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Le prospettive dell' Iraq sembrano cupe come il suo recente passato

di Lourdes Garcia-Navarro - 09/07/2010





Il 4 di luglio, il vice presidente Joe Biden ha presieduto in Iraq a una cerimonia di naturalizzazione per militari statunitensi. E' diventato un rituale annuale – un rituale toccante. Più di 150 fra uomini e donne che stanno prestando servizio nelle forze armate sono diventati cittadini statunitensi, fra gli applausi estatici dei loro compagni di armi.

Lo scenario era lo sfarzoso Faw Palace, dove si tengono la maggior parte degli eventi militari. La sua rotonda in marmo che si erge è coronata da uno dei lampadari più grandi del mondo. Circondano Faw i laghi artificiali e i ponti che Saddam Hussein fece costruire per sé e per la sua famiglia come una riserva privata.

Dall'invasione guidata dagli Stati Uniti del 2003, questo è il centro nevralgico delle forze americane in Iraq, e uno dei posti più protetti del Paese, dove è necessaria una scorta militare solo per andare in giro.

Nel suo discorso alle truppe riunite, Biden ha detto che il fatto che una cerimonia per la cittadinanza americana si tenesse lì era un segnale della democrazia che la guerra dell'America aveva portato in Iraq.

Iraq ironico

"Quello che adoro così tanto di questa giornata è l'ironia", ha detto Biden. "Eccoci qui, nel casino di caccia di un dittatore che aveva soggiogato un popolo, che in effetti rappresentava tutto ciò che noi non rappresentiamo, e noi siamo al centro di questo palazzo in marmo sconfessando tutto ciò che lui rappresentava. Lo trovo delizioso".

Mentre ero seduta lì, io vedevo in effetti un'ironia, ma non quella a cui si stava riferendo Biden.

Oggi gli iracheni hanno scarso accesso al Faw Palace quanto ne avevano sotto Saddam.

Seguo l'Iraq dal 2002: ricordo i giorni bui di Saddam Hussein e la terribile paura nella quale viveva il suo popolo.

Ricordo anche il massacro generalizzato che avvenne durante la guerra civile nel 2006 e 2007.

Tutto sommato, negli ultimi otto anni, quasi cinque li ho trascorsi vivendo a Baghdad.

Questo sarebbe stato probabilmente il mio ultimo viaggio in Iraq per un po', e ho passato sei settimane spostandomi in giro per il Paese, parlando con iracheni comuni, lontani dagli esponenti della politica e delle forze armate.

Delusione e frustrazione

Molti mi hanno detto quanto siano delusi dalla direzione che l'Iraq sta prendendo.

Sono passati quattro mesi dalla elezioni parlamentari, e i partiti stanno ancora bisticciando su chi debba formare il governo. L'elettricità è terribile, le linee telefoniche non funzionano, e la maggior parte dei servizi essenziali come l'acqua e le fognature sono irregolari se va bene. L'Iraq viene costantemente classificato come uno dei Paesi più corrotti del mondo. Centinaia di migliaia di persone sono tuttora sfollate.

E c'è ancora violenza, ogni giorno. Circa 4.400 soldati americani hanno dato la vita in Iraq. Sono morti decine di migliaia di iracheni.

Sia gli iracheni che gli americani continuano a essere uccisi, anche se in numeri di gran lunga inferiori.

In un messaggio e-mail di questa settimana ai giornalisti che si trovano a Baghdad, il portavoce militare capo americano, Generale Stephen Lanza, ci ha ripresi per quelli che insinuava essere i nostri articoli negativi sullo stato del Paese.

Punti di vista diversi

"Mentre stavo passando in rassegna le notizie sull'Iraq, ho pensato che sarebbe stato utile fornirvi la mia prospettiva", ha scritto. "Gli iracheni stanno abbracciando la loro versione della democrazia".

"E' in corso un dibattito politico mentre i leader dei partiti lavorano per formare un nuovo governo", continuava. "La popolazione si è unita nel suo impegno verso un governo rappresentativo, proprio come si era unita nel suo rifiuto della violenza e dei tentativi di infiammare la violenza confessionale. Stiamo assistendo a della retorica politica? Certo. Non è un fatto naturale dopo un'elezione dai risultati assai ravvicinati?"

Il corrispondente della BBC, Gabriel Gatehouse, gli ha risposto in una lettera aperta: "Lei dice che gli iracheni stanno 'abbracciando la loro versione della democrazia'. Penso che lei potrebbe avere serie difficoltà a trovare qualcuno al mercato, uomo o donna, che descriverebbe in questo modo il suo rapporto con la democrazia irachena".

"Quattro mesi dopo le elezioni", ha scritto, "senza un governo in vista, la maggioranza delle persone con le quali ho parlato sono profondamente frustrate rispetto alla loro esperienza di democrazia. Certamente, chiedono, la democrazia significa più di un giorno ogni quattro o cinque anni, quando andiamo a mettere una croce su una scheda? Certamente riguarda la possibilità di chiamare  i nostri rappresentanti a rendere conto e di farli lavorare nel nostro interesse? Questa non è l'esperienza che la maggior parte degli iracheni ha finora con la democrazia".

E così la battaglia sul come presentare l'Iraq continua, anche mentre la presenza militare statunitense si riduce. Le forze americane devono diminuire progressivamente fino ad arrivare a 50.000 uomini entro la fine dell'estate, con il resto che se ne andrà nel 2011.

Oggi l'Iraq è un Paese più sicuro rispetto a tre anni fa? Senza dubbio.

Tuttavia, se uscite a piedi fuori dalle porte del palazzo, e nelle strade calde e polverose, come facciamo ogni giorno io e molti dei miei colleghi, incontrerete degli iracheni che sono preoccupati di quello che verrà.

Molti di loro mi chiedono: "A che cosa è servito tutto questo?"

Questa volta, mentre lascio l'Iraq, ho difficoltà a dar loro una risposta.




National Public Radio

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)