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Antonio Zanetti. Le ultime parole famose

di Mario Grossi - 01/06/2010


Non c’è niente di più ambiguo delle parole. La loro ambivalenza è sotto gli occhi di tutti. Non esiste un esprimersi neutrale. Basta modificare un accento, usare un tono rispetto a un altro, collocare un aggettivo, prima o dopo un sostantivo e il significato cambia drasticamente. Bravo può essere utilizzato per lodare “Bravo, proprio bravo” se declamato con tono compiacente. Ma quel “Bravo, proprio bravo” si può utilizzare per rimproverare. Basta appunto usare le stesse parole ma modulando il proprio tono che da cordiale si fa sarcastico. Solo un esempio minuscolo per dire che tutti i giorni siamo alle prese con quest’ambiguità, spesso voluta, spesso utilizzata. Ambiguità e ambivalenza che convergono. Come succede nell’ultimo libro che ho letto, Le ultime parole famose, scritto da Antonio Zanetti, edito da Liberamente.

Il titolo e la struttura del libro ci riportano all’ambiguità di cui prima. Le ultime parole famose possono essere quelle che sono state pronunciate da uomini famosi in punto di morte, ma anche le affermazioni declamate con presuntuosa certezza e che sono state clamorosamente smentite dal tempo.

La struttura del libro ricalca questo schema e l’ambiguità del titolo giustapponendo due parti che in prima battuta sembrano distanti e inconciliabili ma che possono, anche se un po’ maliziosamente, essere accomunate.

Nella prima parte sono riportate dunque le ultime parole di uomini famosi in procinto di morire, raccolte da testimoni oculari (sarebbe meglio dire auricolari).

Nella seconda parte sono invece catalogate affermazioni, sempre di uomini famosi, che dall’alto della loro autorità, sono tanto assertive e trancianti quanto clamorosamente smentite dai fatti.

Il libro, come sempre nel caso dei florilegi, è di facilissima e rapida lettura. Ogni pagina contiene una frase e un piccolo testo teso a contestualizzarla. Lettura tanto rapida che rischia di non lasciar sedimentare nulla. Così non è, e nel mio caso ciò che rimane è un sottile sentimento di rabbia frammisto a sbigottimento e commiserazione.

Nella prima parte sono raccolte frasi che restituiscono un senso d’inutilità, di banalità che fanno dire che sarebbe stato meglio che nessuno avesse raccolto quelle ultime parole. Rarissimi i casi in cui si va oltre la scialba ordinaria sentenza.

Qualcuno afferma che se è importante vivere bene è ancor più importante morire bene. Dopo la lettura di questo libro si potrebbe aggiungere che, sempre ammesso che si possa avere la consapevolezza del proprio morire in quegli attimi che precedono la morte, è importante dire bene anche le ultime parole. Esiste una alternativa, che io reputo assai migliore, quella di tacere.

Se i testimoni della morte del famoso devono registrare, come ultime parole, frasi di questo tipo “Non mi sono mai sentito meglio” di Douglas Fairbanks eroe di tanti film muti, che suona quasi ridicola, viste le condizioni del morituro, o quella attribuita a Fernando Pessoa “datemi i miei occhiali” che mi fa pensare a un’involontaria ironia auto inferta, visto che gli occhiali non gli hanno permesso certo di vedere meglio quello che stava succedendo, in una incapacità percettiva che benevolmente voglio attribuire allo stato d’animo poco lucido dello scrittore, è meglio lasciar perdere.

In questo mare di banalità c’è anche l’appello più scontato “Mamma” che non poteva che essere raccolto dalle labbra di un morente Marcel Proust.

A queste banalità si affiancano poi dichiarazioni istrioniche di chi, sapendosi famoso, vuole accomiatarsi dagli astanti con un’ultima frase a effetto che nel suo immaginario dovrebbe assumere le sfumature dell’uscita di scena da prim’attore. «Ho recitato bene la mia parte? Or dunque battete le mani, poiché la commedia è finita» di Cesare Augusto oppure un «Applaudite amici, la commedia è finita» di Beethoven.

Ci sono ancora frasi che vogliono, una volta di più, sottolineare la supponenza del famoso che non si smorza neanche per morire, come per Nerone «Quale artista muore insieme a me».

Altri, fedeli allo stile che si sono dati per tutta la vita, replicano un po’ pateticamente se stessi, come nel caso di Oscar Wilde, celebre per le sue battute al vetriolo cariche di sarcasmo «La carta da parati ed io siamo impegnati in uno scontro mortale: uno dei due deve andarsene”, o come per Dylan Thomas “Mi sono già bevuto diciotto whisky. Credo sia un record».

Anche il mitico Pancho Villa sembra preoccupato di trovare delle ultime parole che lo tramandino degnamente ai posteri. «Non lasciate che finisca così. Raccontate loro che ho detto qualcosa». Un incarico per un ghost writer in rigor mortis.

L’unico che, nella drammaticità degli ultimi momenti e consapevole del suo destino, ha lasciato qualcosa di significativo e di colloquiale, con quell’insulto a denti stretti rivolto al suo giustiziere impaurito, è Ernesto “Che” Guevara che ci restituisce tutta la sua umanità con quel «Spara, coglione, che stai per uccidere un uomo».

Dopo tutto questo non si può che dar ragione a Karl Marx «Le ultime parole vanno bene per gli idioti che non hanno detto abbastanza in vita».

E la prima parte del libro finisce con un sollievo che sono le ultime parole di Einstein, che fanno da compendio al tutto e che sono le uniche che, a parte il Che e Marx, sottoscrivo pienamente «…».

Tre puntini di sospensione che stanno a ricordare una frase che l’infermiera inglese che l’assisteva non riuscì a capire perché detta in tedesco e che ci restituisce Einstein in tutta la sua vitalità precedente, fatta di teorie a volte incomprensibili per noi, come i tre puntini di sospensione,  e non nell’immagine insignificante dei suoi ultimi istanti.

La seconda parte invece è una collezione di affermazioni di famosi e potenti, che si sono per arroganza sbagliati, smentite dai fatti successivi.

Eccone alcune tanto per farvi capire l’ambito.

«Stammi a sentire ragazzo, non andrai da nessuna parte. Dovresti metterti a guidare i camion». Risposta di Jim Denny, manager del programma radiofonico di musica country Grand Ole Opry al giovane Elvis Presley.

«La chitarra come hobby è perfetta, ma non ti farà guadagnare un soldo». Invito familista di Mary Elizabeth Stanley la zia di John Lennon.

«Mi dispiace, signor Kipling, ma lei non sa proprio scrivere» di uno sconosciuto redattore del San Francisco Examiner in una lettera d’invito all’autore a non inviare un secondo articolo.

«Dai retta a me ragazzo, i feriti portali a piedi. Guidare l’auto non è il tuo mestiere». Un ufficiale a Tazio Nuvolari che guidava l’autoambulanza durante la guerra.

«Walt Withman ha lo stesso rapporto con l’arte che ha un maiale con la matematica» dal The London Critic.

«Penso che ci sia posto, sul mercato mondiale, per circa cinque computer» di Thomas Watson Amministratore Delegato IBM, in un’intervista a Life Magazine nel 1948

«Il motore è sommamente inefficiente. Il design non è di grande brillantezza» dal rapporto della Humber Motor Company sul Maggiolino Volkswagen.

«Quel ragazzo non arriverà a nulla» dichiarato da Jacob Freud, padre di Sigmund Freud, dopo che il figlio aveva fatto la pipì a letto.

«Nel 1940 le teorie di Einstein faranno solo ridere» di George Francis Gilette, ingegnere e scrittore statunitense.

«Mi creda. Non importa ciò che fa. La verità è che non arriverà mai a nulla». Il maestro di Albert Einstein al padre.

Come si vede affermazioni apodittiche, giudizi impietosi, arroganti, superficiali, forse comprensibili perché non tutti sono in grado di vedere oltre l’immediato e di percepire le qualità di una persona o di un progetto sul nascere.

Affermazioni, però, che se sciorinate l’una dopo l’altra assumono una comicità drammatica che mette in risalto la supponenza di potenti, famosi e non, pronti a sbarrare la strada al nuovo venuto, all’outsider, al giovane entusiasta e sognatore.

Supponenza e arroganza che saldano questa seconda parte alla prima. Che sottolineano come il famoso, il potente o anche lo sconosciuto nell’atto di esercitare un piccolo potere d’accatto (ad esempio il padre o il capufficio), tendono ad anteporre il loro egocentrismo, il loro interesse arroccato di parte ad un giudizio elargito con serenità e ponderatezza.

E allora questo libriccino può insegnare due cose.

La prima che in punto di morte sarebbe meglio tacere e far parlare ciò che si è fatto in vita, per evitare di diventare patetici.

La seconda che quando si è in una posizione dominante, misurare le parole ed evitare giudizi sommari ha due vantaggi. Evita a chi ha un micro potere di essere smentito clamorosamente dai fatti e fare una figura ridicola, evita di schiacciare un sogno che potenzialmente è un’intuizione geniale.

In verità c’è n’è una terza. Quando si ha un sogno, un’idea, un progetto, questo libercolo di castronerie, dette con enfasi e arroganza dal potente di turno, è la dimostrazione che è bene fregarsene dei giudizi sommari che ci vengono rivolti.

È dimostrato che spesso e volentieri il giudizio dei tromboni, quando non è teso solo a proteggere la loro rendita di posizione, è un giudizio che sarà smentito dai fatti.

Ma io mi auguro che ci siano sempre in circolazione tronfi tromboni pronti a straparlare, perché le loro “ultime parole famose” sono materia prima per libri di pura comicità come questo di cui sommariamente vi ho detto.