Cos’è che ci fa perdere energie, diventare pessimisti, vedere le cose insuperabili come montagne? Se osserviamo le biografie delle persone in difficoltà, o anche i nostri momenti bui, vediamo che la crisi è sempre preceduta da una specie di nostalgia di un abbraccio ormai perduto, da una difficoltà a farcela da soli, da stanchezza e ripiegamento. Verso dove? Verso un «prima» (immaginario, ma non troppo), dove eravamo amati, dove ogni bisogno era soddisfatto, e la protezione assicurata.
In quel giardino dell’Eden, che è poi la pancia della propria madre, è cominciata la vita di ognuno di noi. Solo che poi se ne esce, e (anche se la fusione con la madre dura ancora molti anni), a un certo punto il distacco avviene davvero, almeno formalmente: si entra nella vita da soli (o si finge di farlo), e non è facile.
Che fare, ad esempio, della propria libertà? Molte angosce dell’adolescente nascono proprio da questa domanda. E la risposta offerta dal sistema delle comunicazioni: «Divertirsi, la libertà serve a divertirsi», è parziale.
Anche il ragazzino più stupido sa che quel «divertirsi» significa cose diverse tra loro, dal ballare a ritmo di rock a giocare a calcio, oppure farsi fuori in uno dei mille modi pronti per l’uso. Pochi ti spiegano davvero cosa cambia tra questi divertimenti dagli esiti così diversi. Reticenti e confuse sono anche le «agenzie educative», famiglia e scuola, per non parlare poi di Stato, che, nella sua importanza impennacchiata si occupa d’altro, dando esempi desolanti. Né ci si interessa poi molto di queste cose, del che fare per essere felici e non distruggersi, più tardi, oltre l’adolescenza.
Anzi la coscienza non se ne occupa più, e l’intera questione (l’Eden alle nostre spalle, la fatica attuale, che fare della libertà, la responsabilità dell’oggi, e tutto il resto), sprofonda direttamente nell’inconscio. E da lì si riaffaccia, a volte, col volto sbiadito di una nostalgia senza un nome preciso, con la voglia insistente di tornare indietro anziché andare avanti, oppure con la paura che ci accada qualcosa di terribile (ed è il panico), o di essere del tutto inadatti alla vita (crollo dell’autostima).
Insomma il «desiderio oceanico» (come lo chiamava Freud) cacciato dalla coscienza ricompare nella vita quotidiana nascosto sotto quel bagaglio composito che oggi si raduna sotto la generica etichetta della depressione. Per combatterla, al di là delle opportune ricette dei medici, occorre (come per stare sulla neve), sorvegliare la propria postura, fare attenzione al proprio sguardo. Che deve rimanere rivolto in avanti, non all’indietro; spinto alla meta e al dopo, non nostalgico di ieri, del prima; animato dal desiderio di ciò che incontreremo e vedremo, non piegato dalla ricerca di conforto per ciò che si è perso.
La passività del bambino che rimpiange il sonno, che vorrebbe imburrarsi un altro panino, deve lasciare spazio ad una spinta attiva, all’interesse dell’esploratore di spazi, alla ricerca del contatto con l’aria fresca, con la polvere di neve sollevata dalla discesa con gli sci.
Gran parte del benessere psicologico e fisico si gioca in questo passaggio dalla passività dell’infanzia all’attività dell’età adulta.
È a noi che tocca, continuamente, la scelta della direzione, la decisione di fermarci per soccorrere qualcuno in difficoltà, quel dosaggio attento e continuo di libertà e responsabilità verso se stessi, e gli altri, che costituisce la nostra umanità.
Solo noi possiamo farlo: non solo i farmaci, non il terapeuta, non il guru o la star del momento. Dobbiamo però farlo. Altrimenti si cade.