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"Papillon" fa 40: fu un libertario oltre gli schemi

di Marco Iacona - 20/06/2010



Quarant'anni fa, all'inizio del 1970, usciva in Italia per i tipi della Mondadori Papillon, romanzo autobiografico dell'ex ergastolano Henri Charrière, pubblicato l'anno prima in Francia. Oltre ad alcune puntualizzazioni da parte dell'editore che ricostruivano a grandi linee la genesi del lungo racconto, il libro conteneva una postfazione di Jean François Revel (vero cognome: Ricard), intellettuale laico-libertario, nato a Marsiglia nel '24 e morto quattro anni fa (il 30 aprile del 2006), membro dell'Académie française dal '98 e autore di volumi di successo di genere filosofico-politico (ricordiamo fra tutti quello "filoamericano" del 1970: Né Cristo né Marx).
Era un trampolino di lancio per la successiva versione cinematografica del romanzo, il ben noto Papillon con Steve McQueen - nel suo periodo d'oro - e Dustin Hoffman. Il cui finale - come una catena di Sant'Antonio - avrebbe a sua volta ispirato una canzone e un Lp dei Nomadi (La settima onda del ‘94) e perfino il finale di Gomorra di Roberto Saviano. Papillon nelle versioni su carta e celluloide era un racconto sulla libertà - una libertà perduta e da riconquistare, nulla a che vedere con le nauseabonde menate "borghesi" che già da qualche anno si propinavano a sinistra e a volte anche a destra - un racconto sulla crudeltà e lo squilibrio delle pene detentive (un romanzo quasi a sfondo "civile", ma senza il residuo dei comuni moralismi), un racconto, infine, sulla fuga come melodia di una vita sempre e a ogni modo "spericolata".
In oltre seicento pagine di sfide, e due ore e passa di emozioni, si snodava il racconto di un uomo destinato al carcere duro e ai lavori forzati. Charrière-Papillon, chiamato così per una farfalla tatuata sul torace, non era uno stinco di santo, ma era innocente e aveva scelto di dichiararsi tale. Smanioso di libertà, senza perdere la luce della speranza, dopo averle provate tutte e giunto a una quasi condizione di follia, riusciva infine a gustare il sapore di un autentico successo. In cinque pagine e con frasario colto J. F. Revel (innamoratosi presto di Papillon) ne sottolineava le caratteristiche di «racconto allo stato puro» e di moderna versione della letteratura orale.
Uno strumento quasi inconsueto posto al servizio del lettore: «In questo tipo di racconto, l'autore non si chiede perché scrive - dice Revel - la domanda, per lui, non ha senso. O, piuttosto, la risposta sembra evidente. La violenza con la quale ha vissuto ciò che racconta non lascia nel suo animo alcuno spazio a dubbi riguardanti l'interesse che vi si deve prestare (convinzione senza la quale non esiste autentico narratore), e poiché, d'altronde, egli non può pensare ad altro, lasciandosi andare al racconto fa piacere a tutti, compreso se stesso. Tale abbandono alla narrazione è lo stato di grazia fondamentale, il talento primario che soltanto altri può percepire, e che non s'acquisisce». Un romanzo senza sovrastrutture, non scritto "per scrivere" ma pubblicato perché "esistente", ed esistente nel recente passato di Charrière-Papillon. Un inno al valore dell'esistenza oltre che un inno alla "libertà". Da intellettuale anticonformista Revel apprezzò la singolarità di Papillon in un periodo nel quale, sul versante letterario, si contavano ripetizioni su ripetizioni straboccanti di vanità e di "verità" autoreferenziali. In anni nei quali la propaganda politica occupava gran parte degli spazi a disposizione (gli anni Sessanta) Revel seppe parlare da uomo sincero e da conoscitore non di "segreti" come si direbbe di Elémire Zolla ma di una "semplice" libertà. In Italia se ne accorse Gianfranco de Turris che registrò il successo di questo romanzo, in controtendenza rispetto al neo-realismo ancora dominante. Del resto, J. F. Revel si sentirà via via attratto dalla destra liberale e da una schietta filosofia anti-ideologica. Lui che quelle ideologie le detestava davvero, sulla scia di Raymond Aron, come scrisse Sergio Romano sul Corriere il giorno dopo la morte del marsigliese, divenne il «fustigatore… di tutti i luoghi comuni egualitari, progressisti e antiamericani che erano diventati l'ortodossia della società francese dopo gli avvenimenti del maggio parigino». La natura laica e non-dogmatica del pensiero di J. F. Revel e lo schierarsi a fianco della persona senza pregiudizi, verranno fuori anche da un singolare libro-dialogo, dialogo fra papà Jean François e figlio Matthieu Ricard fattosi monaco buddhista e stabilitosi nel continente asiatico (Il monaco e il filosofo, edito in Italia da Neri Pozza). Revel guarderà all'Oriente e all'Occidente come due realtà diverse: la seconda costruita sul rigore scientifico, la prima sulla "saggezza". Così diverse ma complementari se non fondamentali l'una all'altra. Bastonatore di un Occidente privo oramai di una vera "morale", Revel continuerà tuttavia a preferire la "certezza" del libero-pensiero a quello delle dottrine "prefabbricate". Sull'America e in favore di essa, scriverà più volte, contemporaneamente si pronuncerà a sfavore del pericolo comunista e di quella sua nota "abilità" nel fare proseliti (La tentazione totalitaria, edito da Rizzoli). In un Italia che non era sfuggita alla "ferocia" della sua penna fin dal periodo del centrismo scriverà per Il Giornale di Indro Montanelli. Raffinato polemista (diresse L'Express e scrisse per il Nouvel Observateur e su Le Point), Revel sarà soprattutto un anticipatore di temi e opportunità e un "provocatore" serio e tutt'altro che fumoso. Se ne occuperà diffusamente Alain de Benoist nel suo Visto da destra. E Riccardo Paradisi in un saggio del 2005 pubblicato su Ideazione, Revel vivente, porrà in evidenza l'acume scientifico dell'ex professore di filosofia («Di lui si è detto che è sempre stato un autore straordinariamente perspicace, anche profetico: forse più semplicemente è un pensatore che ha saputo osservare laddove altri hanno adoperato schemi mentali»), e ne rileverà oltre il coraggio - com'era facile ai tempi in cui Revel scrisse per esempio Né Cristo né Marx, edito da Rizzoli, stare dalla parte delle rivoluzioni cosiddette "progressiste", lasciandosi trasportare dagli eventi - la lungimiranza nel comprendere il significato delle svolte "politiche" e con esso le ragioni per cui il rispetto delle libertà, di tutte le libertà: propedeutico al vero rinnovamento, avrebbe condotto il Continente Nuovo su strade facilmente percorribili, diverse da quelle di un'Europa ferma al palo delle ideologie. Un'Europa che, d'altra parte, per Revel non smetterà di seminare luoghi comuni, quando non vere e proprie malignità sulla cugina America, alimentando il fenomeno dell'Ossessione antiamericana (dal titolo di un saggio dell'Accademico di Francia pubblicato nel 2003, dopo i fatti dell'11 settembre 2001). Il pensiero critico fin dalle origini delle filosofie, passando per la parentesi illuminista, sarà il nobile protagonista dei capitoli relativi all'affrancamento libertario, specie laddove esso si scontrerà con un potere ampio, grossolano e manifesto. Ma, sembra dire Revel, una cosa sarà la critica fondata oggi su ragioni obiettive altra quella basata su elementi di scarsa consistenza, edificati sui rimasugli di quelle ideologie che amano la disinformazione almeno quanto amano imbellettare la propria storia. L'ignoranza sugli Stati Uniti patria delle libertà capitalistiche nasce così anche da un «bisogno psicologico»: la necessità di "combattere" un nemico e la necessità di giudicare i propri "errori" (in primo luogo quelli degli europei) con generosità e indulgenza. L'antiamericanismo ossessivo, dirà Revel, rende peggiore una realtà già di per sé precaria (la realtà internazionale del dopo 11 settembre), costringendo gli Stati Uniti all'angolo di una (per molti versi dissennata) unilateralità.
Le ideologie disaggregano, concluderà il marsigliese, e possono anche produrre relazioni insensate all'interno di quelle famiglie che si chiamano Stati. Dopo la morte del "socialismo reale" i fondi di bottiglia dei grattacieli progressisti (insieme alle correnti revansciste), rimangono i protagonisti della cultura della disinformazione. L'antidoto? Onestà nel pensare e nel procedere. E libertà dell'individuo. Già: sembra il destino di Charrière-"Papillon".