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Senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire

di Andrea Zhok - 11/12/2025

Senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire

Fonte: Andrea Zhok

Nel documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy) appena pubblicato dall’amministrazione statunitense troviamo una dolorosa descrizione dell’attuale realtà europea. 
Vi troviamo scritto:
“L'Europa continentale ha perso quota nel PIL mondiale, passando dal 25% del 1990 al 14% di oggi, in parte a causa di normative nazionali e transnazionali che minano la creatività e l'operosità.
Ma questo declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più concreta della cancellazione della civiltà. I problemi più ampi che l'Europa si trova ad affrontare includono le attività dell'Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell'opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi.
Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra 20 anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato se alcuni paesi europei avranno economie e forze militari sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili. Molte di queste nazioni stanno attualmente raddoppiando il loro impegno in quella direzione.
(…) 
L'amministrazione Trump si trova in contrasto con i funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, radicati in governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia per reprimere l'opposizione. Un'ampia maggioranza europea desidera la pace, ma questo desiderio non si traduce in politica, in larga misura a causa del sovvertimento dei processi democratici da parte di quei governi.”
Ora, dare ragione all’amministrazione americana è spiacevole, spiacevole sia perché questa traiettoria europea è stata fino a tempi recentissimi supportata e alimentata dagli USA, sia perché sappiamo tutti che queste verità vengono dette non certo in buona coscienza e per amore della verità, ma solo perché al momento tornano utili alla prospettiva strategica americana. 
Ciò non toglie che siano verità, e vengono dette perché, in quanto verità, appaiono riconoscibili ai popoli europei.
La traiettoria europea che viene delineata nel documento parte, correttamente, dal 1990, cioè dalla svolta neoliberale che ha luogo con il Trattato di Maastricht e la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea. Al tempo quella svolta significava seguire gli USA nel loro percorso storico, come unica potenza mondiale rimasta dopo il crollo dell’URSS. Allora – come ora – ciò che caratterizza le classi dirigenti europee è la loro astrattezza. Se agli USA si può imputare frequentemente un brutale pragmatismo, l’Europa soffre invece di una congenita astrattezza (che, peraltro, può essere precisamente altrettanto brutale, ma senza essere pragmatica, senza esercitarsi ad analizzare e reagire alla realtà circostante).
Negli anni ’90 quell’astrattezza si espresse nella forma di un’adesione incondizionata all’idea del trionfo liberale sul modello comunista, trionfo che si traduceva in una metamorfosi del senso dello stato. 
Lo stato neoliberale non si voleva più né “stato sociale” come nella stagione ad economia mista del secondo dopoguerra, né “stato minimo” come nel liberalismo classico. Lo stato neoliberale si voleva interventista, ma non per interventi mossi da un’agenda sociale bensì con un’agenda dettata dall’ideale della “concorrenza perfetta”. Questo ideale microeconomico andava imposto a tutti i livelli, inclusi i monopoli naturali (ferrovie, forniture elettriche, ecc.) e inclusi i sistemi difficilmente privatizzabili (scuola, sanità, università). Là dove non si poteva senz’altro privatizzare, lì si inventavano sistemi di valutazione, di misurazione del prodotto, di competizione interna, di creazione di incentivi e disincentivi che mimavano i meccanismi di mercato.
Questo processo di snaturamento del settore pubblico, nel tentativo di assimilarne i meccanismi alla concorrenza privata è alla radice non solo della decadenza progressiva dell’istruzione pubblica e della sanità, dove le migliori risorse vengono spese in pseudocompetizioni e burocrazia, ma anche della frenesia normativa degli apparati europei. Qui il grande perdurante equivoco, sia per i detrattori che per i sostenitori, è che questo interventismo del centro amministrativo rappresenti un residuo socialista, mentre è neoliberalismo allo stato puro: infatti non è l’intervento centrale (stato, commissione europea) a fare la differenza, ma la sua agenda, i suoi intenti.
Con un esempio, avere una Banca Centrale Europa avrebbe potuto di principio essere un fattore compatibile col socialismo-comunismo, nel momento in cui la Banca Centrale avesse orientato la produzione di moneta e il suo indirizzamento a sostegno della piena occupazione, delle politiche di ricerca e sviluppo, di un consolidamento dell’industria pubblica; ma nel momento in cui l’agenda della BCE è dettata prioritariamente dal fine della stabilità della moneta, essa pone al centro dei propri interessi i detentori di capitale (oligarchie finanziarie in primis) e non i cittadini lavoratori.
La combinazione tra interventismo centrale e priorità degli interessi delle oligarchie finanziarie è catastrofica, è la peggiore delle combinazioni economico-politiche immaginabili. Essa unisce tendenze centrali al normativismo, alla sorveglianza, all’autoritarismo con la mancanza anarchica di un indirizzo politico, sostituito dall’interesse economico delle oligarchie. Questa combinazione è incomparabilmente peggiore dei sistemi dove l’autoritarismo si radica nel perseguimento di un interesse nazionale (es., Cina) ma anche di quelli dove la priorità dell’interesse economico individuale si abbina ad una cornice libertaria, anarcocapitalista (come gli USA).
Tutte le tendenze più catastrofiche degli ultimi trent’anni sono da ricondurre a questa devastante combinazione.
La distruzione delle identità collettive (nazionali, etniche, religiose, comunitarie, famigliari) è stata funzionale alla sostituzione della società tradizionale con un sistema di transazioni individuali, idealmente con un mercato universale. 
La cosiddetta “sostituzione etnica” non è mai stata pianificata, e tuttavia essa di fatto avviene come esternalità di un simultaneo processo di indebolimento delle identità interne e di un ricorso massivo a risorse lavorative a basso costo (migranti). L’opzione opposta, quella di aumentare salari, compattezza politica e potere contrattuale dei lavoratori autoctoni avrebbe rappresentato una riduzione percentuale della fetta di profitti per le oligarchie finanziarie, dunque non è stata presa in considerazione.
L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è andato di pari passo con una riduzione della loro capacità di consumo, e questo si è abbinato alla tendenza europea al mercantilismo, cioè a puntare tutte le proprie carte sulle esportazioni, su una bilancia commerciale favorevole. Ma questo naturalmente significa che, a fronte di qualunque sconvolgimento esterno, a qualunque turbativa dei meccanismi del commercio estero (crisi subprime, covid, guerre) l’Europa non è più in grado di compensare le carenze del mercato esterno ricorrendo al mercato interno. 
In un contesto dove solo l’interesse economico individuale viene santificato, il ceto politico ha iniziato ad essere rappresentato sempre più da mediocri arrivisti, da quaquaraquà, da gente priva di qualunque spina dorsale ideale e disposta ad ogni compromesso pur di arrivare. Ovviamente questo si è ripercosso in forma di un degrado complessivo della politica, in un collasso delle capacità autenticamente politiche, in un crollo della lungimiranza strategica, in un disfacimento di ogni qualità personale sostituita dalla fedeltà alla lobby di riferimento (e ogni riferimento a von der Leyen, Kallas, Merz, Starmer, Macron, ecc. è puramente casuale).
Alla fine ci ritroviamo nella situazione paradossale di aver preso un modello pragmatico di matrice americana come un’ideologia eterna, di averla coltivata e implementata con tipica astrattezza europea, di esserne caduti vittima, e di rimanere alla fine con il cerino in mano mentre gli stessi americani – come hanno fatto più volte nella storia – girano la nave di 180° perché ora è nel loro interesse fare così.
Impoveriti, invecchiati, senza futuro, senza identità, senza visione, marginali ma con la presunzione di essere ancora chi dà le carte.
Materialmente i margini per cambiare rotta ci sarebbero ancora, ma il muro di ottusità creato ad arte negli ultimi decenni - e consolidato nei luoghi strategici di formazione della pubblica opinione - non sembra essere prossimo a cedere, e senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire.