelle che cadono più facilmente nella sindrome della chioccia; quelle che hanno preso più seriamente il loro mestiere di madri; quelle che danno tutte se stesse alla loro creatura, prodigandosi e sacrificandosi senza risparmio, affrontando con cuore impavido qualunque difficoltà, qualunque rinuncia, pur di proteggerla e colmarla di amore.
Ahimé, più amore hanno dato, e più amore si aspetteranno di ricevere, magari anche solo a livello inconscio: e, con ciò stesso, preparano il dramma futuro, lungo e tormentoso, del distacco eternamente rimandato, delle pressioni psicologiche, dei ricatti affettivi, della progressiva, tristissima ma inevitabile trasformazione dei sentimenti positivi in sentimenti negativi: l’amore della madre che diventa, poco a poco, una forma di dominio; e l’amore del figlio che diventa, a poco a poco,  insofferenza ed esasperazione, se non qualcosa di peggio.
A livello generale, parlando non solo delle madri, ma di qualunque essere umano: il vero amore è quello che accompagna la persona amata verso la conquista dell’autonomia; quello che è sempre pronto, in qualunque momento, a farsi da parte per lasciarla andare; quello che si compiace della realizzazione e della felicità della persona amata, sia che ciò includa, sia che escluda la presenza di colui o di colei che amano.
Bisogna avere perciò l’onestà di riconoscere che, in questo campo, siamo quasi tutti, chi più e chi meno, dei perfetti analfabeti, che credono di sapere mentre non sanno assolutamente niente; e, quel che è peggio, che non sono disposti né a mettersi in discussione, né ad imparare.
Nella nostra immensa ignoranza, noi crediamo di possedere un cuore minuscolo, che può amare solo una persona alla volta e che può amarla solo ad esclusione di tutte le altre; e, naturalmente, pensiamo che ciò valga anche per gi altri, a cominciare dalla persona che costituisce l’oggetto del nostro amore. Di conseguenza, siamo sempre timorosi di perdere il nostro bene più prezioso, come l’avaro lo è di perdere le ricchezze accumulate.
Dimentichiamo, però, una cosa molto semplice e intuitiva, che avremmo dovuto capire da un pezzo, se l’attaccamento e la paura non facessero velo al nostro sguardo: che nessuno potrebbe “soffiarci” la persona amata, se noi non l’avessimo già persa; e che certamente finiremo per perderla, se dedicheremo tutte le nostre energie a controbattere ogni possibile minaccia proveniente dall’esterno, senza renderci conto che solo il nostro modo di essere: accogliente, aperto, gioioso e fiducioso, può renderci amabili e desiderabili.
In altre parole, invece di preoccuparci di quello che altri potrebbero toglierci, dovremmo concentrarci sulle qualità che ci rendono degni di essere amati: e la gelosia non è certamente fra queste, dato che testimonia soltanto la nostra pochezza, la nostra intima sfiducia in noi stessi, il nostro atteggiamento meschinamente possessivo. A nessuno piace essere “posseduto”: a nessuno, beninteso, che sia affettivamente e psicologicamente maturo. Solo un legame morboso, fondato sulla patologica insicurezza di entrambi i soggetti coinvolti, può configurarsi sotto il segno della possessività e della gelosia.
Se siamo degli analfabeti a proposito dell’amore, lo siamo anche a proposito della nostra dimensione più profonda.
Infatti, dovremmo incominciare a riflettere su quello che realmente cerchiamo nell’altro; perché, se ci ostiniamo a cercarvi soltanto quello che a noi stessi manca, invece di cercare di costruircelo da soli, saremo sempre degli esseri bisognosi di rassicurazione, appesi al filo della dipendenza dall’altro che, in qualunque momento, potrebbe spezzarsi, lasciandoci del tutto inermi ed incapaci di provvedere a noi stessi.
Una persona perennemente inerme, insicura, sfiduciata, ma anche sospettosa, gelosa, meschina, non è amabile; o, se lo è, lo è per delle persone che siano altrettanto inermi, insicure, sfiduciate, sospettose, gelose, meschine. Del resto, è vero che la maggior parte di noi cerca nell’altro, e finisce per incontrare, la propria parte nascosta, quella con cui non ha saputo fare i conti: per cui non trova qualcuno che esalti le sue qualità migliori e che l’aiuti a dare il meglio di se stessa, ma qualcuno che finirà per accentuare e portare fino al punto di rottura i suoi nodi irrisolti, le sue debolezze accuratamente occultate.
Siamo abituati, per una inveterata, cattiva abitudine, a buttare la nostra sporcizia sotto il tappeto, pensando che, finché gli altri non la vedono, è come se non ci fosse. È vero, semmai, il contrario: che quanto più a lungo riusciamo a nasconderla allo sguardo altrui, tanto più diverrà difficile, poi, se non addirittura impossibile, liberarcene veramente, vale a dire affrontandola ed eliminandola nel modo giusto.
Dunque: che cosa dovremmo cercare nell’altro, se non la nostra parte irrisolta ed ambigua, vale a dire la conferma delle nostre debolezze e delle nostre insufficienze? Perché è un fatto che, agendo così, noi anteponiamo il nostro bisogno di sicurezza, magari illusorio, alla nostra crescita spirituale, senza la quale gli altri non sono una scala per salire, ma semmai per discendere verso le regioni più basse e paludose dell’anima.
Dovremmo cercare tutto quello che ci aiuta a trascenderci, a migliorarci, a completarci, ad arricchirci, a potenziarci; ed evitare tutto quello che contribuisce ad indebolirci, impoverirci, isolarci, autocompatirci.
È chiaro che, per porci in una simile prospettiva, dobbiamo smetterla di vedere negli altri il nostro inferno, come diceva Sartre; e incominciare a vedervi, semmai, delle inesauribili opportunità di crescita, di maturazione, di progresso.
Il compagno o la compagna ideale sono quelli che ci aiuteranno a diventare più grandi, più aperti, più pazienti, più comprensivi; e la stessa coda vale per gli amici. Quanto ai parenti stretti, la nostra vita accanto a loro acquisterà un significato positivo solo se sapremo estendere anche ad essi tale attitudine di benevola attenzione e questo desiderio di reciproco completamento e di reciproco sostegno e arricchimento.
Arrivati a questo punto, diventa anche più chiaro ciò che abbiamo sostenuto all’inizio della presente riflessione: ossia che il vero amore è quello capace di lasciar andare le persona amate; mentre un amore falso e immaturo è quello che non si rassegna a lasciarle andare, ma vorrebbe eternamente trattenerle, come si trattasse di nostri ostaggi e di nostri prigionieri.
Il nostro cuore è abbastanza grande per essere capace di una simile attitudine?
Non lo sapremo mai, se non ci proviamo; se non proviamo a crescere.
Del resto, qual è l’alternativa: continuare sempre ad aggrapparci alle situazioni, alle cose, alle persone, pur sapendo che, così, prima o poi le perderemo?