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La tecnologia sorge quando lo spirito, il “pneuma”, cede il passo alla “ratio”

di Francesco Lamendola - 07/07/2010


Tecnica e tecnologia vengono generalmente adoperate come sinonimi nel parlare di tutti i giorni, ma si tratta di un grosso fraintendimento: la tecnica è un’arte, l’arte di fare bene qualcosa con le proprie mani e con la propria abilità ed inventiva; la tecnologia è un modo di produzione industriale basato sulla capacità, da parte delle macchine, di replicare indefinitamente, al minor costo possibile, una serie di oggetti estremamente complessi.

Quella in cui noi oggi viviamo è una società tecnocentrica, per adoperare la felice espressione di Ramon Panikkar: ogni singolo aspetto della nostra vita, della nostra economia, del nostro tempo libero, sono organizzati in funzione della tecnologia, non della tecnica; ed è questo che le conferisce la sua tipica caratteristica di spersonalizzazione e di anonimità.

Il passaggio dal modo della tecnica al modo della tecnologia è definibile come il passaggio dal regno della qualità al regno della quantità; e, inoltre, come il passaggio dagli strumenti di primo grado, basati sull’intelligenza e sulla forza fisica dell’uomo, agli strumenti di secondo grado, basati su delle macchine sempre più complesse.

Costruire un ponte che scavalca un fiume in una stretta e ripida vallata alpina, adoperando materiali naturali che la mano dell’uomo può fisicamente innalzare, e la sua intelligenza può disporre in maniera tale da vincere la forza di gravità, è un’opera tecnica; anche dipingere la «Gioconda» o comporre la «Toccata e fuga in Re minore» sono operazioni che richiedono il possesso e l’impiego di capacità tecniche, oltre che creatività e senso estetico.

Costruire decine o centinaia di ponti in cemento armato, tutti uguali, sulla base di progetti uniformi e mediante un larghissimo impiego di macchine potenti e sofisticate, è un’operazione puramente tecnologica; così come lo è adoperare il calcolatore elettronico per “creare” immagini decorative o musica da intrattenimento. Chiunque può farlo, purché possieda determinate conoscenze afferenti alla tecnologia; ma solo il genio può realizzare delle opere uniche, che uniscano la bellezza, la funzionalità e la compatibilità ambientale.

I ponti romani che scavalcano le Alpi, inserendosi superbamente nel paesaggio, sono ancora in piedi e accompagnano i secoli e i millenni; i ponti “sospesi” della moderna tecnologia, come il Golden Gate di San Francisco, paiono sfidare la terra e il cielo, ma non dureranno forse nemmeno un decimo di quel tempo.

Anche le cattedrali gotiche hanno sopportato secoli di intemperie, terremoti e inondazioni; ma i grattacieli di New York non hanno i requisiti per divenire altrettanto longevi. Così pure, possiamo chiederci quanto dureranno le nostre biblioteche informatiche, ma è certo che non eguaglieranno la durata di quelle di papiro o di carta dell’antichità e del medioevo.

La tecnica, dunque, è fatta per durare: come duravano i mobili costruiti a mano dal falegname o come duravano i primi orologi da taschino. Al contrario, la “speranza di vita” di un’automobile, oggi, si aggira sui dieci anni; e quanto più è sofisticata la tecnologia che l’ha prodotta, tanto più breve sarà la durata delle sue prestazioni; per non parlare di un computer o di un telefonino cellulare dell’ultima generazione.

La tecnica produce opere costose, ma notevolmente durevoli; la tecnologia immette sul mercato oggetti in serie, a costo sempre più basso, ma di durata sempre più limitata. Il loro basso costo, poi, fa sì che si preferisca acquistarne di nuovi, piuttosto che riparare i vecchi.

Potremmo anche dire che la tecnologia subentra alla tecnica allorché il Logos strumentale e calcolante si sostituisce all’anima delle cose; questa è, appunto, la concezione di Raimon Panikkar, il filosofo indiano-catalano che sostiene la necessità, per l’uomo, di tornare ad accettare la propria vulnerabilità e la propria finitezza, cioè il limite intrinseco della propria condizione ontologica, rinunciando al folle orgoglio dell’”homo tecnologicus”.

Per lui, ciò che dobbiamo riconquistare è una “nuova innocenza”, libera dai secondi fini e dai condizionamenti interessati, la sola che può permetterci di rientrare in noi stessi, nelle nostre autentiche profondità, ritrovando l’essenza della nostra anima; ed è un processo di liberazione che continua sempre, per tutto l’arco della nostra vita, perché non arriva mai il momento in cui possiamo ritenerlo concluso.

Per Panikkar, nella società attuale - devastata da una smania manipolatrice da parte del Logos razionale che fa violenza sia alle cose, che all’anima delle persone - il rischio è quello di cadere nelle due opposte, ma speculari forme di disperazione rappresentate dalla violenza distruttiva del terrorista e dal cinismo rinunciatario del menefreghista. Ad esse, egli contrappone il modello esistenziale del mistico: dell’uomo - cioè - che sa conservare e prendersi cura dell’integrità del proprio essere, perché sa mettersi in comunione con tutta la realtà e non si relaziona, come fanno gli altri, con una parte soltanto di essa, mettendosi in conflitto con tutto il resto.

Così si esprime Panikkar sulla genesi e sugli effetti dell’odierno tecnocentrismo, nel suo libro «La nuova innocenza. Innocenza cosciente» (testi scelti e riveduti dall’Autore dalla prima edizione in tre volumi, Servitium Editrice, 2005, pp.60-62):

 

«Benché la parola tecnica sembri riferirsi all’ordine della “téchne”, la tecnologia introduce nella “téchne” una mutazione essenziale. La tecnica è un’arte, “poietiké téchne”, nella quale l’intelligenza umana si integra nella materia per produrre un artefatto (ceramica, musica, poesia, un edificio, ecc.) che migliori la bellezza e il benessere della vita umana.  Si deve essere ispirati non solo per fare poesia, ma per produrre qualsiasi tipo di attività tecnica (“téchne”). In questo senso  la tecnica è opera dello spirito, l’attività tecnica è un’attività umana che modifica il mondo materiale e vi stabilisce una nuova simbiosi con l’uomo. Quando questa attività si istituzionalizza, viene ad appartenere agli affari umani, alla cultura in generale, che consiste nel coltivare non solo la terra, ma anche tutto ciò che contribuisce al miglioramento della vita umana.

La tecnologia, d’altra parte, sorge quando lo spirito, il “pneûma”, è sostituito dalla “ratio”, il “lógos” (nel suo senso più ristretto). Nella “téchne” si introduce l’aritmetica, cioè un ritmo (il risultato di una “mens”, “mensura”), e allora il prodotto della tecnica può essere ripetuto indefinitamente quando se ne conosca la sigla numerica. Ogni artefatto ha il suo stile e, in un certo senso, è unico. La tecnica però richiede che una molteplicità sia possibile.  Produrre poche centinaia di bottiglie di vino, che provengano da qualche ettaro di vigna con l’aroma naturale di quel terreno, può essere ancora un’arte. Però che un momento in cui il cambiamento qualitativo produce un mutamento qualitativo. Riempire alcuni milioni di bottiglie ed esportarle in tutti i continenti, in modo che l’operazione sia economicamente redditizia, è fattibile, ma allora non è più funzione della “téchne”, bensì della tecnologia. È avvenuta una mutazione della quale ci siamo resi poco conto. Fabbricare una sola automobile nel mondo sarebbe, in teoria, una creazione artistica, però non è fattibile. Non è possibile produrre alcuni bidoni di benzina e qualche centinaio di chili di acciaio o d gomma per una sola automobile. La tecnica utilizza lo strumento prodotto dall’ingegnosità dell’uomo; è lo strumento di primo grado. La tecnologia ha bisogno di macchine speciali, gli strumenti di secondo grado, che impongono all’uomo le proprie regole, peculiari e indipendenti.  La macchina di secondo grado diventa indispensabile e l‘uomo deve piegarsi alle esigenze del suo funzionamento. Lo strumento di primo grado, invece, è subordinato all’uomo. […]

La “téchne” si realizza per mezzo di strumenti di primo grado. La tecnologia è in se stessa uno strumento che presto si trasforma in fine. Attività, creatività o fabbricazione sono parole che fanno riferimento all’”homo faber” (e che desidero riservare per la tecnica), mentre fatica e lavoro sono parole-chiave nel sistema tecnologico. In quest’ultimo caso l’uomo ha già cessato di essere un artigiano ed è diventato un lavoratore; non lavora a una sua opera per il proprio benessere, non è un operaio, ma lavora per qualcuno che non conosce e con cui probabilmente non andrebbe d’accordo, al prezzo di un salario che gli permetterà non solo di mangiare sale (“salarium”), ma di fare apparentemente quello che vuole. Non sta più fieramente in piedi sopra la madre terra, né cammina a testa alta guardando il cielo. Cavalca su quattro ruote per una strada asfaltata e deve soltanto guardare avanti. Il percorso glielo danno già bell’e fatto.»

 

Ecco: in questo guardare avanti forzatamente, senza possibilità di decidere da sé la propria strada, è tutta la tragedia dell’uomo moderno; laddove l’uomo pre-moderno sapeva ancora guardare in alto, e non solo metaforicamente: il contadino era abituato a scrutare nel cielo i segni del bello o del cattivo tempo, mentre il pastore conosceva le stelle e le costellazioni del firmamento notturno ad una ad una, con una sicurezza che, oggi, possiede solo chi abbia dimestichezza con le osservazioni astronomiche al telescopio.

L’uomo moderno è costretto, suo malgrado, a camminare sempre avanti e a guardare sempre avanti, non solo metaforicamente: una persona che venga investita in autostrada, ad esempio mentre sta cambiando una ruota, può essere schiacciata da decine di veicoli lanciati a forte velocità, prima che qualcuno riesca a sottrarne il cadavere ad ulteriori oltraggi.

Nella sua marcia automatica e inarrestabile, decisa dal sistema tecnocratico, l’essere umano travolge tutto ciò che si trova sulla sua strada: i salmoni si sforzano invano di scavalcare la grande diga di cemento che sbarra loro le acque del fiume, come i caribù di oltrepassare, nelle loro migrazioni, l’oleodotto che attraversa la tundra; e lo stormo di anatre selvatiche che finisce, maciullato, nella turbina di un aereo, non desta altra reazione che il disappunto del pilota e il malumore dei passeggeri, costretti a un atterraggio di emergenza che li defrauderà di alcuni minuti del loro preziosissimo tempo.

La società tecnocentrica non è costruita a misura d’uomo, ma di macchina; e non solo gli operai, ma anche i tecnici di più alto livello e i dirigenti della produzione (per non parlare degli amministratori e dei politici), sono - proprio come tutti gli altri - nella meschina posizione di semplici appendici di un processo impersonale e inesorabile che, una volta messo in movimento, niente e nessuno potrebbe arrestare o modificare.

Vi è un deficit, se non addirittura una perdita di anima, in tutto questo; vi è - come diceva Pasolini - uno sviluppo senza progresso: freddo, brutale, puramente quantitativo. E qui torniamo al discorso di saper guarda dare in alto.

Quando lo sguardo dell’uomo sa innalzarsi verso il Cielo, egli - come fa l’albero - protende il proprio essere vitale verso le forze cosmiche alle quali è collegato per mille vie e dalle quali riceve l’aria, la luce, l’acqua che gli sono indispensabili.

Al tempo stesso, colui che sa guardare in alto ha anche i piedi ben piantati sulla terra: il suo passo non è frenetico né meccanico, come quello dell’uomo alienato dai processi tecnologici; ma è lento e misurato, come si addice a chi possiede la consapevolezza del proprio posto nel mondo e dell’armonia nella quale è inserito.

Dobbiamo tornare ad un modo vita ecocentrico, basato - cioè - sulla piena consapevolezza del legame benefico e necessario che collega tra loro tutti gli esseri viventi, dal più umile al più complesso; dobbiamo edificare una società ecocentrica, non più tecnocentrica ma nemmeno antropocentrica: perché l’uomo non è affatto il signore del creato, ma l’ospite del pianeta che condivide con innumerevoli altre specie viventi e, semmai, il custode dei suoi fratelli minori, gli animali e le piante, nonché della natura tutta.

Leggero è il passo dell’uomo che sente questa responsabilità e che ha occhi per ammirare tutta questa bellezza ed un cuore per gioirne: così leggero, che quasi non fa alcun rumore.