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Julius Evola e la tradizione del Sanatana-dharma (II parte)

di Giuseppe Gorlani - 27/05/2010

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Evola spesso contrappone la libertà, attribuendola al fine che si prefigge il tantrico, alla liberazione, alla quale aspira la spiritualità vedantica. Crediamo tuttavia che l’India tradizionale veda le cose in modo diverso: non può esservi libertà senza liberazione dall’identificazione illusoria in un io agente, separato dell’Io-Tutto. Una volta risolto il velo obnubilante della separatività si ha libertà e non certo nel senso umano, corrente. Perciò non vi è opposizione tra lo spirito tantrico, sia shaiva che shakta, e quello vedantico, ma solo sfumature di approccio alla mèta comune.
È pur vero che nel Triadismo (Trika) shivaita del Kashmir – tantrico e non dualista ad un tempo (teologia della Differenza-nella-Identità) –(60) si pone più l’accento sulla libertà che sulla liberazione, bisogna però considerare come la prima sia la “luce”, o natura propria, dell’Io-Shiva, fomite di ogni diversità o unificazione, ma non appartenga giammai ad un “io” ottenebrato invischiato nella “diversità” o separatività, per quanto questi sia espressione dell’autosvuotamento della sostanza divina nel polo della Differenza. Nell’Introduzione di Raniero Gnoli al “Tantrasara” di Abhinavagupta si legge: «L’io è libertà. [...] La libertà dell’io [...] consiste tanto nel differenziare ciò che non è differenziato, quanto in un unificare, con una sintesi interiore, ciò che è differenziato. [...] La molteplicità non è, in altre parole, che un’espressione della potenza infinita e, dunque, della libertà della luce, che, senza decadere da quello che è, si manifesta come tutto, e proprio in questa sua manifestazione nella molteplicità si realizza come non-dualità [...] Io e tutto sono sinonimi [...] La luce è unica, essa non è in nessun modo divisa, e non c’è dunque nessuna diversità che possa incrinare la non-dualità [...] La diversità non è dunque altro che una parola, sprovvista di ogni realtà».(61) Abbiamo qui, come si può constatare un diverso approccio, rispetto al Vedanta, alla questione comune ad entrambe le scuole: la soluzione della dualità.
Evola sostiene altresì che nella via tantrica viene rifiutato il concetto vedantico di rinuncia, poiché si ritiene possibile conciliare bhoga (il godimento, la fruizione della realtà oggettiva) e moksha (liberazione, emancipazione dal divenire). A ben riflettere, però, anche nel tantra-marga abbiamo rinuncia, poiché un godimento privato di identificazione è inseparabile dal distacco (vairagya). Nella Via della Mano Sinistra (Vamachara) non è forse espressione di rinuncia al coinvolgimento o al cedimento avere rapporti carnali con una shakti senza emettere il seme? Del resto, se il mahavira non si distaccasse dall’identificazione verrebbe inevitabilmente travolto dalla tigre che intende stanare, invece di cavalcarla. Il suo modello o maestro è Shiva, l’asceta per eccellenza (mahatapasvin), il quale, anche mentre sta congiunto a Parvati, continua a praticare il tapas. Tale considerazione può essere estesa all’azione dharmica: mentre la persona agisce, resta consapevolmente distaccata e dai frutti dell’azione e dall’identificazione nel soggetto agente. Lao Tzu chiamava questo tipo di azione wei-wu-wei, agire senza agire.
La parola “rinuncia” esprime un concetto eminentemente positivo: ci si distoglie dalla parvenza del bene per abbracciare il Bene, si abbandona l’attaccamento a tutto ciò che non è permanente per risvegliarsi all’Eterno. Si può addirittura sostenere che per il vedantin non dualista non vi è alcuna rinuncia o distacco o fuga da esperire, dato che la molteplicità e il fenomenico sono il serpente sovrapposto alla corda. È l’aspirazione al Bene o ad Ananda che ispira gli uomini e non certo lo sterile obbligo alla virtù.
Il cosiddetto Tantrismo, prima di essere un corpus di insegnamenti finalizzati alla Liberazione, è uno spirito che pervade in toto la religiosità indica. Lo si ritrova espresso, vanificando la contrapposizione Tantra-Vedanta, anche nel “Canto di Gioia del Liberato in Vita” (“Jivanmuktanandalahari”) di Shankara, propugnatore dell’Advaita-vada; ne cito un sutra emblematico: «Quando egli versa delle sorsate [di vino sottile] nelle bocche di loto sbocciate delle shakti [interne], o quando le assorbe con la sua bocca di carne, mostrando così che il mio e il suo non intaccano la natura non duale, il saggio, la cui ignoranza è stata abolita dall’iniziazione del suo guru non è più il giocattolo dell’illusione».(62) Evidentemente abbiamo qui una testimonianza di inscindibile unità tra il Tantra e il Vedanta.
Sempre ne “Lo Yoga della Potenza”, Evola prende in considerazione le siddhi. Questo termine significa sia i “poteri” che si ottengono con la sadhana Yoga, sia “compimento”, “perfezione”. Quantunque egli chiarisca: «Qui non si tratta di potenziare fino all’estremo la natura umana bensì di “bruciarla”, dunque di bruciare anche l’“Io” individualistico e ogni sua hybris, per andare oltre»,(63) poche pagine prima scrive: «Per il kaula e per chi ha raggiunto lo stato del vero siddha-vira, per costui, che è e che sa, che è signore delle sue passioni, che si indentifica in modo completo con la Shakti, non esiste proibizione alcuna [...] così egli viene chiamato svecchacari “colui che può fare tutto quello che vuole” [...] Lo stato di Shiva (shivatva) essendo stato realizzato, cade ogni senso di differenza e ogni rapporto di subordinazione».(64)
Vien da chiedersi: «Chi è dunque il kaula, il siddha-vira, il mahayogin? E quali poteri egli avrà o potrà esercitare se ogni illusoria differenziazione è caduta?». Avendo egli realizzato lo stato di Shiva, l’indicibile, l’incommensurabile, non vi sarà più nessuno in grado di dirsi libero o non libero. Perciò l’enfasi da Evola posta sul vira, sul kaula e sulle siddhi decade e la seguente riflessione diventa incomprensibile: «Ciò che importa ai Tantra è invece compiere fatti sovrumani e divini con la forza delle proprie parole di potenza (mantra)».(65) Le principali scuole indiane tendono a due fini: liberazione (moksha) o unione (yoga). In entrambi i casi, è assurdo pensare che sussista un “io”, separato dal Brahman o dal Supremo, in grado di compiere alcunché. Il sadhaka che persegue la libertà di esercitare le siddhi viene considerato di rango inferiore o addirittura uno che ha fallito lo scopo di moksha. Nella “Hatha-Yoga-Pradipika” tali perplessità vengono chiarite laddove si elencano le siddhi; a proposito del potere sommo, yatrakamavasayitva («la capacità di determinare le cose secondo il proprio volere»), nel Commento ai sutra si precisa: «Il siddha potrebbe dare corso a un universo diverso da quello esistente, governato da altre leggi. Se ciò non accade è perché il natha diventa l’immagine dello stesso Shiva e quindi il suo pensiero coincide, e non potrebbe essere altrimenti, con quello del Signore».(66)   
Nessuna forma, per quanto elevata, di identità separata, o di scelta, o di libertà, o di azione possono pertanto sussistere una volta che il Vero si sia svelato nell’adepto. L’acuto Ananda K. Coomaraswamy esprime bene ciò nel seguente aforisma: «Benedetto è l’uomo sulla cui tomba si potrà scolpire “Hic jacet nemo”».(67) D’altro canto, se il nemo a cui si riferisce Coomaraswamy nega ogni forma di identità dualistica, non coincide neppure  di certo con il vuoto o il nulla delle interpretazioni nichiliste del Buddhismo, bensì con la pienezza (purna) della Presenza non duale, assoluta, di cui il Buddha non dice nulla, ma che la Shruti chiama Sat-Cit-Ananda, Essere, Consapevolezza e Beatitudine assoluti.
Si è accennato ad “interpretazioni” del Buddhismo, poiché esso ha assunto molti volti ed è ormai difficile, se non impossibile, discernerne il volto originario. Se lo si esamina in quanto religione priva di ontologia e di metafisica, basata sostanzialmente su precetti etici: bontà, carità, non violenza, ideale monastico, ecc., è interessante quanto ne rileva A. Daniélou in relazione al dharma degli kshatriya: «Le idee rivoluzionarie diffuse dal Buddhismo sul piano religioso resero possibile una rivoluzione nell’ordine politico. Gli ultimi Shishunaga furono dei Buddhisti e dei Jaina. Assai devoti e tesi a ricercare le virtù comuni e non quelle principesche, essi avevano dimenticato il grande principio degli Hindu, secondo il quale “le virtù che non sono quelle della vostra casta non sono virtù”. I re dovevano essere giusti, coraggiosi e virili e niente affatto compassionevoli e devoti. Fu proprio la dimenticanza di questo grande principio – che Krishna ricordò ad Arjuna nella Bhagavad-gita – che provocò la rovina dei Shishunaga e permise la salita al trono a quell’intrigante di vili natali che era Mahapadma, e portò alla rovina tutti gli alti valori della cultura di cui i nobili erano i protettori».(68)
Emerge qui una lettura del Buddhismo antico (gli eventi ai quali si riferisce Daniélou si collocano nel V sec. a. C.) in antitesi con quella di Evola, il quale lo propone come una via aria – sia in senso razziale che di nobiltà spirituale – particolarmente adatta agli kshatriya.
Secondo Daniélou, il Buddha fu semplicemente un riformatore religioso, tuttavia la sua dottrina divenne un pretesto che i prìncipi si affrettarono a cogliere per sottrarsi al potere dei brahmana; la rapida diffusione del Buddhismo fu, dunque, innanzitutto causata da ragioni politiche. In chiave simbolica possiamo scorgere in tali sommovimenti un abbassamento dello stato di coscienza dell’uomo, il quale sostituisce alla centralità del sacro, fondato sulla Conoscenza, la centralità dell’interesse politico, imperniato sull’azione. Comunque, l’emancipazione degli kshatriya dalla supremazia dei brahmana segnò pure l’inizio della loro decadenza, poiché un potere che non si radichi nella Conoscenza sovrasensibile è destinato ad esaurirsi e a corrompersi, come un fiume che sia stato isolato dalla sua sorgente.
Evola invece vede nel Buddhismo delle origini la trasposizione sul piano ascetico delle virtù guerriere; inoltre ne apprezza il distacco da ogni servaggio ad autorità umane o divine e il suo attribuire esclusivamente all’uomo la responsabilità del proprio destino.(69) Egli accenna ripetutatamente ad un principio extra-samsarico presente nell’uomo, ma, stando alle dottrine buddhiste, questi non sarebbe più di un insieme di aggregati presieduti dalla rigorosa legge del karma. Viene spontaneo chiedersi: «Se l’ente è un semplice automatismo, privo di ogni valore ontologico o metafisico, chi dunque dovrebbe essere responsabile del proprio risveglio?».
Sta di fatto che il Buddhismo non venne mai assimilato profondamente dal popolo indiano, che è per natura teista e conservatore e, non appena sorsero pensatori e maestri capaci di contrastarlo sul piano dottrinale, esso sparì dal Jambudvipa. In India – e lo si è già accennato – il Buddha viene considerato o un avatara (una discesa del divino svincolata dal karma), la cui funzione fu di riproporre il dharma delle “Upanishad”, reinterpretandolo sub specie interioritatis o, se lo si intende quale semplice uomo, come il propugnatore di una dottrina incomprensibile. Nel “Brahmasutra” di Badharayana o Vyasa, si legge che il Buddhismo deve essere rigettato «poiché risulta razionalmente insostenibile»(70) e Shankara, nel suo celebre “Commento al Brahmasutra” (“Brahmasutrasankarabhasyam”), lo paragona ad «un pozzo scavato nella sabbia»(71) o, secondo un’altra versione, lo ritiene: «destinato a estinguersi incenerendosi come erba nella sabbia».(72) Poco più avanti, Shankara osa persino sostenere che, se si ammettesse la fondatezza delle tre principali teorie buddhiste (realista, idealista, nichilista), si dovrebbe ravvisare nel Buddha: «una forma di estrema intolleranza nei confronti degli altri esseri, dato che questi esseri sarebbero rimasti certamente confusi dall’apprendimento di insegnamenti così contraddittori».(73)
Ananda Coomaraswamy, nel suo celebre studio “Induismo e Buddismo”, abbraccia la prima prospettiva e, in netto contrasto con la lettura evoliana, vede nel Buddha: «una deità solare scesa dal Cielo per salvare gli uomini e gli dèi da tutto il male che comporta il concetto di “mortalità”; e, in questa prospettiva, la sua nascita e il suo risveglio sono di sempre».(74)
Esamineremo ora in sintesi la questione della trasmigrazione, comunemente detta “reincarnazione”. È noto come Evola usi ripetutamente la locuzione spregiativa “fisime reincarnazionistiche”. Anche qui la chiave per affrontarla sta tutta nel modo in cui si concepisce l’“io”. Se la si osserva dal punto di vista del Monismo assoluto (l’Advaita shankariano), non essendovi alcun jiva separato dall’Atman-Brahman, non vi è nessuno che nasce o che muore e dunque anche il concetto di reincarnazione appartiene al dominio dell’apparenza: «[...] dal punto di vista della realtà assoluta non è ragionevole postulare nascita o distruzione quanto ai fenomeni».(75) Shankara, però, adottava, come del resto la stragrande maggioranza dei saggi orientali, la dottrina delle due verità: assoluta (paramarthika) e relativa (vyavaharika). Perciò è chiaro che, da un punto di vista relativo, se attribuiamo all’io, all’anima, alla persona, come pure all’emergere e allo scomparire del manifesto, il valore di espressioni del gioco (lila) di Dio-Ishvara o, in ogni caso, di differenti gradi di emanazione della Realtà, la dottrina della trasmigrazione o metempiscosi o reincarnazione acquista una certa credibilità razionale.
Evola abbraccia la dottrina tradizionale degli stati molteplici dell’Essere, ma, al pari di Guénon, ritiene che il principio trasmigrante nell’uomo non possa più ritornare allo stato umano, poiché: «un essere, qualunque esso sia, non può passare due volte per un medesimo stato, come abbiamo spiegato altrove mostrando l’assurdità delle teorie “reincarnazionistiche” inventate da certi occidentali moderni».(76) Eppure, in molti casi la Shruti e la Smriti parlano chiaramente di ritorno al manava-loka, al mondo umano. Guénon, tuttavia, interpreta l’espressione manava-loka nel modo che segue: «vale a dire una condizione individuale, così designata per analogia con la condizione umana, quantunque ne sia necessariamente differente, poiché l’essere non può ritornare ad uno stato per il quale è già passato».(77)
Nella “Bhagavad-gita”, Arjuna chiede quale via post-mortem prenda l’uomo che, quantunque dotato di fede, si sia distolto dallo yoga. Krishna risponde: «Avendo raggiunto la sfera dei ben pensanti e ivi dimorando per una serie ininterrotta di anni, colui che ha sospeso lo yoga rinasce in una casa di puri e ricchi di qualità. Oppure rinasce in una famiglia di yogi savi; una simile nascita [per i più] è molto difficile da ottenere nel mondo».(78) La chiarezza palmare dei sutra citati ci sembra difficilmente contestabile. Le Scritture indiane accennano spesso alla possibilità di ritornare alle forme di vita più disparate (piante, insetti, animali, ecc.), sottolinenando però sempre come il ritorno allo stato umano debba essere interpretato non alla stregua di un’espressione analogica designante la condizione individuale, bensì come una nascita egregia ed un’opportunità consentita ai jiva che abbiano seguito il pitriyana. È senz’altro inammissibile il pensiero del ritorno all’identico, poiché contraddirebbe l’evidenza assoluta dell’uno senza secondo, riflessa in ogni forma di vita – non c’è sasso identico a qualsiasi altro sasso –, tuttavia i giorni, le stagioni, gli anni ritornano e così pure gli universi scompaiono e riappaiono con l’inspirare e l’espirare dell’Ineffabile. Perciò non si comprende perché mai tale verità non debba valere anche per la nascita umana.
Nella sua bella Prefazione all’ultima edizione de “Lo Yoga della Potenza”, Pio Filippani Ronconi nota: «Cagiona, invece, una certa meraviglia il fatto che in quest’opera, come in altre, Evola refuti accanitamente le cosiddette “fisime reincarnazionistiche”, senza rendersi conto, apparentemente, che, sia in ambito hindu, che in quello buddhista, la teoria delle ripetute nascite sulla Terra costituisca il fondamento strutturale di tutto il sistema filosofico-religioso. Altrimenti da quale samsara dovremmo cercare la liberazione, ove la legge del karman non ci costringesse a rinascere in altra vita per espiare il frutto, il phala, delle azioni compiute in quella precedente? Tutta l’ascesi, il tapas, è fondato sulla necessità di svincolarsi da questa servitù [...] Dalla Bhagavad-gita ai Discorsi del Buddha, dai Purana alle Samhita, in tutta la letteratura filosofica, religiosa, mistica, drammatica e favolistica dell’India, la teoria delle ripetute nascite, in seguito al merito o al demerito acquistato, è dottrina incontrovertibile».(79)
Resta da chiarire, tuttavia, “chi” si reincarni o trasmigri. Di certo non si potrà dire che si perpetui l’“io” dello stato di veglia; esso infatti sparisce nel sonno profondo senza sogni. Piuttosto si dovrà pensare a delle monadi emanate dal Principio primo, Ishvara, le quali, attraverso innumeri esperienze nei vari stati dell’Essere, perverranno ad un punto in cui la forza centrifuga si capovolgerà in centripeta ed esse cominceranno a ri-cordare chi sono in essenza. Il percorso di tali monadi o jivatman potrebbe coincidere, nella fase di andata (pravritti-marga), col lignaggio ereditario, e, nella fase di ritorno (nivritti-marga), con un superiore lignaggio spirituale. Nella prima fase si avranno le iniziazioni rituali che in India vengono impartite, nell’ambito delle prime tre caste, al fine di mantenere l’ente orientato in senso dharmico; nella seconda fase si avrà l’iniziazione al sannyasa,(80) ovvero alla rinuncia, in cui l’ente, consapevole ormai della propria reale identità, si pone al di là degli stadi di vita e degli ordini sociali. In quest’ultima iniziazione l’apparato rituale sarà assente o ridotto al minimo, poiché essa consiste nel contatto diretto con un Maestro realizzato, il quale trasmette il proprio influsso o shakti, indelebile, in modi disparati e imprevedibili: un semplice sguardo, un tocco, un sorriso, una parola, una sberla, il silenzio.(81) Inoltre, il sannyasin, ma anche chi percorre la via degli Dei (deva-yana) e abbia superato il Chandra-loka non torneranno più al manava-loka.  
Nell’Appendice I a “Lo Yoga della potenza”, Evola prende in considerazione gli stati dell’essere seguenti il trapasso. Proseguendo il discorso che aveva già avviato nel capitolo V sul significato del termine pashu (vincolo, legame, animale da sacrificio) tocca il tema del pitri-yana e del deva-yana. Egli giustamente sostiene che, già in vita, occorre aver spostato «il centro di sé fuor dalla pura esistenza samsarica», ma poi, parlando del pitri-yana, la via dei Padri, afferma: «Seguendo questa, che è la via calcata coattivamente dai più, la morte ha appunto un effetto dissolutivo per la personalità, la quale si scioglierebbe di nuovo nelle forze ancestrali del suo ceppo come un animale è sacrificato agli dèi, ad alimentare nuove vite; per cui a sussistere sarebbe soltanto l’accennato meccanismo karmico».(82)
Ciò non ci sembra corrispondente a quanto insegna la tradizione indiana. Semmai, se a “persona” si attribuisce un valore principiale sul piano soggettivo, si dovrà parlare di un effetto dissolutivo sull’individualità. Infatti, la via dei Padri è riservata a quelli che, durante la loro esistenza terrena, hanno ottemperato allo svadharma, fissando in tal modo un centro fuori dall’andare cieco. Essi dunque non si perdono nel «meccanismo karmico», nella nescienza, ma, dopo aver sostato nel Chandra-loka, beneficiando dei frutti delle azioni, ritornano sulla Terra, prima come piante, poi come uomini. Piuttosto è lecito presumere che si dissolveranno nella nescienza quelli che in vita non abbiano fissato alcuna salda consapevolezza oltre l’io empirico.
Anche in questo caso emerge in Evola una certa mancanza di chiarezza nell’uso del linguaggio sapienziale indiano; probabilmente ciò deriva, tra l’altro, dalla mancanza di un contatto diretto con la tradizione del Sanatana-dharma, la quale, nel suo intimo, è assai riservata e totalmente priva di istanze missionarie.
Per concludere il discorso sulla trasmigrazione e sulle vie post-mortem, trovo che la prospettiva indiana sia ben riassunta e spiegata nella seguente riflessione del filosofo T.M.P. Mahadevan: «Dopo la morte fisica, l’anima può dirigersi lungo il sentiero degli Dei o il sentiero dei Padri, portando con sé le parti più sottili degli elementi e gli organi dei sensi, etc., che formavano gli ingredienti della sua costituzione. Vi è anche un terzo luogo menzionato nelle Scritture: le anime che non sono adatte a seguire né l’uno né l’altro sentiero ottengono lo stato di creature infime che continuamente nascono e muoiono. Anche le anime che percorrono gli altri due sentieri, salvo il caso di coloro che hanno realizzato il Brahman Saguna (qualificato), devono ritornare al mondo dei mortali, non appena il loro merito sia esaurito. I testi descrivono il processo attraverso il quale tutto ciò accade. Essi offrono dettagli che riguardano il ri-entro dell’anima nel grembo materno e la sua reincarnazione. La migrazione dell’anima continua finché essa non si libera tramite la realizzazione del Brahman non duale».(83)
Riguardo alla questione dell’amore e della devozione, in un’interessante relazione presentata in occasione del Convegno “Evola e la Cultura”, nel 2006, Stefano Arcella nota: «Orbene, questo aspetto dell’Amore non viene focalizzato in Evola, che sembra soffermarsi solo sull’aspetto “potenza”, “ebbrezza fluidica”, senza però spiegarci come sia possibile pervenire a questa condizione senza un senso del donarsi con gioia, del consacrarsi ad una Via, del nutrire le immagini con un Amore sottile, con un “fuoco” dolce e costante».(84) Si tratta di una considerazione importante giacché sottolinea un argomento spesso trascurato. Nel prosieguo dell’articolo si legge ancora: «Si è discusso molto, di recente, sul limite dualistico che caratterizza Evola in Rivolta contro il mondo moderno quando contrappone, in vari punti del testo, il Principio maschile a quello femminile come, ad esempio, quando contrappone la “virile” civiltà romana al mondo etrusco ed italico visto come espressione di un principio tellurico-materno-pelasgico [...] senza tener conto della presenza e del rilievo dei culti femminili complementari a quelli maschili quale “costante” in tutte le civiltà tradizionali».(85)
È senz’altro vero che nell’opera di Evola si riscontra una spiccata tendenza alla contrapposizione e alla schematizzazione, oltre che al rifiuto di tutto ciò che a lui pare connesso col “mistico”, ovvero, stando al senso che egli attribuisce a questo lemma, passivo, dipendente, mobile, fuori di sé. Ciò, tuttavia, se da un lato può manifestarsi quale chiusura nei confronti di approcci realizzativi pur validi, dall’altro rivela una sua costante attenzione alla gerarchia fondata sulla maggiore o minore autocompiutezza e indipendenza degli enti e pone in risalto la sua dignità di kshatriya-filosofo che gli vieta di indulgere troppo in emozioni e sentimenti impliciti in espressioni quali: “donarsi con gioia” o “fuoco dolce e costante”.(86)
Tutto nell’universo si esprime in modo gerarchico: le qualità e i princìpi (tattva) si reintegrano gli uni negli altri secondo modalità e gradi sottoposti a leggi immutabili, sino al Principio causale, la porta di congiunzione tra l’Esistere e l’Essere. Se si desse per equivalente la dualità maschio-femmina, che in fondo coincide con quella io-l’altro, soggetto-oggetto, essa diverrebbe irrisolvibile e la strada della trascendenza resterebbe sbarrata. Anche nel Sankhya, considerato un sistema cosmogonico dualistico, è inevitabile notare una sorta di preminenza del Purusha su Prakriti; secondo questo darshana infatti si ha Liberazione quando il Purusha, con l’approvazione della Prakriti, distoglie la propria attenzione dall’attività manifestativa e torna ad immergersi in se stesso. Per contro, nel darshana Yoga il processo finale di soluzione della dualità viene spiegato perfettamente: lo yogi, con la propria immobilità, costringe la shakti-kundalini a svegliarsi e a reintegrarsi in Parmashiva nel sahasrara-chakra. Nota Evola: «[...] tutto ciò che è azione, dinamismo, sviluppo, divenire sta invece sotto segno femminile, cade nel dominio di prakriti, della natura, non in quello dello spirito, dell’atma o del purusha, non ha in sé il proprio principio».(87)
Nella “Prashna-upanishad”, Sole e Luna non sono considerati due princìpi contrapposti e complementari, bensì il primo contiene il secondo, e cioè « ha in sé il proprio principio». «Pertanto il Sole viene anche identificato con Vaishvanara, totalità del mondo formale, con Vishvarupa, Colui che si manifesta in ogni forma, e con Agni, il principio Fuoco che tutto consuma, trasforma e riassorbe. In altre parole sono l’oggetto e il Soggetto che si manifestano ad ogni livello, dall’individuale all’universale».(88) In tale gerarchia sono implicite tra l’altro le tappe del percorso emanativo e di quello reintegrativo. Pure gli Shakta, i quali identificano l’Assoluto, il Brahman, con la suprema Shakti, Parameshvari, sottolineano un rapporto gerarchico, in questo caso capovolto, dei due princìpi. La gerarchia non avvalla di certo un atteggiamento di disprezzo nei confronti dell’“inferiore”, ma semplicemente indica una strada percorribile. Significativamente nell’antica Grecia la donna poteva accedere ai Piccoli Misteri, ma non ai Grandi Misteri. Concettualmente il rapporto tra i due tattva principiali è chiaro, ma il significato della Presenza immutabile dell’Essere nel divenire o del Soggetto che sembra duplicarsi nell’altro da sé, sfuma nell’inesprimibile. Il fatto che presso i popoli pre-vedici, già dediti allo shivaismo, vigesse il matriarcato non ne confina necessariamente la spiritualità entro dimensioni telluriche, per dirla con Evola, e neppure inficia l’ipotesi di rapporto gerarchico sovraesposta: il femminile si occupava di manifestazione densa e sottile, il maschile, reintegrata in sé la shakti, aspirava a varcare la soglia del Sole.
Presso quasi tutte le scuole, possedere, conoscere o riassorbire in sé la Shakti vale quale tappa imprescindibile sulla via della Reintegrazione nel Purusha. E ciò significa amare la shakti-natura di un amore speciale, di un amore cioè che non la imprigioni nel ruolo di oggetto, ma che la sublimi nell’inesprimibile Non-dualità. D’altro canto, se si insiste ad oggettivare e a violentare la Natura, invece di comprenderla e interiorizzarla, i risultati non potranno che essere alienanti e disastrosi.  Nel Vedanta non dualistico questa tematica sembra assente, poiché la si considera preliminarmente acquisita e risolta. Nella “Prashna-upanishad”, i sei saggi che si recano dal rishi Pippalada per interrogarlo sulla Conoscenza ultima hanno già realizzato il Brahman saguna.
In sintesi, l’aspetto “amore” in Evola si nota pochissimo e per via della sua aspirazione al superamento della dicotomia caratterizzante la Manifestazione, e per la sua tendenza spiccata alla differenziazione gerarchica: due moti dello spirito contrapposti che solo nella dimensione metafisica trovano soluzione. Dal punto di vista del Monismo shankariano, egli era fornito quantomeno della quarta qualificazione fondamentale per la realizzazione: mumukshuta, l’anelito fermo ed ardente alla liberazione dal condizionato; in questa qualità si ravvisa una forma elevata di bhakti, quasi impalpabile, poiché priva di oggetto. Nello stesso tempo, però, osiamo azzardare come egli non sia riuscito a distaccarsi dalla sua identificazione e dal suo orgoglio di casta. Da ciò, forse, scaturiscono alcuni suoi irrigidimenti, contraddizioni e incomprensioni; pensiamo alla supposta superiorità dell’ario sul dravida, alla supremazia del Buddhismo delle origini o del Tantrismo Vajrayana sul Vedanta, all’interpretazione riduttiva di “mistico”,(89) all’equivalenza attribuita alle “verità guerriere” e a quelle “contemplative”, allo scarso valore attribuito a certe vie bkakta,(90) o, in sintonia con le dottrine atomiste e pluraliste, all’assolutizzazione dell’individualità che è limitazione nel tempo e nello spazio.(91)
Nota opportunamente Nuccio D’Anna nel suo studio su Evola e l’Oriente: «Il suo punto di vista, ricordiamolo, è essenzialmente quello di uno kshatriya, di un guerriero che [...] non intende affatto subordinare il proprio ruolo rispetto a quello dei brahmana, e mostra un orgoglio di casta che arriva fino al punto di tentare di invertire i normali rapporti gerarchici fra autorità spirituale e potere temporale».(92)
Osiamo altresì supporre che, quantunque egli resti un apritore di strade, un riscopritore, insieme a Guénon, del significato autentico di “tradizione” e un esploratore coraggioso di dimensioni liminali, non poté percorrere sino in fondo la via dell’identità suprema, adombrata nel suo “individuo assoluto” (locuzione tipicamente occidentale, ma incongrua per un Hindu), poiché gli venne a mancare la guida del maestro.
Si legge nello “Siva-samhita”: «La scienza impartita dalle labbra di un maestro è efficace, diversamente è priva di frutto, debole e addirittura pericolosa. [Commento] Lo Yoga non è un disciplina per autodidatti, la presenza del maestro è indispensabile; tale concetto viene ribadito in più punti. Benché, in ultima analisi, la vera guida sia Shiva, non è tuttavia possibile raggiungere la conoscenza senza una guida incarnata in un essere umano e collegata ai veggenti dell’antichità in una catena iniziatica».(93)
La riflessione citata non è ovviamente valida solo per lo Yoga, ma anche per qualsiasi altra via realizzativa. Possono esservi delle apparenti eccezioni, ma queste resteranno appunto tali. Il maestro è imprescindibile innanzitutto perché non si avrà mai la certezza che la mèta possa essere svelata, se non si incontra un uomo in carne ed ossa in cui l’Atman sia divenuto consapevole di Sé in modo indubitabile. Il maestro non è l’altro da sé, è il Sé, l’Io assoluto che trapassa nel Quarto (Turiya). Non vi è pertanto dualità nella apparente relazione guru-shishya. Scrive Shankara, commentando Gaudapada: «[...] così la costruzione mentale erronea relativa alle differenze tra colui che deve essere istruito e gli altri elementi è determinata da un’istanza rivolta unicamente all’insegnamento prima che sia sorta la comprensione: colui che deve essere istruito, l’istruttore e l’istruzione riguardano “un discorso rivolto unicamente all’insegnamento”. Ma una volta portato a termine l’insegnamento, ossia “una volta conseguita la conoscenza” [...] non vi è [più] dualità».(94) E infine, il riconoscersi nel maestro, oltre a risvegliare la certezza totale, libera il discente da ogni forma di arbitrario solipsimo.
Spesso Evola accenna al Buddhismo come ad una via in cui l’uomo si libera da solo ed è questo uno degli aspetti che lo affascina maggiormente in tale religione. In realtà, però, checché se ne dica, in qualsiasi forma di Buddhismo è presente la figura della guida, del maestro; inoltre, l’aspirante si avvale dell’aiuto di un Ordine nel quale entra a far parte e di regole, discipline e dottrine alle quali deve aderire. Dove sta dunque il tanto decantato liberarsi da sé senza appoggiarsi a nulla? E che cosa significa “liberarsi da sé”? “Chi” dovrebbe liberarsi da “chi”? L’individuo è un’entità di relazione appartenente alla sfera dell’impermanenza e non è certo lui che deve o può liberarsi in senso metafisico; semmai è dalle apparenti costrizioni della sua separatività che il riflesso della Verità immanente nel jiva si deve liberare; soltanto l’Atman è kevala, assoluto, isolato, intoccato dalla trasmigrazione ed è dunque “lui” il maestro che libera il proprio riflesso dall’obnubilamento della dualità, risvegliandosi allo stato incondizionato (kaivalya). Non è l’individuo, ma l’Atman in Shankara che afferma: «[...] non ho padre né madre né, ancora, nascita; non ho parenti, amici, né maestro né discepolo. Sono Coscienza ed essenza di Beatitudine. Sono Siva, sono Siva».(95)
Certo, in quest’Era Oscura tutto è sovvertito, il toro del Dharma poggia su una zampa sola ed è pertanto inevitabile che emergano opportunità di orientamento e di illuminazione eccezionali. Ciò è accaduto, tra l’altro, anche con il recente movimento hippie che ha visto molti giovani andare in India spinti da varie motivazioni: moda, curiosità, “fame di vento”, droghe, ecc. Con ragione, dunque, Evola scrive: «[...] l’Occidente negli ultimi decenni è stato preso da un èmpito confuso verso qualcosa di “altro”, non sapendo però giungere che a forme equivoche, superstiziose e inconsistenti le quali, contraffacendo la vera “spiritualità”, hanno costituito, alla fine, un pericolo altrettanto reale quanto quello del materialismo contro cui erano partite».(96) Tuttavia, sebbene molti  siano stati spinti da un confuso anelito al sacro, soltanto pochissimi hanno realmente incontrato il Sanatana-dharma, dimostrando così come la trasmissione iniziatica non possa mai interrompersi. Costoro non sono da cercarsi tra quelli che hanno dato il via a “nuove” scuole, sette, dottrine, ecc., poiché la “tradizione”, alla quale Evola contribuì a ridare preminenza, non si occupa di cose vecchie o nuove, bensì del permanente.