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La lobby israeliana e la politica estera USA (sesta puntata)

di John Mearsheimer e Stephen Walt - 09/05/2006

 
 
George W. Bush stringendo la mano ad Ariel Sharon il 14 aprile 2004, annuncia l'appoggio unilaterale statunitense alla politica israeliana nella striscia di Gaza

LA CODA CHE FA MUOVERE IL CANE - Se l'impatto della lobby fosse confinato all'aiuto economico americano a favore di Israele,
la sua influenza non sarebbe così preoccupante.
Tale aiuto è prezioso, ma è molto più utile poter contare sul fatto che l'unica superpotenza mondiale ha messo le sue enormi risorse al servizio di Israele.
Di conseguenza, la lobby ha anche cercato di influenzare la politica americana verso il Medio Oriente.
In particolare, si è impegnata con successo per convincere i leader americani a sostenere la continua repressione dei palestinesi da parte di Israele, ed a prendere di mira i suoi principali antagonisti della regione: l'Iran, l'Iraq e la Siria.
Adesso la cosa è andata nel dimenticatoio, ma nell'autunno del 2001, e soprattutto nella primavera del 2002 l'Amministrazione Bush cercò di contrastare il crescente sentimento anti-americano nel mondo arabo e di indebolire il conseguente sostegno dato ai gruppi terroristici come Al Qaeda bloccando le politiche espansionistiche israeliane nei territori occupati e promuovendo la creazione di uno Stato palestinese, oggi demonizzato.
Bush aveva molti mezzi di pressione a propria disposizione.
Avrebbe potuto minacciare di ridurre gli aiuti economici e diplomatici ad Israele, ed i cittadini americani lo avrebbero certamente sostenuto.
Da un sondaggio del maggio 2003 è emerso che oltre il 60% degli americani sarebbero stati favorevoli alla sospensione degli aiuti ad Israele come forma di pressione per porre fine al conflitto, e tale numero risultò pari al 70% fra gli americani «politicamente attivi».
Inoltre, il 73% degli intervistati disse di non appoggiare nessuna delle due parti.


Tuttavia l'Amministrazione Bush non riuscì a modificare la politica israeliana, e Washington finì con il sostenere la linea dura dello Stato ebraico.
Con il passare del tempo, l'Amministrazione fece propria anche le giustificazione che Israele dava per questo approccio, e la retorica americana ed israeliana divenne simile.
Nel febbraio 2003, un titolo del Washington Post riassumeva così la situazione «Bush e Sharon praticamente unanimi sulle politiche mediorientali».
La ragione per tale cambiamento di rotta è la lobby.
La storia inizia alla fine del settembre 2001, quando il presidente Bush cominciò a fare pressioni sul primo ministro israeliano Sharon per spingerlo ad un atteggiamento più moderato nei territori occupati.
Bush fece anche pressioni affinché Sharon permettesse al ministro degli Esteri israeliano Shimon Pares di incontrare il leader palestinese Yasser Arafat, benché Bush fosse molto critico sulla leadership di quest'ultimo.
Bush inoltre sosteneva pubblicamente la necessità di uno Stato palestinese.
Allarmato da questi sviluppi, Sharon accusò Bush di cercare di «placare gli arabi a loro spese», ammonendolo che «Israele non sarà la Cecoslovacchia» [il riferimento è al primo ministro inglese Neville Chamberlain, che nel 1938 per ingraziarsi Hitler abbandonò la Cecoslovacchia ai nazisti, ndt].
Bush si infuriò quando Sharon lo paragonò a Neville Chamberlain, ed il portavoce della casa Bianca Ari Fleisher dichiarò che le parole di Sharon erano «inaccettabili».


Il primo ministro israeliano fece delle scuse di facciata, ma ben presto unì i suoi sforzi a quelli della lobby per convincere l'Amministrazione Bush ed i cittadini americani che gli Stati Uniti ed Israele dovevano affrontare la comune minaccia del terrorismo.
Funzionari israeliani e membri della lobby più volte enfatizzarono il fatto che non c'erano reali differenze tra Arafat ed Osama Bin Laden, ed insistettero affinché gli Stati Uniti ed Israele isolassero completamente i leader palestinesi eletti democraticamente.
La lobby inoltre si diede da fare anche al Congresso.
Il 16 novembre, 89 senatori scrissero a Bush una lettera nella quale lo elogiavano per essersi rifiutato di incontrare Arafat, ma anche raccomandavano di non ostacolare le ritorsioni israeliane contro i palestinesi, ed insistevano perché l'Amministrazione affermasse pubblicamente il proprio fermo sostegno ad Israele.
Secondo il New York Times, tale lettera «traeva origine da un meeting avvenuto due settimane prima tra la comunità ebraica americana ed alcuni senatori di primo piano», aggiungendo che l'AIPAC era stato «particolarmente attivo nel suggerire i contenuti della lettera».
Già verso la fine di novembre le relazioni tra Washington e Tel Aviv erano migliorate sensibilmente.
Questo grazie in parte agli sforzi della lobby per piegare la politica estera USA verso una direzione pro-Israele, ma anche grazie alle iniziali vittorie americane in Afghanistan, cosa che rendeva meno necessario il sostegno del mondo arabo per contrastare Al Qaeda.
Sharon si recò presso la Casa Bianca in dicembre, ed ebbe un incontro amichevole con Bush.
 
Ma le tensioni scoppiarono nuovamente nell'aprile 2002, quando l'esercito israeliano lanciò una pesante offensiva e riprese il controllo di tutte le aree palestinesi della Cisgiordania.
Bush sapeva che le azioni israeliane avrebbero danneggiato l'immagine americana agli occhi del mondo arabo, ostacolando così la guerra al terrorismo, e pertanto chiese a Sharon di «fermare le incursioni ed iniziare il ritiro».
Sottolineò due giorni più tardi il messaggio aggiungendo che esigeva un «ritiro immediato».
Il 7 di aprile, il consigliere per la sicurezza nazionale Condolezza Rice disse ai giornalisti che «immediato significa immediato. Vuol dire adesso».
Lo stesso giorno il Segretario di Stato Colin Powell partì per il Medio Oriente per cercare di convincere le parti a cessare il fuoco e a negoziare.
Israele e la lobby si misero subito in azione.
Il bersaglio privilegiato fu Powell, che fu sottoposto ad intense pressioni da parte di funzionari pro-Israele appartenenti allo staff del vice-presidente Cheney ed al Pentagono, oltre che da esponenti neocon di primo piano come Robert Kagan e William Kristol, che lo accusarono di aver «confuso i terroristi e quelli che li combattono».
Un secondo obiettivo fu Bush stesso, sottoposto a forti pressioni da parte dei leader ebraici e cristiano evangelici, questi ultimi rappresentanti una parte importante del suo elettorato.
Tom DeLay e Dick Armey furono particolarmente espliciti riguardo alla necessità di sostenere Israele; inoltre DeLay ed il leader della minoranza al Senato Trent Lott fecero visita personalmente alla Casa Bianca ammonendo Bush a fare marcia indietro.


Il primo segno che Bush stava cedendo arrivò l'11 aprile - solo una settimana dopo l'invito perentorio di Bush a Sharon - quanto Ari Fleisher disse che il presidente riteneva Sharon «un uomo di pace».
Bush ripeté nuovamente in pubblico questa affermazione in occasione del ritorno di Powell dalla sua prima missione, e disse ai giornalisti di aver ricevuto da Sharon risposte soddisfacenti in merito al ritiro completo ed immediato.
Sharon non aveva fatto assolutamente nulla, ma il presidente degli Stati Uniti non voleva più farne una questione.
Nel frattempo, anche il Congresso si attivò per supportare Sharon.
Il 2 maggio, senza tener conto delle obiezioni dell'Amministrazione, votò due risoluzioni riaffermando il sostegno ad Israele (al Senato fu approvata con 94 voti favorevoli e 2 contrari, alla Camera con 352 contro 21).
Entrambe le risoluzioni sottolineavano che gli Stati Uniti erano «solidali con Israele» e che i due Paesi erano «impegnati in una comune guerra contro il terrorismo».
La risoluzione alla Camera inoltre condannava il «sostegno al terrorismo fornito da Yesser Arafat», descritto come figura centrale del movimento terrorista.
Qualche giorno più tardi, una delegazione bipartisan del Congresso in missione in Israele affermò pubblicamente che Sharon avrebbe dovuto opporsi alle pressioni di Bush per spingerlo a negoziare con Arafat.


Il 9 di maggio una commissione della Camera si riunì e propose di dare ad Israele altri 200 milioni di dollari per combattere il terrorismo.
Il Segretario di Stato Powell si oppose a tale provvedimento, ma la lobby invece lo appoggiò, proprio come in precedenza aveva partecipato alla redazione delle risoluzioni congressuali.
Powell, ovviamente, perse.
In poche parole, Sharon e la lobby sfidarono il presidente degli Stati Uniti e trionfarono.
Hemi Shalev, un giornalista del quotidiano israeliano Ma'ariv disse che lo staff di Sharon «non potè nascondere la propria soddisfazione nel vedere la sconfitta di Powell».
Ma furono le forze pro-Israele presenti negli Stati Uniti, non Sharon o Israele, che giocarono un ruolo chiave nella sconfitta di Bush.
La situazione non è cambiata molto da allora.
L'Amministrazione Bush si è sempre rifiutata di trattare con Arafat, che poi morì nel 2004. Successivamente ha riconosciuto il nuovo leader Mahmoud Abbas, ma non ha fatto nulla per aiutarlo.
Sharon ha continuato i suoi piani di «disimpegno» unilaterale, basati sul ritiro da Gaza e la conseguente espansione in Cisgiordania, cosa che ha comportato la creazione della cosiddetta «fascia di sicurezza», la requisizione dei territori palestinesi e l'espansione di insediamenti ed infrastrutture.
Rifiutandosi di negoziare con Abbas (che è favorevole ad una soluzione negoziale) ed impedendogli quindi di portare qualche beneficio ai palestinesi, la strategia di Sharon ha contribuito direttamente alla vittoria di Hamas nelle recenti consultazioni elettorali.


Con Hamas al potere Israele ha un'altra scusa per non negoziare.
L'Amministrazione USA ha sostenuto le politiche di Sharon (e quelle del suo successore, Ehud Olmert), e Bush ha perfino approvato l'annessione unilaterale da parte di Israele dei territori occupati, rovesciando la politica seguita da tutti i presidenti precedenti fin dai tempi di Lyndon Johnson.
L'Amministrazione americana ha debolmente criticato alcune politiche israeliane, ma nel contempo ha fatto veramente poco per agevolare la costituzione di uno Stato palestinese.
L'ex consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft ha addirittura dichiarato, nell'ottobre 2004, che Sharon «tiene Bush appeso al suo dito mignolo».
Se Bush prova a prendere le distanze da Israele, o solo si permette di criticare le azioni israeliane nei territori, certamente dovrà affrontare l'ira della lobby e dei suoi sostenitori al Congresso.
I candidati presidenziali democratici capiscono anch'essi come stanno le cose, ed infatti questo spiega come mai John Kerry abbia più volte ribadito il suo fermo supporto ad Israele nel 2004 e perché Hillary Clinton stia facendo lo stesso adesso.
Mantenere il sostegno USA alle politiche repressive di Israele nei confronti dei palestinesi è un obiettivo chiave della lobby, ma le sue ambizioni non si fermano qui.
Essa vuole anche che gli USA aiutino Israele a rimanere la potenza dominante nella regione.
Non sorprende infatti che il governo di Tel Aviv ed i gruppi pro-israeliani negli Stati Uniti abbiano lavorato molto insieme per condizionare la politica dell'Amministrazione Bush nei confronti dell'Iraq, della Siria e dell'Iran, nonché a favore del loro progetto di riordino del Medio Oriente.


ISRAELE E LA GUERRA IN IRAQ - Le pressioni di Israele e della lobby non furono il solo fattore che spinse gli Stati Uniti ad attaccare l'Iraq, ma furono un elemento fondamentale.
Alcuni americani ritengono si sia trattata di una «guerra per il petrolio», ma non c'è praticamente alcuna evidenza che supporti tale affermazione.
Invece la guerra fu motivata principalmente dal desiderio di rendere Israele più sicuro.
Secondo Philip Zeliknow, ex membro della President's Foreign Intelligence Advisory Board (2001-2003), direttore esecutivo della Commissione sull'11 settembre ed attualmente consigliere del Segretario di Stato Condoleezza Rice, la «minaccia reale» da parte dell'Iraq non era rivolta agli Stati Uniti.
La «minaccia non dichiarata» era nei confronti di Israele, disse Zelikow ad una conferenza presso l'Università della Virginia nel settembre 2002, notando inoltre che «il Governo americano non vuole darne troppa pubblicità, perché non è un argomento popolare».
Il 16 di agosto 2002, undici giorni prima che il vice presidente Dick Cheney desse inizio alla campagna a favore della guerra attraverso un duro discorso ai veterani, il Washington Post riportò che «Israele raccomanda agli Stati Uniti di non ritardare lo scontro militare contro l'Iraq di Saddam Hussein».
Da questo punto in poi, secondo Sharon, il coordinamento strategico tra Israele e gli USA è arrivato a «livelli mai raggiunti prima», e funzionari israeliani hanno fornito a Washington numerose ed allarmanti informative sui programmi irakeni per le armi di distruzione di massa.
Come disse un generale israeliano in pensione, «Israele è stato un partner fondamentale per i rapporti che l'intelligence americana e britannica ha presentato riguardo alle capacità irakene di dotarsi di armamenti non convenzionali».


I leader israeliani erano profondamente preoccupati quando il Presidente Bush decise di cercare l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per muovere guerra all'Iraq, e tale preoccupazione aumentò quando Saddam acconsentì al ritorno degli ispettori ONU in Iraq, dal momento che tali avvenimenti sembravano ridurre le possibilità di un intervento militare.
Il ministro degli Esteri Shimon Peres disse che «la campagna contro Saddam è una priorità. Le ispezioni e gli ispettori vanno bene per gente rispettabile, ma persone disoneste possono facilmente ostacolare le attività ispettive».
Alle stesso tempo, l'ex primo ministro Ehud Barak scrisse al New York Times avvertendo che «attualmente il maggiore rischio è non fare nulla».
Il suo predecessore, Benjamin Netanyahu, scrisse un articolo simile sul Wall Street Journal intitolato «I motivi per rovesciare Saddam».
Netanyahu scrisse che «al giorno d'oggi è necessario fare nulla di meno se non smantellare il regime», ed aggiunse «io credo di parlare per la stragrande maggioranza degli israeliani quando sostengo la necessità di un attacco preventivo contro il regime di Saddam».
Oppure come Ha'aretz riportò nel febbraio 2003: «i leader politici e militari israeliani vogliono fortemente la guerra in Iraq».
Ma come suggerisce Netanyahu, la volontà di muovere guerra non era confinata ai leader israeliani. Oltre al Kuwait, che Saddam aveva conquistato nel 1990, Israele era l'unico Paese al mondo in cui sia i politici che la gente erano entusiasticamente a favore dell'intervento.
Come il giornalista Gideon Levy osservò all'epoca, «Israele è il solo Paese occidentale i cui leader appoggiano la guerra senza riserve e non contemplano alcuna altra opzione».
Infatti gli israeliani erano così esaltati per tale guerra che i loro alleati americano dovettero dir loro di abbassare i toni, perché altrimenti l'intervento militare sarebbe sembrato una guerra fatta per Israele.


John Mearsheimer e Stephen Walt
(traduzione di Sebastiano Suraci)


(continua…)


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(esteri, terza puntata, 17/4/200)
(esteri, quarta puntata, 23/4/2006)
(esteri, quinta puntata, 29/4/2006)