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Andreotti, l’equilibrista “sepolcrale”

di Massimo Fini - 03/05/2006

 

Benché sia stato ferocemente,
e a volte
anche ingiustamente,
visto soprattutto quello che è
venuto dopo, antidemocristiano
per tutto il lungo
periodo in cui la Dc ha
governato questo Paese, ho
sempre avuto una certa simpatia
e stima per l’onorevole
Andreotti. Di tutti gli uomini
politici che ho incontrato
nella mia attività professionale
- compresi i leader della
Prima Repubblica che avevano
comunque ben altra
levatura - mi è sembrato
quello di maggior spessore:
uomo colto, profondo conoscitore
della storia, dei meccanismi
istituzionali, della
Pubblica amministrazione,
della burocrazia.
Gli è sempre stata addebitata
- insieme a un’infinità di
altre e più pesanti nefandezze
- una spiccata attitudine
al compromesso, ma in
democrazia il compromesso
è la sostanza stessa della
politica. Ed è proprio grazie
alle sue qualità di equilibrista
che ad Andreotti, quand’era
ministro degli Esteri, è
riuscito il capolavoro politico
di tenere ben fermi i tradizionali
legami con gli Stati
Uniti e nello stesso tempo di
avere rapporti
di buon vicinato col
mondo arabo-musulmano,
operazione allora molto più
difficile di quanto non lo sia
oggi perché, in presenza dell’Unione
Sovietica, l’alleanza
con gli americani era
obbligata.
In qualsiasi altro Paese
d’Europa, Giulio Andreotti
sarebbe stato un grande statista.
Da noi invece la sua
statura politica è stata
dimezzata dai rapporti
ambigui e compromissori
che - peraltro non
diversamente da ogni
altro uomo politico di
livello della Prima
Repubblica, compreso
l’integerrimo La Malfa
(quello vero, Ugo) - ha
dovuto tenere con la
mafia. Del resto questo,
come ho scritto nel mio
libro “Sudditi” è il destino
di ogni democrazia
che, essendo una somma
di oligarchie, politiche
ed economiche, e quindi
un potere debole, deve
scendere a patti con
ogni altro potere sufficientemente
forte, anche se criminale
(non è certo un caso
che l’unico governo che, storicamente,
abbia combattuto
seriamente la mafia, sin
quasi a debellarla, sia stato
quello fascista: perché un
potere forte non ne può tollerare
un altro al proprio
interno).
In ogni caso, quali che siano
le sue colpe, Giulio Andreotti,
come tutta la leadership
democristiana (con la penosa
eccezione di Aldo Moro)
non ha mai perso il senso di
essere classe dirigente e di
avere quindi, come tale,
precise responsabilità istituzionali,
che è proprio ciò
che manca all’attuale ceto
politico, di destra e di sinistra.
Andreotti, Forlani, e
con loro tutti gli altri leader
democristiani di un certo
livello, messi sotto torchio
dalle inchieste giudiziarie (e
in modo particolarmente
pesante proprio nel caso del
“divo Giulio” rimasto sulla
graticola processuale, per
sette anni), non hanno mai
sostenuto, nemmeno per
incidenza, di essere vittime
di “un complotto della
Magistratura politicizzata”.
Perché una classe dirigente
consapevole di essere tale si
guarda dal delegittimare le
Istituzioni, la Magistratura,
le leggi dello Stato, perché
sa bene che sono le “sue”
Istituzioni, la “sua” Magistratura,
le “sue” leggi e che
dal disordine, dal caos, dall’anarchia
istituzionale ha
solo da perdere - in particolare,
alla lunga - il proprio
potere; mentre i subordinati,
i sudditi, hanno da perdere
soltanto - per dirla con
Marx - le proprie catene.
Questo senso dello Stato,
delle Istituzioni, delle
responsabilità e dei doveri
di una classe dirigente a
Giulio Andreotti - fosse stato
anche Belzebù come per
anni si è sostenuto o un
“sole nero” come scrive
Francesco Merlo su La
Repubblica (25/4) - bisogna
riconoscerglielo. Merlo scrive
anche che la classe dirigente
democristiana si
caratterizzata per il formalismo
giuridico sotto il quale
si celava un’“immortalità
sostanziale”. Ma in
una democrazia anche il
formalismo giuridico ha
il suo valore e la sua
importanza, è già qualcosa;
è comunque meglio
del niente che caratterizza
l’attuale ceto dirigente
(di destra e di sinistra)
totalmente privo di
un qualsiasi senso dello
Stato e delle sue regole.
L’ipocrisia, come diceva
La Rochefocault, “
perlomeno il pedaggio
che il vizio paga alla
virtù”.
Detto tutto questo non ritengo
che la candidatura di
Giulio Andreotti alla presidenza
del Senato sia proponibile.
Perché, nel bene e nel
male, Andreotti fa parte di
una storia vecchia, vecchissima,
quasi pliocenica. È
come se in Gran Bretagna ci
fosse ancora Anthony Eden,
in Francia Charles De Gaulle,
in Germania Konrad
Adenauer. Il suo riapparire
ai massimi livelli nello Stato
dà inevitabilmente
un’immagine sepolcrale dell’Italia.