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Giustizia. Il nostro bene comune

di Francesca Rigotti - 21/06/2010





Il libro di Michael Sandel non offre una trattazione nuova e originale della giustizia secondo gli argomenti del filosofo dell'università di Harvard conosciuto sotto l'etichetta di “comunitarista”. È piuttosto l'opera “didattica” di un docente carismatico che pare attragga un enorme pubblico di studenti alle sue lezioni di filosofia politica, dalle quali verrà prossimamente tratta persino una serie televisiva. E in effetti questo Giustizia. Il nostro bene comune offre ai lettori la possibilità di compiere un viaggio appassionante quanto facile e persino divertente nei meandri del concetto di giustizia. Dico ciò perché è vero che non ci si stanca di leggere queste pagine, ben raccontate e vivacizzate coi “casi”, che corrispondono alla “narrazione” filosofica come quelle di Stephen King o John Grisham alla fiction di genere noir o giuridico. Quasi un philosophical thriller insomma, senza delitti se non quelli contro le idee, che offre una visione ampia e illuminante dei problemi della giustizia, soprattutto quelli che non si rivolgono esclusivamente a questioni economiche come l'aumento della produzione economica e la sua distribuzione, ma mirano a questioni etiche più elevate. Anche se prevalentemente di principi si tratta, alcuni personaggi emergono dalle loro teorie, e non viceversa come sarà nelle lezioni di Bobbio: Bentham dall'utilitarismo, Kant dalla teoria dell'intenzione, Rawls da quella dell'equità, Aristotele dalla dottrina della giustizia teleologica.

La posizione di Sandel è comunque improntata dal suo, dicevo, “comunitarismo”, ampiamente rivelato e propagandato nel decimo e ultimo capitolo, e col quale si intende un'impostazione non neutrale o astratta dalle convinzioni di fede dei cittadini, bensì una impostazione incarnata nella comunità e capace di trasferire tali convinzioni nella sfera pubblica: insomma un incentivo a promuovere il ritorno prepotente delle religioni nella centralità del dibattito politico nel più puro stile di Obama.

E siamo subito arrivati al finale “a sorpresa” che disturba lo studioso laico che fino a quel momento aveva ammirato le capacità didattiche come pure la scrittura avvincente di “casi esemplari”, nei quali il lettore è peraltro abilmente portato ad assumere il punto di vista dello scrivente. Salvo scontrarsi col problema della neutralità liberale, a parere di Sandel difficile da conseguire, o per meglio dire non opportuna da ricercare perché svuotata, a suo avviso, di reale impegno etico. Si possono affrontare questioni politiche solamente partendo dalle proprie convinzioni etiche e religiose, asserisce Sandel, anzi è bene formulare visioni politiche improntate ai propri precisi obiettivi religiosi, se si hanno, altrimenti etici. Pensare di aspirare alla neutralità in nome della tolleranza sarebbe, ripete Sandel, un esercizio di sterile moralismo: meglio entrare nell'agone coi propri convincimenti, con le proprie preferenze e i propri desideri e cercare di introdurli nella vita pubblica. Questo permette, sempre secondo Sandel, di evitare sia la Scilla dell'utilitarismo (che fa della giustizia una questione di calcoli e non di principio) quanto la Cariddi del liberalismo (che accetterebbe le preferenze delle persone quali che siano). Che è una presentazione quantomeno approssimativa, e poco aderente al vero, di queste posizioni-politiche. Come se il principio della neutralità liberale accettasse ogni preferenza, anche quelle del fumo o della pedofilia, senza guardare ai danni e/o ai benefici che esse apportano alla società.

Sandel, Michael, Giustizia. Il nostro bene comune, trad. it. di Tania Gargiulo.
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 332, € 25,00, ISBN 9788807104541.
[Ed. orig.: Justice. What’s the right thing to do?, Farrar, Straus and Giroux, New York 2009]