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Il giovane Nietzsche

di Francesco Moricca - 21/07/2010

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“Noi che oggi cerchiamo la conoscenza, noi atei e avversari della metafisica, pur noi attingiamo ancora il nostro fuoco all’incendio che una millenaria credenza ha infiammato, quella credenza cristiana che era anche credenza di Platone, la credenza che Dio sia la verità e che la verità sia divina… Ma che dire se anche questo si discredita di ora in ora, se ogni cosa cessa di rivelarsi divina, tranne l’errore, la cecità, la menzogna - e se anche Dio si rivelasse la nostra più durevole menzogna?”
Ecco uno di quei pensieri in cui Nietzsche esprime l’essenza della sua solitaria ricerca del vero, di quel vero che non rinnega la propria connotazione storica e perciò relativa, e però al tempo stesso la assolutizza opponendovi, con stridente contrasto, la constatazione della presente realtà effettuale, onde verità e menzogna trapassano l’una nell’altra e si mutano l’una nell’altra.
Il brano citato sottintende anche la vicenda del primo approccio di Nietzsche col dio cristiano, un approccio talmente intenso da indurlo a un certo punto della sua prima giovinezza perfino a prospettare l’eventualità di farsi pastore protestante come suo padre e suo nonno, e poi, in apparenza del tutto inopinatamente, ad abbandonare non solo il progetto ma la stessa fede degli avi votandosi a un anti-cristianesimo militante. Che l’istruzione, in specie quella classica, abbia determinato una simile metamorfosi, non è che mera occasione. Qualcosa di simile al “daimon” socratico dovette invece aver agito a monte di una tale scelta, in profondità e con la sicurezza inconscia che guida il sonnambulo sull’orlo del precipizio neutralizzando ogni senso di vertigine pur sussistente.
Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce nel 1844 a Roecken nell’Anhalt-Sassonia dal pastore luterano Karl Ludwig e da Franzisca Oehler. Ambedue i genitori erano figli di pastori luterani e il nonno paterno era stato Sovrintendente della Chiesa, una carica simile a quella di un vescovo cattolico. Sebbene il filosofo avrebbe sostenuto di discendere dalla nobile casata polacca dei Nietzsky rifugiatasi in Germania per sottrarsi alle persecuzioni dei cattolici, ricerche anagrafiche hanno appurato l’origine schiettamente tedesca e piccolo-borghese della sua famiglia, una famiglia di artigiani e commercianti al minuto che vivevano nel rispetto delle tradizioni proprie al feudalesimo tedesco, ispirato al pessimismo luterano e avverso a ogni sommovimento sociale (si rammenti che nel Cinquecento, all’epoca della grande rivolta contadina capeggiata da Munzer, Lutero si era apertamente schierato a favore dei grandi feudatari e benedetto le loro truppe prima della battaglia di Frankenhausen). Divenuti membri del clero, i Nietzsche, padre e figlio, avevano accentuato il conservatorismo della famiglia e non a caso il futuro filosofo era stato battezzato col nome del più tedesco dei sovrani di allora, Federico Guglielmo IV di Prussia.
L’infanzia del filosofo era trascorsa gioiosamente nelle campagne costellate dalle tante fattorie che sorgevano vicino a Roecken e nei territori circostanti Lipsia. Il padre era un uomo assai aperto e gioviale, molto caro alla comunità luterana che in lui percepiva un sincero amico e non tanto l’austero pastore protestante. Suonava il pianoforte discretamente, per allietare la famiglia propria e quella più grande dei suoi parrocchiani. Anche la madre era un’ottima persona, buona massaia e affettuosa coi figli: a Friedrich infatti seguiranno Elisabeth e Joseph. Tutto filava nella famigliola a meraviglia, nella stabilità delle antiche consuetudini e nella letizia che immancabilmente ne consegue.
Ma questa felicità edenica era destinata a svanire come tutte le cose belle. Scrive Nietzsche: “Nel settembre del 1848 il mio diletto padre all’improvviso si ammalò nella mente… Parecchi dottori tentarono di scoprire la natura del male, ma invano. Allora facemmo venire a Roecken il famoso dottore Opolcer, che allora risiedeva a Lipsia. Quest’uomo ammirevole seppe subito dove cercare la sede del male. Fra l’orrore di tutti noi diagnosticò un rammollimento cerebrale; sebbene il caso non fosse senza speranza, era certamente molto grave. Il mio caro padre dovette sopportare terribili dolori, ma la malattia non volle saperne di migliorare, anzi peggiorò di giorno in giorno… il 26 luglio sprofondò in un profondo torpore interrotto solo da brevi ritorni alla coscienza… Morì il 27 luglio 1849… O Dio! Ero diventato orfano di padre, e la mia cara mamma era diventata vedova!... Il 2 agosto la terra accolse nel suo seno i resti terreni del mio caro padre… La cerimonia cominciò all’una, accompagnata dai rintocchi delle campane. Oh, porterò sempre nelle orecchie il sordo fragore di quelle campane, non dimenticherò mai la triste melodia dell’inno ‘Jesu meine Zuversicht’ ” (da “Aus meinem Leben”).
Nei primi giorni dell’anno successivo anche il fratello Joseph passò a miglior vita e poco dopo quel che restava della famiglia dovette abbandonare la canonica per far luogo al nuovo pastore. I Nietzsche superstiti andarono ad abitare a Naumburg, una cittadina che sotto vari punti di vista ricordava l’ambiente di Roecken. A Naumburg Friedrich frequentò la prima elementare e si legò d’amicizia con Wilhelm Pinder e Gustav Krug. I tre amici furono poi sotto la guida di un istitutore privato che impartì loro le prime nozioni di latino e greco. Fra il 1854 e il 1858 frequentarono la locale scuola media superiore. Terminati gli studi, Friedrich, questa volta solo, lasciò Naumburg per iscriversi al prestigioso istituto di Pforta, in cui avevano studiato Klopstoch, Fiche e Ranke e a cui era stato ammesso per la sua preparazione nelle discipline classiche.
Fino a questo momento era cresciuto seguendo le sane usanze dei tempi felici di Roecken, dedicando il suo tempo allo studio, ai giochi, alle passeggiate, al nuoto. Aveva scritto anche delle poesie e la breve autobiografia “Aus meinem Leben”. Questo scritto è importante perché rivelatore del suo stato d’animo caratterizzato da un inflessibile senso del dovere, da un’adesione incondizionata alla fede tradizionale luterana e addirittura da una manifesta intenzione a proseguire la missione paterna. Scrive il Nostro: “Ho già fatto tante esperienze, gioia e dolore, cose liete e cose tristi, ma in ogni caso mi ha guidato a salvamento Dio come un padre guida a salvamento il suo gracile figlioletto. In cuor mio ho deciso di dedicarmi per sempre al Suo servizio”.
Nel collegio di Pforta la vita era organizzata secondo un rigido schema militare e in un primo tempo ciò riuscì insopportabile al giovane Nietzsche, abituato al morbido clima familiare e ad essere al centro delle attenzioni della madre e della sorella. Ma presto non solo si abituò agli usi spartani della scuola, ma vi aderì con tutta l’anima perché quel rigore era congeniale alla sua natura più profonda. Già allora si era imposto la massima di “superare se stesso”. Un giorno, ad esempio, durante un’escursione scoppiò un furioso temporale e tutti gli studenti corsero a cercare un riparo, tranne Nietsche che, incurante di quel finimondo, proseguì per la sua strada come se nulla fosse. Interrogato sulle ragioni del suo eccentrico comportamento, rispose che “non si addiceva alla gravità della scuola quello scompigliato scappare”.
  Era il migliore allievo in latino e greco, mediocre nelle altre materie e il peggiore in matematica, ma gli insegnanti lasciavano correre sulle sue deficienze perché l’indirizzo della scuola era essenzialmente classico. Lo studio di Omero, dei testi romani e delle saghe germaniche era ispirato a criteri scientifici. Non quello, però, delle Sacre Scritture. Esse restavano un libro a parte, da leggersi con gli occhi della fede piuttosto che con quelli della ragione; e ciò sebbene esistesse a Pforta un corso “critico” di teologia. Fino alla Pasqua del 1861, giorno in cui Nietzsche fu cresimato, egli restò attaccato al cristianesimo, saldamente radicato nella fede che era stata per suo padre ragione di vita, lo era stata per lui medesimo e continuava ad esserlo proprio per il fatto che il dubbio, insinuato nella sua mente dallo studio della filologia, può essere in un primo momento qualcosa che rinsalda la fede anzi che demolirla. Ma repentinamente, come accadde nel caso di tutte le illuminazioni, questa fede venne meno e si realizzò qualcosa di simile al vuoto pneumatico. Nella poesia “Senza casa” è detto: “Veloci cavalli mi portano, senza paura né sgomento, per luoghi lontani. E chiunque mi vede mi conosce, e chi mi conosce mi chiama: il signore senza casa…”. Al di là di una autoimposta e ostentata intrepidezza, vi è la vertigine del vuoto.
Il giovane Nietzsche, con quella lucidità spietata verso se stesso che poi caratterizzerà il pensatore maturo, scrive in “Fato e storia” che la perdita di Dio (s’intende del dio personale della religione positiva) implica “l’opera non di alcune settimane, ma di tutta una vita”. E ancora: “osare di avventurarsi nel mare del dubbio senza bussola né timoniere vuol dire morte e distruzione per cervelli non sviluppati; i più sono travolti dai fortunali, pochissimi scoprono nuove terre. Dal cuore di questo sterminato oceano di idee si desidera spesso tornare sulla terra ferma”.
Si desidera , ma non si torna. Non è tanto il “cervello sviluppato” che lo impedisce – di ciò il giovane Nietzsche non si rende sul momento conto -, ma il carattere, una determinazione sub-conscia che si rivela nella vertigine del vuoto e nel manifestarsi, per la prima volta, dell’io trascendentale che vuole liberarsi dalla dipendenza dal Padre spirituale prima ancora che da quella, affettiva, del padre naturale, che resterà pur sempre vivo nella memoria. In una lettera agli amici Pinder e Krug del 1862, sostiene di aver scoperto che “il cristianesimo è essenzialmente un fatto sentimentale”. Quanto al mistero dell’Incarnazione, esso viene interpretato, con un’intuizione che si muove già sicura nello spirito caratteristico del filosofo futuro, in ragione di una spinta verso la realizzazione del Logos nella realtà, incarnazione che però non presenta i caratteri negativi della Caduta descritta nei testi gnostici sia pagani che cristiani. Così, è detto nel saggio “Sull’infanzia dei popoli”, “il fatto che Dio si faccia uomo dimostra soltanto che l’uomo non deve cercare la sua beatitudine nell’eternità, ma trovare sulla terra il suo paradiso”.
Una simile affermazione non va intesa in termini materialistici, estetizzanti ed edonistici. Basti pensare quanto poco “piacere” Nietzsche ricercò nella vita e che la tragedia stava per addensarsi sul suo capo da lì a poco proprio a causa di ciò. Il “paradiso” cui egli allude nel passo citato è una condizione, difficilissima da conquistare, in cui l’io permanga integro di contro alle fluttuazioni del divenire. Il modello sono i filosofi pre-socratici che saranno argomento delle sue lezioni universitarie negli anni 1872-73. Per quanto riguarda Eraclito nella fattispecie, Nietzsche ribalterà la tesi hegeliana per la quale questi sarebbe stato l’inventore della “dialettica” quale struttura razionale della natura e della storia e “algebra della rivoluzione”. Per Nietzsche, al contrario, Eraclito andrebbe accostato a Schopenhauer e agli altri esponenti del relativismo gnoseologico, e dovrebbe esser riconosciuto come loro padre e primo rappresentante dell’irrazionalismo. In Eraclito Nietzsche proiettava se stesso e i caratteri essenziali della sua esperienza a Pforta: Eraclito è Teognide e al tempo stesso il giovane Nietzsche che scopre un nuovo iddio nell’atto stesso in cui rinnega il dio teistico e si abbandona all’ebbrezza dionisiaca.
A Pforta Nietzsche fa amicizia con Paul Deussen e gli fa conoscere la filosofia di Schopenhauer di cui Deussen diverrà un celebre continuatore. Terminati gli studi liceali con la dissertazione “Theognides Megarensis” (4 Settembre 1864), si reca assieme a lui a Bonn per iscriversi all’Università.
L’amicizia con Deussen rappresenta una novità rispetto alle amicizie del passato, caratterizzate tutte da una certa distanza e prive di quel cameratismo che può instaurarsi fra persone profondamente affini nello spirito. In Deussen Nietzsche scopre il lato positivo dei rapporti umani fra pari e può liberarsi momentaneamente di una solitudine ricercata eppure avvertita come un letto di Procuste che lo stava soffocando e che sarà il terribile destino della sua vita conclusasi nell’orribile isolamento della follia. Grazie al benefico influsso dell’amico, si concede anche la frequentazione dell’allegro mondo goliardico e si iscrive all’associazione studentesca “Frankonia”, per poter bere con i colleghi ed eventualmente esibire come loro una cicatrice sul volto riportata in duello. Ma queste esperienze lo disgusteranno presto e in esse vedrà un’ennesima manifestazione dell’intollerabile “filisteismo tedesco”, bersaglio poi degli attacchi durissimi della parte conclusiva di “Ecce homo”, che comporrà nel 1888, l’anno prima del crollo psichico. A Bonn scrive i brevi saggi “Sull’infanzia dei popoli” e “Fato e Storia”, che invia a Krug e Pinder coi quali nel 1860 aveva fondato il sodalizio culturale “Germania” “allo scopo di organizzare in modo solido e impegnativo le nostre inclinazioni produttive nell’arte e nella letteratura”. Per la scuola di Naumburg compone alcuni saggi sulla mitologia norvegese e sulla saga di Ermenrico, su Hoelderlin e su Byron. In quest’ultimo saggio egli mette in risalto il carattere deviante ed eccezionale del poeta inglese e ne loda la coerenza fra l’opera e la vita. Il saggio viene ufficialmente approvato, ma l’autore è messo in guardia nei confronti di un autore così eccentrico e “poco tedesco”.
Un giorno il giovane Nietzsche si reca, da solo, a Colonia per visitare i monumenti artistici della città e si lascia trascinare da un lenone in un postribolo. Scrive a Deussen: “All’improvviso mi vidi circondato da una mezza dozzina di apparizioni in veli e lamé, che mi guardavano in attesa; rimasi per un attimo senza parola: poi mi diressi istintivamente a un pianoforte che si trovava nella stanza come all’unica cosa vivente in quella compagnia e suonai parecchi accordi. Essi ruppero il silenzio e allora corsi via”.
E’ una confessione degna di nota per la sua agghiacciante crudezza e perché rivela nel giovane Nietzsche non già la timidezza dello sprovveduto neofita, quanto piuttosto lo sconcerto di uno spirito superiore a fronte di una laida umanità paludata nella divisa volgarmente seducente delle prostitute.
Ma non è da loro che egli in realtà fugge inorridito, ma da se stesso, che si sente attratto nella stessa misura in cui nauseato. E’ l’oscura seduzione del male, non già inteso nei termini del moralismo cristiano, ma come mercimonio e contraffazione dell’eros nella sua purità naturale. Questo male chiama violenza, vuole che il soggetto usi violenza su se stesso, in un amplesso che deve essere non violento con il partner, in una situazione clinicamente indefinibile perché qui il masochismo non si accompagna al sadismo ma agisce allo stato puro.
Sta di fatto che il giovane Nietzsche ritorna più di una volta nel postribolo di Colonia e vi contrae la sifilide. Nei registri professionali di due medici è documentato che egli fu due volte curato per una infezione luetica nel 1867, quando aveva ventitrè anni (cfr. J. Delhomme, “Nietzsche”, Sansoni, p.17). Che abbia contratto il male a Messina, come risulta da un’altra fonte da me considerata in un precedente articolo, è dunque impossibile, perché a Messina Nietzsche fu nel 1882, poco prima di incontrare a Roma Lou Salomé, colei che spegnerà per sempre il romantico sogno d’amore del Superuomo. E ne subirà la violenza, soltanto verbale ma certo non per questo irrilevante per il suo tono esasperato, quando sarà stigmatizzata dal Nostro come “scimmia sterile, sporca, puzzolente e dal cuore falso” (“Lettera a Georg Rée, fratello di Paul, dell’estate 1883). Circa la teoria secondo cui le faccende private e le pratiche sessuali degli uomini siano insindacabili a patto che non turbino l’ordine nella società ovvero intacchino la religione tradizionale, è da dire che detta teoria è accettabile nei limiti che essa medesima stabilisce inderogabilmente. Sta bene dunque, in linea di principio, che un giovane filosofo decida di contrarre la sifilide per motivi che concernono la sua ricerca. Sta bene, altresì, che per lo stesso motivo si pratichi un “menage à trois” come quello relativo al terzetto Salomé-Nietzsche-Rée, che, pare, sarebbe stato solo “platonico”. E però in un ambito rigorosamente ristretto e per così dire iniziatico, fra soggetti di pari caratura spirituale. La Salomé, non era, però, dello stesso stampo dei suoi partner. Era una russa con tutti i caratteri propri all’ “anima slava” e per giunta con fisime femministe che non sfuggirono a Nietzsche e che egli condannò con le parole di fuoco poco sopra riferite. Nietzsche e Rée, tuttavia, generosamente assecondarono il femminismo della loro compagna: lo dimostra l’atteggiamento in cui sono ritratti assieme alla Salomé in una fotografia scattata al tempo felice del loro sodalizio e pubblicata nel volume citato di J.Delhomme.
La questione del giudizio sull’intera vicenda privata di Nietzsche, va tuttavia inquadrata in una prospettiva che consideri il presente (con riferimento ai coevi casi personali dei “poeti maledetti” francesi e all’affermazione del movimento femminista) e, contemporaneamente, il futuro (con riferimento alla diffusione di massa di comportamenti che nel secolo XIX interessavano solo la ristretta cerchia degli intellettuali e frange altolocate della società, non costituendo turbativa dell’ordine sociale).
Il significato della tragedia di cui fu protagonista Nietzsche e il cui prologo è da ricercarsi nella sua giovinezza, è nel senso della nota formula “Al di là del bene e del male”. Questo significato è racchiuso nel passo seguente tratto da “Così parlò Zarathustra”.
“Zarathustra ha visto molte terre e molti popoli: così ha scoperto il bene e il male di molti popoli. Zarathustra non ha trovato sulla terra potenza maggiore del bene e del male… Una tavola dei valori pende su ogni popolo... Ciò che chiama difficile chiama anche lodevole; ciò che stima indispensabile e difficile chiama buono; e ciò che libera dall’estremo bisogno, il raro, il più difficile di tutto, lo celebra come santo. Tutto ciò che lo mette in grado di dominare, vincere e brillare, fra la paura e l’invidia dei suoi vicini, ciò stima la cosa più sublime, la suprema, la misura e il senso di tutte le cose”.
La parola ricorrente è qui “difficile”: difficile e assolutamente non alla portata di tutti è il bene. Per converso, il male è facile e alla portata di tutti. Il sommo male non è tuttavia “Satana”; è rendere facile ciò che è difficile, ciò a cui appunto mira la morale del gregge. Così Nietzsche ristabilisce, su un piano diverso dal tradizionale, la discriminante fra il bene e il male. E’ qui la “trasmutazione dei valori”, trasmutazione che avviene comunque sul piano della religiosità a meno che non si voglia considerare Nietzsche un semplice seguace di Feuerbach.
In “Ecce homo” il concetto si chiarisce così: “Zarathustra, il primo psicologo dei buoni è – di conseguenza – un amico dei cattivi. Se il tipo d’uomo della ‘décadence’ si è elevato al rango della specie più alta, questo è potuto accadere solo a spese del suo tipo contrario, del tipo d’uomo forte e sicuro della vita”. Nietzsche aveva detto tuttavia, poco prima, che proprio Zarathustra aveva tradotto la “morale in termini metafisici”, nei termini religiosi della lotta fra il principio del Bene (Ahura Mazda) e del Male (Arimane). E però la sua mistificazione filosofico-religiosa la aveva svelata: “La cosa più importante è che Zarathustra è più sincero di qualsiasi pensatore. La sua dottrina ed essa sola vede nella veracità la virtù più alta”. Il che è “il contrario della ‘vigliaccheria’ dell’ ‘idealista’, che si mette in fuga davanti alla realtà; Zarathustra ha più arditezza nel sangue che tutti i pensatori presi insieme…
L’autosuperamento per la veracità, della morale, l’autosuperamento del moralista nel suo contrario – in me – questo significa sulla mia bocca il nome di Zarathustra”. D’altronde, “chi ha creduto di avere compreso qualcosa di me si è costruito, usando me, qualcosa a sua immagine, - non di rado un mio opposto… In definitiva nessuno può trarre dalle cose, compresi i libri, più di quanto già non sappia. Per ciò di cui non si ha esperienza, non si hanno orecchie”.