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Omaggio a Francesco Guccini, per il suo Settantesimo (giugno 1970).

di Franco Cardini - 13/06/2010

- LETTERA A FRANCESCO -

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C’è un luogo incantato, nella mia memoria. Non è un posto di fantasia, un’Isola Non Trovata: e perché penso proprio a quell’Isola, e alla poesia che gli dedicò tanto tempo fa Guido Gozzano, sarà chiaro tra un istante.

No: il luogo esiste. Anzi, esisteva. Da quasi sessant’anni avrei tanta voglia di tornarci. Due o tre volte sono andato fino alla stazione di Pistoia per prendere il “trenino” della Porrettana e tornare una mezza giornata là. E non l’ho mai fatto, e ho sempre avuto paura di farlo. Per non dover provare la delusione di trovarmi in mezzo a luoghi ormai estranei e diversi, o forse per non dovermi confrontare sul serio, di nuovo, con quel ragazzo timido e magrolino che allora aveva tredici anni, quella primavera era stato a Parigi per la prima volta in vita sua (con una gita scolastica, ovviamente…) ed era immerso nelle pene della primissima cotta preadolescenziale, quella dei sensi che si risvegliano e tu stai lì, pieno di sogni e di vergogna, e non capisci che cosa ti stia succedendo dentro, e senti che non sei più un bambino e che pure ti manca ancora tanto prima di diventare uomo.

C’era un grande spiazzato erboso davanti alla chiesa, a Pàvana. E c’era un grande albero annoso, decrepito, forse un faggio o un castagno, chissà: sono sempre stato debole in botanica. Ci si riuniva lì, alla base del tronco immenso, come ai tempi antichi, come nelle fiabe. Dallo spiazzato della chiesa partiva la stradina ripida che portava giù, al nastro d’asfalto della statale tra il passo della Collina e Porretta e che, attraversato con la dovuta cautela, conduceva al bacino artificiale circondato di alte conifere, il nostro Canada che ci piombava ogni volta nel sogno verde-azzurro dei paesaggi alla Jack London rivissuti attraverso i vecchi films americani che si vedevano d’estate, all’aperto.

Ma la fiaba continuava, anche più in là. Dopo la Venturina e il passaggio a livello, quando ci si andava ansando in bici, si prendeva a destra e si arrivava alla Rocchetta Mattei, vicino a Grizzana: e là ci si trovava di fronte al castello incantato dalle guglie gotiche e dalle cupole a bulbo coperte di smalti policromi, come nelle leggende russe tipo L’uccello di Fuoco o Sadko. Era il Neuschwannstein appenninico inventato nell’Ottocento da un eccentrico matto ex-amico del Minghetti, adepto della “medicina mesmerica” e cultore di astronomia, il conte Cesare Mattei per l’appunto.

Chissà se Francesco, un ragazzo della mia età (tutti e due del ’40: di giugno lui, d’agosto io) si ricorda del ragazzo fiorentino, “villeggiante” – una parola modesta, che allora, nell’immediato dopoguerra, sembrava evocar sontuose permanenze…-, che giocava con lui a biglie di vetro e che lo accompagnava per le passeggiate nei boschi. Francesco era magro anche lui, un po’ piu alto di me, con un cognome di quelli toscoemiliani dalla desinenza in –ini, come il mio. Mi sono chiesto spesso se abiti ancora là, se sia ancora vivo e in buona salute: se soprattutto sia proprio lui, quel Francesco da Pàvana divenuto poi poeta e bevitore, bandiera di chi “non ci stava” tra gli Anni Sessanta e gli Anni Settanta, che non ha mai fatto i soldi ma che perdinci nessuno come lui riusciva a riempire nelle notti d’estate la Piazza maggiore di Bologna, là “tra la Via Emilia e il West”. E nessuno come lui riesce ancora a esprimer quel che ci sentiamo dentro, la rabbia e la delusione, l’amore e la speranza.

Ci sono andato anch’io a sentirlo, saranno quarant’anni fa, in quelle notti in cui la rivoluzione sembrava a portata di mano e dietro l’angolo, tra i fiaschi di vino e gli amori improvvisati eppure a modo loro intensi e sinceri, tra le facoltà occupate e le feste delle matricole, quando entrambi avevamo barba ancor nera o castana e portavamo un eskimo innocente-dettato solo dalla povertà (ma anche una coscienza immacolata, come lui).

Eravamo brutti anatroccoli anche come tuoi fans, Francesco, noialtri minuscola pattuglia di “neri dal cuore rosso”: non avevamo ancora trovato i Paolo Buchignani, gli Antonio Pennacchi e gli Ivan Buttignon che avrebbero cercato di capirci o che ci avrebbero comunque fatti almeno oggetto di studio. Noialtri nipotini di Berto Ricci, di Ezra Pound e di Drieu la Rochelle sognavamo Lawrence d’Arabia, José Antonio e i piani di Castiglia, Berlino in fiamme, Budapest insanguinata, dona Evita e il comandante Ernesto Guevara (“Aprendimos a quererte…”): se ci fossimo incontrati e parlati, forse sarebbe finita a manate, forse a lacrime ed abbracci. Non c’è il tuo profilo, in Fascisti immaginari (Vallecchi 2003): l’ho cercato invano, tra le voci Golpe e Hobbit. Peccato. D’altra parte, chissà, ti ci saresti trovato a disagio. Magari – per dirla con le tue parole – ci avresti “sputato addosso”, anche se “compravamo i tuoi dischi”. Eppure almeno una volta il sospetto di esser dei nostri, o che noi eravamo dei tuoi, dev’esser venuto anche a te (“…io anarchico, io fascista…”). Noi, d’esser dei tuoi, abbiamo sempre avuto la profonda anche se indimostrabile consapevolezza.

Chissà se eri davvero tu, là sotto il grande faggio che forse era un castagno, intento nel gioco delle biglie di vetro cinquantasette anni fa: eppure le date tornerebbero, tante altre piccole cose anche. Ti ricordi di Franco da Firenze? Ormai, vedi, siamo arrivati a viver la stagione della vita che una volta si aveva la dignità e il coraggio di chiamar vecchiaia; e sentiamo che il tempo si assottiglia, diventa più duro da percorrere eppure forse per questo più prezioso. E andiamo allora alla ricerca del tempo perduto: come abbiamo fatto sempre, solo che ora sappiamo di farlo. Mi piacerebbe tornar a remare su una di quelle barchette, là nel bacino artificiale azzurro come un lago canadese, ammesso che nel frattempo non si sia inquinato: e cercarla a colpi di remi, là tra la montagna pistoiese e il west dell’infanzia perduta, la nostra Isola-Non-Trovata, quella che il re di Spagna ebbe dal suo cugino il re del Portogallo, con firma suggellata e bolla del pontefice in gotico-latino.