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Afa

di Francesco Lamendola - 19/07/2010



Una pesantissima coltre di umidità si è posata sulle nostre regioni e, sommandosi agli effetti del caldo, sta causando disagi e difficoltà che, nel caso delle persone anziane o affette da particolari patologie, stanno assumendo contorni sempre più drammatici.
Ormai frequente, purtroppo, si fa il caso delle persone che vivono sole e del cui decesso, affrettato dalle condizioni climatiche, i vicini si rendono conto solo quando il loro corpo in decomposizione incomincia ad emanare uno sgradevole odore.
Anche l’argomento che stiamo trattando è decisamente sgradevole, ce ne rendiamo conto; ma riteniamo che sarebbe ancora più sgradevole, per non dire colpevole, ignorarlo e fare finta di nulla, secondo il copione della società consumista che si preoccupa solo dei giovani e dei sani (e un esempio per tutti di questo atteggiamento è offerto dalla programmazione televisiva dell’estate, che, a dispetto del canone di abbonamento, è quanto di più deprimente si possa immaginare).
Pare che senza il condizionatore d’aria non si possa più vivere: nelle case, nei negozi, negli uffici,  nelle automobili. Un’amica mi dice che, se non lo avesse, il suo adorato cagnolino sarebbe già morto da un pezzo. E se ne abusa, al punto che lo shock termico da esso provocato è causa, a sua volta, di non poche malattie.
Resta il fatto che non tutti se lo possono permettere, specialmente le persone sole e indigenti, anziane o non anziane. Per esse, la somma delle elevate temperature e dell’altissima percentuale di umidità atmosferica risulta veramente difficile da sopportare.
Un tempo non era così; d’estate faceva caldo, ma non afoso fino a questo punto. Probabilmente è un effetto dei mutamenti climatici innescati nel corso degli ultimi decenni dall’inquinamento chimico, del surriscaldamento globale e dell’effetto serra.
Comunque, il fatto è questo. Mentre tutti quelli che se lo possono permettere vanno in vacanza, le nostre città somigliano sempre più a dei fortini assediati dalla canicola e dall’umidità soffocante, arroventati da un sole spietato e svuotati di ogni presenza amica, in balìa del primo invasore che li voglia espugnare senza colpo ferire. Le persone che rimangono, sole e torturate dall’afa, si sentono derelitte, abbandonate da tutti.
Anziani inchiodati sulle loro poltrone e badanti esasperate dalla lontananza dalle proprie case lontane paiono gli ultimi sopravvissuti di una catastrofe cosmica, di un’apocalisse da film di fantascienza.
Davanti al loro sconforto e al loro abbandono, il consumismo mostra la vacuità delle sue promesse e la società edonista rivela tutta la sua inconsistenza e la sua miseria.
Questo è il volto crudele dell’estate: solitudine, disagio, assenza di servizi pubblici, distrazione o peggio da parte di quanti dovrebbero ricordarsi dei più deboli, dai figli fino agli assessori comunali; un periodo che, per certe categorie di persone, è un’amara beffa chiamare «vacanza». A meno che  si interpreti quest’ultima parola nel suo stretto significato etimologico: da «vacantis», participio presente di «vacare» (esser libero da impegni), correlato a «vacuus» e quindi a «vuoto»: vacanza, cioè, come luogo del vuoto, dell’assenza e, in definitiva, del nulla.
Ed è così: vacua è una società che si dimentica, con tanta facilità, dei suoi componenti più fragili; vacui sono i miti di cartapesta che la alimentano, la suggestionano, la travolgono; vacuo è l’orizzonte di senso in cui si muovono i suoi membri, sempre più dimentichi dell’essenziale e sempre più ossessionati dall’effimero e dal superfluo.
La solitudine e il senso di abbandono, poi, fanno da amplificatori di antichi e radicati disagi esistenziali: esasperano il ricordo penoso dei torti subiti, veri o presunti; rinfocolano rancori segreti e impossibili sogni di rivalsa; ulcerano l’amor proprio offeso e alimentano il vittimismo, la tristezza e l’autocommiserazione.
La persona sola e abbandonata soffre due volte: per quello che patisce e per quello che crede di aver patito.
Per lei, scoprire che qualcuno la pensa, si interessa ai suoi casi, può e vuole dedicare un po’ del proprio tempo, è come ricevere una fresca boccata d’aria pura e vedersi aprire il cielo davanti, mentre sta vegetando al chiuso ed al buio.

*   *   *
Il periodo delle vacanze sarebbe davvero un momento formativo importante se ci aiutasse ad entrare, almeno un poco, nella solitudine altrui, per alleggerirla; e nella malattia altrui, per consolarla.
Allora sì che cesserebbe di essere un tempo vacuo per diventare un tempo denso di verità e di significato.
Andare incontro all’altro, è anche lasciarlo entrare; sostenerlo, è anche un lasciarsi sostenere; donare, è anche un ricevere: questa è la grande verità che solo praticandola si rivela a noi in tutta la sua forza ed evidenza, in tutta la sua bellezza.
Anche in ciò si vede la differenza tra una visione riduzionista ed una visione olistica del reale: nel primo caso, si rimane rinchiusi nel cerchio stregato del proprio ego e si pensa che ogni cosa di cui ci si priva, a cominciare dal proprio tempo, sia perduta per sempre; nel secondo, si riesce ad afferrare tutta la pienezza e lo splendore della realtà a trecentosessanta gradi, dove ogni cosa è legata a tutte le altre e nessuna rimane isolata ed inerte.
Ciò di cui abbiamo bisogno, è di tornare a gettare un ponte fra noi e gli altri. Scopriremo allora che un ponte è un passaggio che permette di andare nei due sensi; e che ogni passo fatto verso l’altro è accompagnato da un passo che l’altro fa verso di noi.
Ma, per poter gettare dei ponti verso i nostri simili e, in genere, verso l’altro (quindi verso ogni essere vivente), dobbiamo prima liberarci dalla tirannia che le cose hanno preso ad esercitare su di noi, con il nostro consenso: perché la dove si adorano le cose e si insegue incessantemente l’accumulo di esse, l’anima dell’altro scompare dal nostro orizzonte di sensibilità e perfino dal nostro orizzonte di consapevolezza.
Ora, è ben vero che anche le cose hanno un’anima; ma essa non è che il riflesso di coloro che le hanno create, coltivate, abitate con i loro sogni, le loro speranze e le loro emozioni. Non si possono anteporre le cose agli esseri viventi, quindi, senza invertire l’ordine ontologico e senza tradire la nostra vocazione all’essere.
Infatti, noi siamo chiamati a partecipare a livelli sempre più alti di consapevolezza; non a collezionare oggetti più o meno costosi, più o meno superflui. Questo è il peccato mortale del consumismo.
Così, ricordarsi delle persone che rimangono sole, in città, nel caldo torrido dell’estate, non è soltanto un dovere sociale e morale, cui obbedire per ragioni estrinseche; ma è anche un prendersi cura di se stessi, della parte più vera e profonda di sé.
Se all’anima viene negato troppo a lungo questo tipo di nutrimento spirituale, essa avvizzisce e muore.
Siamo noi, in definitiva che abbiamo bisogno degli altri, e specialmente dei più deboli, non meno di quanto essi abbiano bisogno di noi; e sono occasioni preziose, imperdibili, quelle che ci distraggono dalla nostra sconsiderata ossessione per le cose e ci rimettono sulla via maestra dell’ascolto dell’altro.
Perché, ascoltando la voce dell’altro, è la voce più autentica di noi che finiamo per udire, nella grande sinfonia dell’essere.
Ogni voce è una nota dell’armonia cosmica; gi unici suoni sgradevoli e stonati sono quelli prodotti dalla nostra inconsapevolezza, dalla nostra superficialità, dalla nostra fretta priva di senso e di una qualsiasi direzione.
Gli unici suoni disarmonici sono quelli dell’anima che non si riconosce, che non si prende cura di se stessa e che disperde le sue energie migliori nella corsa verso le cose che non contano e non le possono fornire alcun aiuto.
Nessuno potrebbe fare per noi più di quello che saremmo in grado di fare noi stessi, se solo imparassimo ad aprirci al mistero della grazia.
E la via per arrivarci non passa attraverso i libri o la teoria, ma attraverso l’incontro concreto con il tu.

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Tutta la bellezza e tutta la ricchezza della vita che ci si apre davanti consiste essenzialmente in questo: nel prendere le situazioni di difficoltà, di disagio e di sconfitta, nostre ed altrui, in altrettante occasioni preziose di crescita, di evoluzione, di progresso e non nel viverle come dei fastidi o delle sfortune che ci sottraggono qualcosa.
Nessuno ci potrà mai sottrarre alcunché, se noi non abbiamo deciso di permetterglielo: ma, a quel punto, ciò che ci venisse rubato sarebbe davvero merce di poco valore. Nessuno potrebbe mai rubarci l’essenziale, perché l’essenziale non è qualcosa che si possa prendere o togliere, ma fa parte della nostra sostanza medesima.
Ecco, dunque, una possibile traccia da seguire, una possibile risposta davanti alla domanda che queste giornate torride, fatte - per molti esseri umani - di angoscia e solitudine, stanno ponendo alla nostra mente e soprattutto al nostro cuore.
Alle domande essenziali non si può rispondere solo con la mente, fosse pure la mente più acuta della Terra; bisogna permettere che ad essere interpellate siano anche le ragioni del cuore, come direbbe Pascal.
Siamo ormai fin troppo abituati a rispondere ad ogni sorta di domanda con la sola mente, con il solo Logos razionale; ci siamo disabituati ad accogliere le domande con tutto il nostro essere: ragione, emozioni, sentimenti, immaginazione, ricordi.
Abbiamo un po’ dimenticato di essere delle unità viventi, complesse e variegate, che possono abbracciare il mondo in un solo sguardo, purché mettano da parte l’atteggiamento strumentale e calcolante, proprio dei calcolatori elettronici.
Noi siamo qualche cosa di più e di meglio della nostra tecnologia attuale, della quale andiamo tanto fieri; alla domanda di senso, alla domanda sull’Essere, non si può dare alcuna risposta in termini esclusivamente razionali.
Non si può neppure eluderla, né mentire nelle risposte.
La domanda di senso fa parte della nostra struttura ontologica: averla voluta ignorare, minimizzare, perfino deridere: questo è stato il grande errore, il grande delitto perpetrato contro la verità interiore di cui siamo depositari.
La domanda di senso è la domanda sull’Essere; e non ci si può accostare ad essa, se non passando attraverso l’esperienza del tu, attraverso l’esperienza dell’altro.
Solo quando l’io sa dire: «tu», solamente allora gli cadono i paraocchi e la verità emerge in tutta la sua forza, in tutta la sua luce.
La verità, è l’Essere.
E come potremmo noi accostarci al mistero dell’Essere, se non passando attraverso la rivelazione del tu, specialmente quando si tratta di un «tu» particolarmente fragile, esposto, bisognoso, nel cui riflesso ci è dato di scorgere la nostra stessa fragilità?
Ecco perché donare qualcosa all’altro, significa ricevere almeno altrettanto: perché è a noi stessi che facciamo il dono, il dono della consapevolezza e della sollecitudine.
Infatti, noi crediamo di essere dei buoni amici di noi stessi e di saperci prendere cura delle nostre vere necessità.
Ma come è possibile che ciò accada, se rimaniamo legati al miraggio delle cose, alla catena delle cose, senza mai aprirci veramente, svelarci, esporci e metterci in gioco? Senza mai permetterci il lusso di essere realmente noi stessi?
Ne abbiamo di cose da imparare su noi stessi, allorché ci mettiamo in cammino verso l’altro.
La strada è ancora lunga; ma anche il tempo che abbiamo a disposizione, lo è: per chi incomincia a capire, il tempo non è più un tiranno, ma è sempre un amico, indipendentemente dalla sua durata quantitativa.
Per cominciare a capire, non è mai troppo tardi.