Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Viaggiare «con la testa all’indietro»

Viaggiare «con la testa all’indietro»

di Stenio Solinas - Fiorenza Licitra - 15/06/2010

 http://www.mirorenzaglia.org/wp-content/uploads/2008/09/vagamondo.jpg

 

Viaggiare come Lei «con la testa all’indietro» significa viaggiare nel tempo attraverso lo spazio?

 

«Sì, credo che oggi come oggi non si scopra più nulla; nei posti ci si arriva con comodità, non esistono realtà inesplorate e il tipo di viaggio che nell’800 aveva ancora una dimensione di scoperta e di novità ha esaurito il suo compito. L’unica cosa che può restare a un viaggiatore contemporaneo postmoderno è cercare di confrontare il nuovo con il vecchio, verificando quali scintille del passato possano scaturire dall’incontro con il presente. In più io non sono mai stato intrigato né ossessionato dai viaggi avventurosi, non mi ha mai interessato scalare la vetta più estrema o incontrare la popolazione più sconosciuta; io sono, per cultura personale, per tradizione, per storia pubblica e privata, un impasto europeo, quindi sono molto sensibile a tutto quello che nel corso del tempo la storia ha depositato e sedimentato intorno ai luoghi. Non m’interessa la dimensione dell’esploratore, ma verificare quelle capacità ancora di stupore che ci possono essere nel viaggio nel mondo del 2000».

 

Viaggiare nel tempo è, quindi, nutrire il sentimento della Storia e, insieme, recuperare «lo scorrere solenne del tempo» rispetto alla frenesia bulimica del cittadino che vive una dimensione esistenziale soffocata?

 

«Ciascuno, nel viaggio cerca delle dimensioni, che poi finiscono per essere anche proprie e personali; sicuramente il viaggio è un’interruzione, rispetto al tempo canonico e canonicamente inteso, quindi inserisce degli elementi di rottura nel ritmo della vita sempre più affannoso e frenetico. Contemporaneamente, uno degli elementi del viaggio che a me interessano particolarmente è la possibilità di sperimentare, anche se in forma limitata, altre vite possibili, nel senso che solitamente si va in posti in cui nessuno sa chi sei, in cui gli usi e i costumi sono diversi dai tuoi e in cui hai bisogno una duttilità e una capacità di adattamento, che hai dimenticato di possedere perché non ne hai più avuto necessità e questo rimette in circolo tutta una serie di opzioni personali messe da parte e riporta allo scoperto degli elementi del tuo carattere, della tua personalità, del tuo modo di essere che avevi accantonato. Questo è un aspetto significativo: il dramma umano è che una vita non basta e spesso e volentieri si arriva a un’età in cui si vorrebbe fare ciò che non si è fatto prima, ma non ti è più concesso; il viaggio, sotto questo profilo, ti permette di sperimentare quegli altri tuoi io che avevi soffocato per necessità».

 

Il viaggio è anche un’occasione per coltivare la solitudine, parallelamente alla lettura dei Suoi autori prediletti, compagni di solitudine. La Sua solitudine, intesa non in modo negativo, è una forma di libertà?

 

«Io credo che i viaggi, in linea di massima, li si debba fare da soli, altrimenti diventano una vacanza, che può essere altrettanto piacevole, ma è un’altra cosa. L’elemento della solitudine è imprescindibile, per questo tipo di avventure, poiché è lo stesso che poi ti consente una maggiore disponibilità e apertura verso l’altro; non viaggi con dei compagni e quindi con delle abitudini consolidate, ma ti ritrovi a dipendere soltanto da te stesso. Certamente subentrano degli aspetti psicologici personali: fin da ragazzo io ero un solitario, uno che stava bene in compagnia di se stesso, e questo lato di me, portandomelo dietro, è diventato una sorta di seconda natura. Credo che poi, alla fine si scriva anche per allacciare dei contatti, si scriva a un ipotetico immaginario lettore, che speri possa essere interessato a quello che vedi e che dici. E’ una solitudine non solitaria, è un tentativo di sperimentare quella libertà che il muovermi da solo mi conferisce».

 

Senza immaginazione è inutile viaggiare?

 

«Se ad esempio oggi si va in Grecia, che è stata sì una culla di civiltà - ma è ormai molto lontana da noi nel tempo ed è stata attraversata e sconciata dalla modernità – e non ha una capacità immaginativa e l’umiltà di sentire qualche eco di ciò che è stato, quello che viene fuori è una distesa di pietre, un susseguirsi di monumenti che non dicono più nulla. Questo lo sentivano già i viaggiatori del Settecento e dell’Ottocento, figuriamoci un viaggiatore del XXI secolo. Occorrono quindi molta attenzione, tenacia e umiltà nel cogliere quel sentimento del tempo e quel senso panico della vita e della religione, che allora impregnavano un modo di vivere e di pensare, che oggi puoi cogliere solo per frammenti sparsi».

 

Certi luoghi incarnano destini personali e nazionali. C’è dunque un profondo rapporto tra la dimensione geografica e quella ontologica di un uomo e di un popolo?

 

«I luoghi che più mi interessano sono il bacino mediterraneo, determinate realtà mediorientali, una certa Asia - non tutta – una piccola parte del continente Americano e una parte dell’Europa orientale, quella che una volta si chiamava l’Europa dell’Est; anche in questo caso si viaggia alla ricerca di luoghi capace di offrire un’affinità elettiva, che impedisca quella “bulimia del turista” che porta a considerare il viaggio come una sorta di Guinness dei primati».

 

Lei scrive che «il sonno dell’Europa genera mostri»; si tratta forse dell’eterogenesi dei fini dovuta dall’interpretare le altre culture secondo il nostro distorto immaginario edonista e consumista, che fa capo sempre e soltanto a un profitto speculativo?

 

«Uno degli elementi del viaggiare consiste nell’aprire la mente e nell’imparare che il tuo modo di vivere  e di pensare non è l’unico maniera di stare al mondo e che non è affatto vero, nonostante la globalizzazione e il principio del pensiero unico, che tutti i Paesi si equivalgono… Ci sono invece delle tradizioni che rimangono, che sono forti e che devi imparare a rispettare, se vuoi che vengano rispettate le tue; questo, quindi, è una continuazione della politica con altri mezzi, cioè è un tentativo di riuscire a costruire un modello comportamentale e sociale che permetta di frequentare altri popoli senza scannarsi e schiacciarsi a vicenda».

 

La perdita di identità comporta anche la perdita di sovranità?

 

«Questo è fuori discussione e mi sembra anzi che negli anni quella che è stata la fine delle ideologie sia stata bilanciata da un recupero identitario, molto spesso sciovinista o nazionalistico, nel senso deteriore del termine; ciò è una prova di come gli elementi identitari, che fanno sì che un popolo si riconosca come tale, siano più forti delle sovrastrutture ideologiche che gli erano state imposte. E’ una lezione che fa riflettere: fino agli anni ’80 e alla caduta del muro di Berlino sembrava che le nazioni, i nazionalismi, le patrie e le piccole patrie fossero una merce di scambio; vent’anni dopo sono invece l’elemento con cui siamo chiamati a confrontarci, per non parlare poi dell’aspetto religioso o addirittura razziale».

 

Con la guerra civile, l’Europa da soggetto si è fatta oggetto di storia; questo significa che abbiamo perso la volontà, la scelta del nostro destino?

 

«Bisognerebbe essere un professore di dottrine politiche per rispondere; però è un dato di fatto che fino al ’45 l’Europa è stata il soggetto politico per eccellenza, pur nelle realtà nazionali; nel momento in cui le due grandi potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, sono uscite vincitrici dal secondo conflitto, è iniziata una ridistribuzione di ruoli, nei quali l’Europa in quanto tale non ha più avuto uno spazio. Tuttora scontiamo questo difetto: la mancanza, da un lato, di uno spazio unitario europeo in grado di contrapporsi all’unica potenza oggi concreta ed esistente, cioè gli Stati Uniti, e dall’altro l’incapacità di pensare in termini di geopolitica, in termini di blocchi, cosa che invece nazioni come la Cina, il Giappone, la Russia o, in parte, la stessa Turchia cercano di fare; quindi fino a che l’unità europea rimarrà qualcosa di calato dall’alto e di essenzialmente economico, questa latitanza del vecchio continente è destinata a durare».

 

Viviamo l’ethos della differenza paradossalmente come tradimento della propria patria.

 

«L’ethos della differenza è un po’ la stessa cosa dell’ethos della distanza: si parte dal presupposto che ci sono delle diversità, che vanno accettate e rispettate fino a quando, ovviamente, non si traducono in un tentativo di sopraffazione; ma rispettare gli altri non significa non rispettare se stessi. Questa è una cosa che noi Italiani abbiamo praticato dal ’45 in poi, nel senso che da allora è stato sempre sottolineato un certo modo di essere italiano di cui si andavano a evidenziare tutti gli elementi negativi, un po’ per far dimenticare il fascismo, la guerra e così via… Questo è poi uno dei motivi che spiegano le nostre difficoltà nel produrre come Paese un’immagine politica decente, perché abbiamo dei politici nati con l’imprinting dell’italiano che si deve fare ben volere, che è un po’ cialtrone ma simpatico, che comunque non farebbe del male a una mosca; questo, alla fine, in termini di competizioni nazionali, si paga, fermo restando che sono determinanti anche una storia pregressa di unità nazionale relativamente breve e una frequentazione del pensiero liberale e democratico molto limitata. Ci sono vari motivi, per spiegare l’immagine dell’Italia; però è certo che i più antitaliani del dopoguerra sono stati i partiti che hanno governato il Paese e, tutto sommato, le più grandi forze politiche, quali la democrazia cristiana, - che si considerava una sorta di appendice di uno Stato straniero - lo Stato Vaticano e il partito comunista – che si considerava un’ appendice di un altro straniero, che era l’Unione Sovietica - quindi è difficile creare un interesse nazionale quando hai due partiti internazionalisti al potere».