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Americanate da rigettare in toto

di Eduardo Zarelli - 24/06/2010

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Determinismo storico, etnocentrismo, sentimento di superiorità materiale e quindi redenzione morale occidentale. Pacificatori guerrafondai e pacifisti dell’ingerenza bombardiera. Quando ci distaccheremo sul serio e “torneremo” in Europa?

La società dello spettacolo. Così Baudrillard descriveva decadi addietro lo scenario sociale, culturale e politico della tarda modernità occidentale. Le acrobazie dell’oggi rimandano più efficacemente all’arte circense. La transizione internazionale avviatasi nel 1989, dalla caduta del muro di Berlino, è sfaccettata, complessa e non terminata per definizione. Sul ruolo egemonico statunitense però non vi sono dubbi di sorta. Differenti sono solo i giudizi di valore in merito, spesso spacciati per oggettività scientifica, in realtà dichiarazioni ideologiche. Una ideologia non dichiarata, per questo unilaterale, pervasiva, trasversale che ha caratteri propagandistici e intolleranti in nulla difformi dai tentativi storici di omogeneizzare la società di massa in un pensiero unico, acritico, funzionale ai meccanismi sociali del potere.

Doppi e tripli salti mortali d’accademici, editorialisti, giornalisti, intellettuali, nani e ballerine varie, che sulla scia del trasformismo politico, piegano ogni oggettività fattuale all’opportunismo dell’opinione propria, un tempo aggrappata ad una idea, oggi al successo dello spettacolo di cui si sentono narcisi protagonisti.

Mettendo in fila gli episodi che collegano la guerra alla Jugoslavia, le due guerre irachene e l’attuale conflitto in Afghanistan, svolte dalla comunità internazionale sulla spinta della volontà d’affermazione planetaria occidentale, l’11 settembre 2001 appare come un semplice drammatico acceleratore di velocità degli avvenimenti, con un tale repertorio di falsità e strumentalizzazioni, che a destra come a sinistra è difficile distinguere al peggio. Dittature che all’occorrenza divengono amiche o nemiche. Introvabili armi di distruzione di massa, non fosse altro che sono cercate quando non si forniscono più alla propria bisogna. Guerre preventive non dichiarate, poi ricomposte e metabolizzate in quel comitato d’affari che è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove il diritto internazionale appare come la molla di una bilancia sbalestrata dai dieci pesi e le mille misure.

Dall’ossimoro della “guerra umanitaria” progressista, all’aggressività delle “guerre democratiche”, cioè di conquista dei “nuovi conservatori”, quello che accomuna il pensiero dominante è l’universalismo, il determinismo storico, l’etnocentrismo, il sentimento di superiorità materiale e quindi redenzione morale occidentale. Pacificatori guerrafondai e pacifisti dell’ingerenza bombardiera, hanno retoriche diverse, ma entrambe perseguono un mondo a loro immagine e somiglianza. Il pantagruelico libero mercato globale degli uni è l’altra faccia dell’individualismo apolide e impolitico dell’utopia cosmopolita degli altri.

In tale contesto l’utilizzo polemico dei termini “americanismo” e “antiamericanismo” è l’apice dell’ipocrisia argomentativa dei “pensatori” circensi. Agli occhi dei sacerdoti del pensiero liberale, assumere una posizione critica della deriva unilaterale internazionale, significa appartenere ad uno schieramento oggettivamente eretico, nemico della libertà, cioè l’antiamericanismo. Poco importa ai fini dialettici, che la stucchevole filastrocca sulla “società aperta” faccia poi rientrare gli “eretici” nelle accoglienti braccia della “superiorità” delle istituzioni liberali. Chiunque è onesto intellettualmente riconosce che nelle società complesse uguaglianza e libertà sono una a scapito dell’altra e non offrono parità di manifestazione delle idee, quanto relativismo, censura ed autocensura. Le democrazie liberali hanno caratteri d’esclusione sottile, che ne preservano la funzionalità legata ai poteri politici, economici e d’opinione che le condizionano. In tal senso, l’espediente dell’“antiamericanismo”, è un capro espiatorio ad uso dialettico per delegittimare il contraddittore. Automaticamente, in ogni ambito culturale, gli Stati Uniti diventano un improbabile letto di Procuste storico e filosofico cui sottoporre immaginari nostalgici di Gulag o campi concentrazionari, in realtà per negare dignità concettuale e marginalizzare chiunque abbia opinioni difformi sul monismo ideologico della modernità. Ma si può ridurre millenni di storia, civiltà e culture allo spirito di redenzione dei Padri pellegrini sbarcati nel Massachussets circa tre secoli fa? Ovviamente no, quindi si inverte la rotta e si fanno sbarcare i marines in ogni dove.

Quello che sta accadendo è lo spregiudicato utilizzo dei mutati rapporti internazionali per affermare nella società italiana un liberalismo di massa. Non avendo quest’ultimo solide radici autonome, si sradicano le residuali identità popolari con una ennesima egemonia culturale fatta ad immagine e somiglianza di un mito edonista secolarizzante. Ora, come non esiste un “partito antiamericano”, non crediamo esista in sé un “partito americano”, ma un soggetto culturale multiforme, con una certa aderenza sociale che nella fragilità delle posizioni di principio degenera in un difetto caratteriale dei tratti nazionali, il servilismo.

Il buon senso popolare stroncherebbe gergalmente tale mancanza di stile e grossolanità ideologica con il termine “americanata”, ma il farsesco assume i toni del tragico quando viene meno anche nei singoli individui il senso critico della realtà, disponendo in forme totalitarie il consenso democratico. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Per inibire le contraddizioni sociali, per distogliere le persone dal farsi domande, si creano dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, si strumentalizzano i conflitti culturali con l’obiettivo di perpetuare il potere immunizzandolo da ogni presunta “minaccia”.

In tal modo la deriva oligopolista delle democrazie rappresentative, piuttosto che la dissoluzione del legame sociale, o la diffusione tumorale della corruttela morale e la diffidenza reciproca nelle società occidentali, è abilmente rimosso. La crisi epocale del nichilismo tecnologico e il divario irreversibile tra cultura e natura causato dalla yubris industriale non ha patria nelle “felici sorti e progressive” della civilizzazione planetaria.

La consapevolezza della drammaticità degli eventi consiglierebbe ben altro spirito tragico alla commedia umana che stiamo recitando. Occorrerebbe opporsi a tutto ciò che, entro la “logica imperiale”, ha l’effetto di omologare, unire, sedare, “pacificare”, orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica. L’obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre consenso alla prospettiva di uno Stato mondiale e, nello stesso tempo, di operare perché alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca gradualmente un assetto pluralistico: un “pluriverso” di grandi aree di civiltà in interazione il più possibile pacifica, anche se competitiva, fra di loro. Ben ulteriore alla pantomima multilaterale delle organizzazioni mondiali esistenti: ONU, FMI, BM, WTO, FAO, con il corollario impolitico e moralistico del volontarismo impolitico delle ONG.

Un regionalismo multipolare, ad esempio, potrebbe essere capace di ridurre realisticamente l’asimmetria delle forze oggi in campo e sconfiggere l’aggressivo unilateralismo degli Stati Uniti. Senza giri di parole necessita pensare l’attualità di una “secessione europea” dalla sua attuale lealtà e subalternità atlantica.

Si pensi come eponimo degli aggressivi interessi statunitensi al politologo statunitense Robert Kagan. A parere di quest’ultimo e di molti osservatori europei e statunitensi, stanno aumentando le ragioni di un “dissenso strategico” fra le due sponde atlantiche. Stati Uniti ed Europa si dividono su un numero crescente di questioni, soprattutto su temi come il dissesto ecologico del pianeta, il rispetto del diritto internazionale, i rischi connessi alla guerra infinita contro i reprobi di turno, la nuova Corte penale internazionale (ICC). Se il dissenso transatlantico si farà più acuto, minaccia Kagan con toni arroganti assai stonati con lo stato dell’arte della situazione irachena, gli Stati Uniti saranno costretti a svolgere la loro funzione di guardiano armato del mondo senza tenere in minimo conto le opinioni dei leader politici europei.

Bene, si prenda in parola la presunzione degli onnipotenti di turno. Una Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico e cioè meno occidentale, e soprattutto più mediterranea, potrebbe manifestare una identità politica capace teoricamente di un mutamento sostanziale degli equilibri nei rapporti di forza che sottendono la globalizzazione. Una forte autonomia e identità europea potrebbe favorire una riduzione dell’uso arbitrario della forza internazionale e attualizzare il principio dell’autodeterminazione dei popoli, a cominciare da quello palestinese.

Quanto alla forma politica capace di contrastare il “radicalismo liberale di massa”, si ragioni anche qui con grande realismo, abbandonando i velleitarismi delle narrazioni ideologiche ottocentesche e novecentesche, che indipendentemente dalla bontà concettuale hanno perso semplicemente aderenza storica. Si ragioni in termini di partecipazione sulla base di comunità locali piuttosto che verso la “grande società”. Oltre lo Stato e il Mercato, si può praticare un giusto mezzo tra libertà ed eguaglianza, oltre il capitalismo, poiché la mercificazione dissolve ogni forma di vita comune cui è legato. Mirando a una politica conforme alle aspirazioni popolari, creando nuovi ambienti di espressione collettiva sulla base di una politica di prossimità orizzontale armonizzata dalla sussidiarietà verticale. Opponendosi alle èlites politicomediatiche, manageriali e burocratiche, tecnocratiche, il comunitarismo è incompatibile con tutti i sistemi autoritari.

Uscire dal prometeismo occidentale per tornare in grembo alla civiltà europea, dove la democrazia significa partecipazione comunitaria (polis) e libertà ciò che ha in sé il principio dei suoi atti.