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Dio e la meta-filosofia

di Alberto de Luca - 20/06/2010

 

 

 

Scopo di questo brevissimo excursus è di assolvere due intendimenti: recensire l’ultimo lavoro di Marco Vannini e (ri)proporre l’approfondimento di una tematica che a nostro avviso è presente nel libro in oggetto. L’articolazione di questo contributo si sviluppa attorno ad una serie precisa di momenti riflessivi che il testo vanniano offre e che ora anticiperemo. In primis, l’accoglimento del paradosso come indice veritativo e forma espressiva che sovverte il modus operandi maggioritario dato dal razionalismo. In secondo luogo, l’adozione da parte dell’Autore di un autentico «realismo storico» nei confronti della Rivelazione cristiana, che lo porta a non sottacere gli eventi paradigmatici e drammatici che l’hanno caratterizzata senza per questo temere di poter essere etichettato alla volta come «eretico» e «antisemita» e che va correlato a quanto Vannini aveva già esposto nel suo Tesi per una riforma religiosa.[1] Infine, l’impetrazione eckhartiana che trova ambiti di applicazione ben oltre la tradizione cristiana in nome di una semplicità constatazione: se lo Spirito spirat ubi vult, non si possono dare luoghi sulla terra ove Questi non sia giunto.

L’insieme di questi punti definisce, a nostro parere, non già un problema veritativo del libro bensì di mera opportunità e questo è quanto tenteremo di argomentarlo seppure nello spazio limitato di queste pagine.

L’ultimo libro di Marco Vannini, intitolato per l’appunto Prego Dio che mi liberi da Dio,[2] ci sembra il naturale esito del suo itinerarium spirituale annunciato dai due suoi precedenti lavori: Tesi per una riforma religiosa e La religione della ragione.[3] L’estrema franchezza e la lucidità delle asserzioni contenute nella sua ultima fatica indicano che il telos di Vannini si sia qui manifestato ed egli l’abbia raggiunto con un grosso sforzo e a prezzo di una grande sofferenza, quella sofferenza che contraddistingue il coraggio delle idee minoritarie e isola l’individuo dal contesto, rendendolo ostico e criticabile in nome di una non ben definita «normalità». Nasce da qui pertanto il problema, o il «falso problema», attinente all’ortodossia o meno di Vannini. Quali sono i criteri con cui giudicare il pensiero cristiano del fiorentino se non quelli della sua aderenza alla dottrina spirituale cristiana? Ebbene, se questi rimangono gli «indici di cristianità», allora, riteniamo che questo autore sia certamente cristiano. Se invece vogliamo «integrare» questi criteri con altri elementi, assolutamente nuovi rispetto alla predicazione del Cristo quale ad esempio la «dottrina sociale della Chiesa», allora la faglia eterodossa è più larga che mai.

Contraddistinto da uno stile assolutamente non scontato, elittico dove giustamente deve esserlo, questo testo ha destato da subito reazioni contrastanti all’interno della koiné cristiano-romana. Curiosamente, le critiche rivoltegli sono giunte da alcuni esponenti delle due correnti teologiche dominanti attualmente la Chiesa romana, nonché il gregge cristiano. Ci riferiamo alla cosiddetta «teologia progressista»,[4] apicalmente rappresentata dalla «teologia della liberazione», e al neo-tomismo di stampo teo-con, la cui differenza caratterizzante, quantunque gridata e rivendicata con passione, è però ben poca cosa. Il medesimo atteggiamento razionalista, infatti, porta ambedue a limitare lo Spirito e Dio stesso a una sola dimensione che è alla volta quella del sociale o del formalismo asfittico dogmatico, divenendo incuranti e dimentichi dell’unitarietà esistente tra Dio e creato. La Chiesa romana, oggi, oscilla così tra una rivalsa della sfera soggettiva dell’esperienza religiosa individuale e l’iper-affermazione oggettiva del dogma, laddove la prima è soprattutto ribellione e protervia mentre la seconda difesa del consenso e del potere.[5]

E proprio questa singolare convergenza di critiche, invece, ci spinge ad affermare che gli asserti vanniniani hanno colto nel segno, dimostrandosi, pur nella loro forma paradossale, simmetrici.

La paradossalità e l’antinomia (o anche simultaneità dei contrari)[6] non sono mai cifra della confusione o dell’ignoranza ignorata, bensì misura di quel Mistero che sfugge all’uomo connaturalmente e che informa la Realtà in modo tale da non essere mai univocamente determinabile. E qui inizia lo stupore di fronte a una Realtà cangiante che si sviluppa attorno al gioco di ciò-che-è-dentro (eso) e di ciò-che-è-fuori (exo): in sé non catalogabile, Essa è esperibile tramite una particolare forma di conoscenza definita in greco gnosis. E non stiamo parlando di gnosticismo, «eresia», etimologicamente parlando,[7] della gnosi, bensì di un sapere che autenticamente non sa e che costituisce probabilmente la massima vetta cui l’uomo potrà mai arrivare, se solo lo volesse e ne fosse in grado.[8]

Ma questa sophia universalis non può essere accettata dal razionalismo, che la dissolve attraverso il principio di non contraddizione e il sillogismo.[9]

Un approccio a questo libro che non tenesse conto di quanto ora osservato, si ridurrebbe in sterile polemica, il cui apice è stato già raggiunto, purtroppo, da alcune recensioni e da interventi effettuati anche a mezzo stampa, in cui il pensiero vanniano è stato declinato in anti-semitismo.

Sappiamo benissimo quanto un’accusa del genere possa provocare spesso reazioni inopportune e sia sovente usata per screditare qualcuno. In questi casi, infatti, l’ignoranza si tinge anche di malizia e traspare la meschinità dell’essere umano. La colpa di Vannini, nella fattispecie, sarebbe stata quella di non aver omesso di ricordare che la Passione del Cristo vide storicamente agire ee alcune correnti ebraiche, parlando quindi di complicità senza per questo far passare l’idea che la storia sia, di per sé, rivelatrice sebbene la Rivelazione sia storica. l’Impero romano

Lontano pertanto da un’impostazione positivista, atteggiamento caratteristico di quegli agenti teratogeni che hanno portato ai crimini più infamanti durante il Novecento, Vannini afferma tra le righe che la tradizione, ogni tradizione aggiungiamo noi, consiste in scelte sempre nuove seppure nel solco di un sentiero già tracciato.[10] All’uomo pertanto spettano quotidianamente il riconoscimento e l’adesione a quel sentiero già delineato dal Divino, che dunque relativamente a quell’essere umano si rinnova giorno dopo giorno.

Nel momento in cui gli scandali sessuali di certi prelati insozzano le vesti di Santa Romana Chiesa e i fedeli cristiani non riescono più nemmeno a digiunare per il Venerdì Santo,[11]tout court, allora tutte le ideologie politiche occidentali sono teologie secolarizzate e le chiese, mutate in parrocchie, si sono politicizzate. crediamo che teologia e filosofia della storia siano insensate se privi di un’immagine del mondo fondante e sovrastante ogni dato empirico. Da questa prospettiva trans-storica, che lo stesso Vannini accetta proprio quando si appropria dell’impetrazione eckhartiana di «liberarsi» dalla limitazione formale del Cristianesimo rappresentante la storicità della Rivelazione divina

Ecco perché Vannini ha criticato a buon diritto già nel suo Tesi per una riforma religiosa la deriva della Chiesa giovannea in messianismo sociale, divenendo caricatura e non già guida per le anime. Con queste analisi, l’Autore fiorentino converge dunque nelle critiche corbiniane che ravvedono nella fenomenologia dello Spirito storico non più l’ermeneutica dello Spirito Santo bensì un ecumenismo peloso per lo più inconcludente.[12] Un Cristianesimo sonnolente e pigro, irenistico e politicamente corretto che non ama ricordare come Cristo sia venuto portare anche la spada[13] e che si riempie all’inverosimile di raffigurazioni pietistiche e sofferenti, dimenticando il Cristo glorioso e San Giorgio che uccide il drago.

Giungiamo dunque a un punto fondamentale.

Se l’azione creatrice dello Spirito Santo distrugge la storia e la sua filosofia perché libera gli uomini da queste e si realizza nel mondo spirituale invisibile, è evidente che tutto ciò deve avvenire nell’individuo, vale a dire che la realizzazione spirituale presuppone la libertà dell’uomo e prevede che egli si ponga «al-di-fuori» della storia, «al-di-fuori» della koiné, «al-di-fuori» dell’ekklesia, laddove «al-di-fuori» significa realmente al loro interno, ma in un interno talmente profondo da risultare esterno ai più. Il concetto sotteso dalla richiesta di Eckhart sostanzialmente simile alla stessa idea di «unità trascendente delle religioni», variamente formulata dal filone definito philosophia perennis, appartiene alla dimensione individuale dell’uomo e rappresenta effettivamente il compimento del mysterion in teleuté.

Dicevamo più sopra che è necessario inquadrare e leggere quest’ultimo lavoro di Vannini alla luce di un piano espositivo di più ampio respiro. Un contesto quindi per nulla casuale bensì fortemente voluto dall’Autore che rispecchia per certi versi le tappe che egli, in primis, ha attraversato. Tutta la produzione di Vannini, e questo vale in genere per chiunque si occupi di mystica, è un immenso lavoro maieutico, in cui l’autore smussa le proprie imperfezioni, o cerca quantomeno di farlo.

In questo caso, l’opera rispecchia in sé un particolare tipo d’esperienza personale, che solo «accidentalmente» intende raggiungere il lettore per «guadagnarlo» alla propria visione: l’adesione o meno da parte di quest’ultimo alla richiesta eckhartiana, infatti, non cambia il valore e la forza che essa riveste per Vannini. Il libro è quindi espressione autentica della libera possibilità realizzativa spirituale dell’uomo, che, soprattutto oggi, è «evenienza» e non già normale incrocio tra il poter fare ed il dover fare.

Il problema che solleva questo testo non è insomma veritativo bensì di opportunità.

Dovremmo infatti interrogarci se il raggiungimento della teleuté individuale o comunque la possibilità di scorgerla possono essere affermate pubblicamente.

Con altre parole, è ancora valido ciò che dice il Vangelo di Matteo ovvero «quello che ascoltate all’orecchio predicatelo dai tetti»?[14]

La tematica non è assolutamente semplice e comporta una serie di riflessioni che lo stesso Vannini ha già svolto nei suoi recenti lavori, ma aggiuntivamente ci obbliga a ricordare che l’origine rivelatrice, e perciò storica, del Cristianesimo è propriamente mystica, giacché esso fu in primis una corrente mystica in seno all’Ebraismo, da cui si smarcò privo di una Legge sacra.[15] Su e da questa specificità provengono le anomalie ed i benefici che caratterizzano il Cristianesimo da duemila anni.[16]

Siamo di fronte ad una delle estrinsecazioni del carattere antinomico della Realtà misteriosa che viviamo: se è, infatti, certamente vera e giusta la richiesta di liberarsi dai limiti formali della propria tradizione per approdare così ad una visione uni-totale della Realtà sacra, è altrettanto vero e giusto notare che per arrivare a questa situazione ci si debba basare inizialmente su di una forma da trascendere. E qui già sentiamo tangibilmente la centralità dell’antinomia come carattere distintivo della Realtà, perché se vogliamo arrivare al centro di Essa dobbiamo passare per la periferia e in questo tragitto, quindi, la trascendenza deve coesistere con l’immanenza. Qualsiasi opzione infatti sull’una o l’altra di queste due violerebbe la natura costitutiva del mistero della Realtà, declinandola in una sola delle sue dimensioni. Pericolo questo descritto abilmente da Ibn‘Arabî, individuando nell’ipertrofia del tanzîh (trascendenza) o del tashbîh[17] (immanenza) le sue cause.

Nella mystica islamica la necessità della simultaneità delle antinomie, è resa attraverso l’idea del mallo e del nocciolo: non è possibile, infatti, gustare la prelibatezza del frutto (il nocciolo) se prima non si sia rotto il guscio che l’ha custodito. Non si tratta evidentemente di entrare per effrazione bensì di sintetizzare verso una completezza finale, confermando così che sia il mallo quanto il nocciolo rivestono medesima importanza sebbene a diversi livelli.

E il paradosso, forma espressiva per eccellenza dell’antinomia, è ciò di cui Vannini si era già interessato con il suo libro I paradossi di Sebastian Frank. Ora, esprimere verbalmente o per iscritto la propria esperienza dell’antinomia del Mistero, cosa che non significa padroneggiarLo, viene definito «locuzione teopatica»,[18] che pur nella sua indubbia valenza destabilizzante possiede in primis un valore performativo per chi la pronuncia e, secondariamente, si dà sufficientemente arginata dal suo stesso linguaggio elittico. L’«in-audibilità» di queste espressioni o di tal atri testi, cosa che restituisce l’esperienza del Mistero, non è frutto, infatti, di una ricercatezza stilistica bensì traduzione linguistica dell’incomunicabilità e dell’indeterminabilità del Mistero.

L’unico linguaggio è pertanto questo, ossia un lessico che non comunica bensì risveglia e risveglia l’uomo al suo connaturato obbligo, quello di realizzare la propria perfezione latente. La voglia di trascendersi di Vannini è infatti in sé la voglia di essere pienamente uomini per quello per cui si è uomini, e non già involucri beoti ricoperti da pelle umana.

Certo, si tratta di definire cosa significhi mystica e vista la corruzione dei termini ed il numero esponenziale di sedicenti esperti semiotici, valga per tutti l’autentico etimo greco. Cacciari[19] e Zolla[20] l’hanno già precisata nei loro lavori e quindi ora è sufficiente un semplice richiamo.

L’importanza della filologia è comunque paradigmatica perché ci insegna che mystikòn è contiguo a mysterion e che di questo bisogna tacere (in greco myo oppure myeo). Il termine myeo, infatti, si riferisce esplicitamente all’atto di serrare la vista e quindi il mystes è colui che chiude gli «occhi del corpo» per acquistare la forza di aprire invece quelli dell’anima. Una volta che questi ultimi siano stati aperti, dunque, il mystes tace perché il mysterion è compiuto: la bocca si serra appunto, come prima gli occhi corporei avevano già fatto, di fronte a ciò che gli occhi dell’anima, ora perfettamente dischiusi, vedono. Non secondaria risulta poi l’interruzione della vista e della parola per impedire la dispersione del contenuto della epopteia.

La «dimensione fondativa» di questa descrizione etimologica di mystica è tale da poterla rinvenire ovunque essa appaia. Fenomenologicamente, infatti, la mystica, al pari del mysterion, non è limitabile ed ecco perché Toshihiko Izutsu, pioniere degli studi meta-filosofici,[21] ha da sempre rivendicato una comunanza tra tutte le esperienze mystiche dell’uomo ed è per questo che possiamo sostenere che l’invocazione eckhartiana di liberarsi dall’involucro limitativo di Dio, invera l’apocatastasi dell’essere umano che torna nuovamente in quel punto da dove era partito: il fondo dell’Anima (der Grund del Seele) del mondo. E dato che questo fondo è indeterminabile, esso sarà l’Abisso della Nube di Non-Conoscenza. Un Abisso di Luce.

Che la mystica poi, possa essere «passiva» piuttosto che «attiva», vale a dire ricercata intenzionalmente oppure subita inconsapevolmente appare una differenziazione non molto rilevante anche perché l’intenzionalità coincide con l’inconsapevolezza se assumiamo che il desiderare Dio, sia comunque determinato a priori da Questi.

Finora abbiamo visto che il Mistero è dato dalla simultaneità delle antinomie e che ciò non viene propriamente comunicato bensì attestato mediante paradossi e forme espressive elittiche. Tutto ciò appartiene allo spettro significativo che anche l’aggettivo italiano «mistico» dovrebbe intendere. Fatto sta che la mystica risulta una dimensione necessaria di ogni religione, come ha affermato lo stesso Van Cangh.[22] Questo a dire che l’antinomia, appunto perché «del Mistero», è congenita nella religione. Carlo Carena, recensendo I Paradossi di Franck su Avvenire,[23] ha affermato così che ogni fede si fonda su paradossi altrimenti sarebbe una branca della logica e della geometria. Ma forse non ha inteso chiarire che questi paradossi (e quindi le antinomie) non vanno risolti bensì riconosciuti e vissuti,[24] cosa che può avvenire solo mediante una forma di pensiero dialettica, come lo stesso Vannini auspica nelle sue pagine. Un pensiero inclusivo, quindi, fondato sulla correlazione copulativa (et-et) che viene determinato dallo stupore percepito dall’uomo innanzi al Mistero, diametralmente opposto alle correlazioni disgiuntive (aut-aut) matrici di esclusivismi e fondamentalismi e che esprime l’idea di un’identità costitutivamente contraddittoria, che unisce ed avvince due aspetti differenti, ovvero la Verità-Mistero come composta ad esempio da un lato visibile ed uno non-visibile, attraverso una sorta di «teologia del luogo» forgiata da una logica non predicativa che trova nella nozione buddista di soku-hi, co-existentia in latino, il proprio riferimento. Nishida Kitaro ha espresso poi questo concetto di sistole e diastole caratterizzante questo «Locus», impiegando la locuzione «affermazione-eppure-negazione».[25]

Dopo aver «definito» la base sovra-razionale del Mistero e della mystica, vediamo però che Vannini ha dedicato pure un volume intero alla «ragione», la quale normalmente viene ritenuta contrapposta alla mystica. In realtà, forse questa contrapposizione potrebbe essere non corretta, o meglio sostanzialmente inesatta, perché frutto di una nuova comprensione del termine logosratio introdotta dalla scolastica medievale. Una tesi portata avanti da Christos Yannaras, che ci convince.[26] come

L’iperbole etimologica inizia dal ritenere la ratio umana come condizione necessaria e sufficiente del sapere positivo, grazie a cui l’uomo raggiungerebbe la verità. Quest’ultima pertanto è l’adeguamento della realtà oggettiva all’elaborazione razionale umana e quindi l’uomo domina il sapere perché detentore della verità incontestabile in virtù del fatto che «l’intelligenza umana è una miniatura esistenziale dell’intelligenza divina in cui si riassumono le leggi eterne dell’esistenza».[27] O meglio, l’uomo ritiene di poter dominare lo scibile in virtù di questo anàlogos senza però ricordarsi che l’analogia entis è un concetto logico esprimente equidistanza dall’identità e dalla differenza.

Descartes poi atomizzerà tale individualismo cognitivo, smarcandolo da una dipendenza metafisica in forza di un dualismo ontologico, che poi evolverà in dicotomizzazione netta tra facultas rationis dell’uomo e realtà oggettiva della natura. In un simile contesto dunque la mystica non trova posto, perché, non essendo ritenuta conoscenza vera della realtà, diviene piuttosto fuga verso l’oscurità irrazionale dei sentimenti.

Yannaras «svela» però che logos è propriamente ogni «avvenimento nel suo apparire ed anche il modo dell’apparire. È la facoltà umana di stabilire una relazione con la realtà, ma è anche il modo di esistere della realtà che le permette di essere accessibile all’uomo».[28] Deduciamo allora che logos sia forma, eidos, o più compiutamente, la possibilità della relazione nonché il modo della relazione del soggetto con la realtà. Una distanza abissale separa questa visione, sorretta dalla storia del pensiero filosofico greco,[29] da quella invece adottata soprattutto dal tomismo medievale.

La forma in cui siamo stati creati non esaurisce infatti la creazione divina, ma costituisce il mezzo con cui trascenderla per arrivare ad una visione veramente uni-totale. Ed ecco il perché del libro di Vannini sulla Religione della ragione: usare quest’ultima per provocarne un impasse[30] logica che permetta di gustare l’esperienza divina presente in noi.

Tesi per una riforma religiosa, La religione della ragione e Prego Dio che mi liberi da Dioeidos, che è quella della ragione), per approdare infine ad una sintesi in cui il soggetto e l’oggetto si compenetrano in base alla propria equazione personale. Ed è risolvendo quest’ultima che Vannini approda alla vera fede. scandiscano quindi il peregrinare personale dell’Autore verso una fede vissuta e compresa pienamente. Dalla constatazione della realtà oggettiva che circonda l’Autore e in cui si manifesta la sua fede (ma è un mondo che lo delude, perché constata la declinazione della propria tradizione a un asfittico razionalismo di stampo teologico-razionalizzante), giunge la rivendicazione della propria specificità soggettiva (il riconoscimento della forma specifica dell’uomo,

La vera fede (la fitrah in arabo), infatti, è incolore come l’acqua presente nel mare ed assume una determinata colorazione solo in funzione del recipiente che la raccoglie. Il dettaglio non è accidentale, ma anzi rilevante, paradigmaticamente drammatico per certi versi. La Gottheit di Eckhart è la matrice da cui è stato espunto il Cristianesimo e aggiungiamo noi, pure le altre tradizioni storicamente succedutesi nel tempo (Islam, Ebraismo, Induismo, Buddhismo e Taoismo).

Un libro stimolante quindi, che ci convince soprattutto per il telos versus Deitas, ovvero per la volontà di andare oltre il dogmatismo, senza negarlo bensì sublimandolo. Lo stesso San Tommaso, del resto, nel giorno di San Nicola dell’anno 1273, aveva capito che «tutta la nostra conoscenza può soltanto aprire la porta su nuove domande e che ogni scoperta è soltanto l’inizio di una nuova ricerca».

Forse, avrebbe aggiunto Blaise Pascal: «due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione».[31]

Ci eravamo interrogati più sopra in merito all’opportunità delle «locuzioni teopatiche», e quella eckhartiana intitolante questo testo lo è, avendo fissato in ogni caso il loro fondamento veritativo, ebbene, giunti in conclusione, pensiamo che esse siano indispensabili all’economia soteriologica di qualsiasi tradizione. Questo non cancella però la drammaticità con cui queste devono essere vissute dai loro stessi assertori, i quali vengono pesantemente criticati ed isolati dalla doxa comune incapace di capirli.[32]

Non è del resto possibile «pretendere» che ciò che è frutto di un’esperienza spirituale individuale, quale è l’esito che porta a pregare Dio come Eckhart, diventi il nomos del demos, inteso qui come tutti coloro che potenzialmente potrebbero arrivare fino a quelle conclusioni. La libertà realizzativa individuale si scontra, infatti, necessariamente con l’altrettanta libera possibilità di non voler realizzarsi.

Pure questo è l’ennesima riproposizione di quella simultaneità di contrari che caratterizza la Realtà: a un aspetto visibile si accompagna inevitabilmente uno non-visibile.

Auspichiamo quindi che libri del genere destino nei loro lettori una riflessione profonda e che determino un rinnovato interesse per gli studi attinenti alla meta-filosofia o philosophia mystica,[33] le uniche «discipline» in grado di far capire che non vi possono essere accordi ecumenici o interreligiosi se prima l’uomo non ha esperito la comunanza realizzativa dello Spirito stante al fondo di ogni tradizione spirituale succedutasi nel tempo sulla terra.[34] Un interesse problematizzante e non passivo e acritico, come il nostro che mantiene tuttora una certa difficoltà nel racchiudere Hegel nel discorso meta-filosofico.

 



[1] M. Vannini, Tesi per una riforma religiosa, Firenze, 2006.

[2] M. Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio, Milano, 2010.

[3] M. Vannini, La religione della ragione, Milano, 2007.

[4] Riferimento imprescindibile per il corretto inquadramento della «teologia progressista» rimane immancabilmente l’ottimo testo di C. Fabro, L’avventura della teologia progressista, Milano, 1974.

[5] Serrando le porte che portano alla conoscenza (gnosis), de facto,  il cristiano è divenuto per lo più un reiterato moralista che può «scegliere» di impegnarsi politicamente a fianco di quei movimenti «anti-colonialisti» ancora oggi presenti nell’America del Sud piuttosto che a favore di quei passatisti che intendono il Cristianesimo alla stregua di un in interminabile corte funebre. Dice l’Evangelista Luca: «guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della conoscenza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Lc, 11:52) ed ancora, «guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc, 11:46).

[6] La consultazione e la riflessione sulle opere di Nicola Cusano risulta fondamentale, soprattutto per poter in seguito accostarsi sia a certe opere dei Padri Cappadoci che ai lavori di pensatori musulmani del calibro di Ibn ‘Arabî ed al-Qâshânî.

[7] L’etimologia di «eresia» è infatti «scelta», vale a dire separazione all’interno di un tutto di una parte con conseguente assolutizzazione.

[8] Interessante, anche se mosso da altre presupposti, è il testo di S. Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Bari, 2003.