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Bisogna finire, bisogna cominciare. (Oltre la destra e la sinistra) I parte

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 28/07/2010

(riceviamo e volentieri pubblichiamo. ndr)

Premessa.
Questo saggio è diviso in due parti. Nella prima parte, riprendendo e aggiornando analisi da noi svolte in lavori precedenti , sosteniamo l’esaurimento di senso politico della coppia concettuale destra/sinistra. Con questo non intendiamo dire che non esistano più destra e sinistra, ma piuttosto che tali realtà non hanno più il significato che hanno avuto fino a trent’anni fa, e che, in particolare, la sinistra non è più il luogo sociale e politico degli ideali di emancipazione, eguaglianza, giustizia sociale. Nella seconda parte mostriamo come questa nuova situazione non implichi la fine della lotta per un mondo più umano, ma implichi piuttosto che questa lotta va svolta secondo nuove idee e nuove linee di demarcazione.

PRIMA PARTE. FINIRE LA STORIA DELLA SINISTRA E DELLA DESTRA
1.Cercando una definizione.
Una discussione sull’attualità politica delle nozioni di sinistra e destra deve naturalmente partire da una definizione di cosa si intenda per sinistra e per destra. In mancanza di una tale definizione, il dibattito si blocca subito perché ognuno attribuisce a queste espressioni significati diversi. Quando si cerca di definire cosa si intenda per sinistra o per destra la mossa più comune è quella di cercare un insieme di valori, di riferimenti ideali, di principi morali, che possano fungere da criteri di distinzione: le proposte possono allora essere molte, per esempio di caratterizzare la sinistra con l’ideale dell’uguaglianza  e la destra con quello della gerarchia, o la sinistra con l’ideale della democrazia radicale e la destra con quello dell’autorità politica. E’ probabile che una buona sintesi di queste proposte consista nel caratterizzare la sinistra con l’ideale dell’emancipazione dei ceti subalterni, o più in generale dei gruppi sociali oppressi e discriminati, e la destra con l’ideale di una società autoritaria in cui viene mantenuta una struttura gerarchica “naturale” e “giusta”.
Questo approccio ci sembra però troppo generico. Limitiamoci a spiegarlo in riferimento alla sinistra. Quando la sinistra è definita nel modo sopra indicato, viene a perdere le sue determinazioni storiche. E’ noto che si parla di sinistra e di destra a partire dalla Rivoluzione Francese: la coppia concettuale sinistra/destra nasce cioè con la modernità. Ma se si parla dei riferimenti ideali citati in precedenza, appare chiaro che essi si possono ritrovare nei più diversi periodi storici e nei più diversi contesti. Definire la sinistra nel modo detto equivale allora a creare una Sinistra Eterna, staccata dalle dinamiche storiche e politiche, con conseguenze paradossali: diventa infatti naturale, all’interno di questa impostazione, pensare che dovunque si possano ritrovare in qualche modo gli ideali accennati sopra, si possa parlare di sinistra, e diventano quindi ragionevoli affermazioni del tutto assurde sul piano storico, come definire Gesù o Spartaco “di sinistra”. Oltre a ciò, la definizione di un luogo politico nei termini dei suoi fini ideali non tiene conto del fatto che in politica i mezzi sono più stabili e concreti dei fini. Il comunismo novecentesco, per fare un esempio, lo si comprende realmente se si mette al centro della riflessione non il generico e maldefinito fine che si prefiggeva (il comunismo), ma piuttosto il mezzo che esso si diede, cioè il partito leninista.
Per capire cosa la sinistra è stata fino ad una trentina di anni fa occorre allora prendere in considerazione un’altra nozione tradizionalmente associata alla sinistra stessa, quella di progresso. Ma cosa vuol dire progresso? Il progresso è sempre progresso di qualcosa. Se definissimo l’identità ideale trascorsa della sinistra come “emancipazione e progresso”,  il progresso sarebbe progresso dell’emancipazione, cioè passaggio da una situazione di minore emancipazione ad una di maggiore emancipazione. Lo stesso potremmo dire se definissimo l’identità ideale trascorsa della sinistra come “eguaglianza e progresso” o come “giustizia e progresso”. Queste banali osservazioni ci suggeriscono che il progresso non è un “fine ideale” come l'emancipazione o l'eguaglianza, non ha cioè valore autonomo, non è un fine perseguito come tale. Esso è piuttosto una prospettiva storica di realizzazione di fini ideali. E’ in sostanza il mezzo (in un senso molto ampio della parola “mezzo”) attraverso cui la sinistra ha pensato di realizzare i propri fini.
L’adesione al progresso può però essere intesa in molti modi diversi, ad esempio come la fede che il movimento storico porterà sicuramente alla vittoria di certi ideali, o la convinzione (legata alla precedente) che ogni novità storica in quanto tale sia positiva. Ci sembra di poter affermare che la sinistra si è definita scegliendo una accezione particolare di questa nozione non ben definita: la sinistra si è affermata ed ha avuto grande rilevanza nei due secoli della sua storia declinando la nozione di “progresso” come sviluppo economico e tecnologico. Possiamo allora stringere e affermare che la sinistra è la parte politica e culturale che negli ultimi due secoli ha pensato la realizzazione degli ideali di emancipazione dei ceti subalterni attraverso la prospettiva storica dello sviluppo economico e tecnologico. E’ evidente che da questa caratterizzazione della sinistra, se accettata, discendono conseguenze importanti per il dibattito.

2. Ascesa e caduta della sinistra emancipativa.
Nei due secoli della storia della sinistra questa particolare fusione dei fini ideali sopra indicati con la prospettiva storica del progresso, declinato come sviluppo sociale ed economico, è stata realmente efficace. E’ stato cioè possibile ottenere significativi progressi nella realizzazione degli ideali della sinistra grazie allo sviluppo stesso. Il punto culminante di questo successo storico della sinistra è rappresentato dal secondo dopoguerra, dal “trentennio dorato” della fase storica “keynesiano-fordista” del capitalismo occidentale. In questa fase l’accentuato ritmo dello sviluppo economico ha fornito le basi per una politica riformista che ha realmente migliorato la situazione materiale dei ceti subalterni nei paesi occidentali. Si tratta della fase di massima influenza della sinistra. L’indice più chiaro di questa influenza è il fatto che, in un certo senso, l’intero arco delle forze politiche di governo dei paesi occidentali si è mosso allora sul piano delle politiche riformiste della sinistra. Quando andavano al potere, le forze politiche di destra o di centro-destra non potevano cambiare radicalmente le politiche di tipo socialriformista, ma al massimo rallentarle o modularle diversamente.
Tutto questo finisce, come si è accennato, alla fine del “trentennio dorato”, cioè in sostanza con la crisi economica degli anni Settanta del Novecento. Gli anni Settanta sono gli anni del passaggio dal capitalismo “keynesiano-fordista” al capitalismo attuale, che è usuale (anche se un po’ impreciso) chiamare capitalismo “neoliberista” e “globalizzato”. Su tale passaggio essite ormai una vasta letteratura, che lo ha indagato a fondo. Per chiarirne la natura, cominciamo col richiamare alcuni aspetti della fase “keynesiano-fordista” del capitalismo. Si tratta di una forma di manifestazione storica del capitalismo, nella quale la produzione standardizzata di beni di consumo rivolta alle masse trova un mercato grazie alle politiche riformiste che trasferiscono ai ceti subalterni, in forme dirette e indirette, parte dei proventi degli aumenti di produttività originati dalla nuova organizzazione del lavoro. Questo meccanismo economico è alla base delle conquiste effettive, in termini di diritti e redditi, che i ceti subalterni ottengono in questa fase. Il punto cruciale sta nel fatto che l’aumento effettivo del reddito dei lavoratori è per il capitale, all’interno della forma fordista, insieme obbligato e vantaggioso. Vediamone prima la necessità obbligante: la grande fabbrica fordista presenta una rigidità organizzativa interna (tipicamente rappresentata dalla catena di montaggio) che la rende vulnerabile ad ogni forma di lotta, anche minoritaria, dei suoi dipendenti, e questo implica la necessità, per il capitale, di un buon grado di motivazione da parte dei lavoratori. Poiché il lavoro alla catena di montaggio è altamente alienante, la motivazione a compierlo può essere soltanto di tipo salariale, ed infatti Henry Ford, l’industriale americano da cui viene la denominazione di fordismo per il sistema produttivo di un’epoca, dopo aver introdotto nel 1909 la catena di montaggio per la produzione dell’automobile, ed aver subito a partire dal 1910 abbandoni e sabotaggi da parte dei suoi operai, nel 1913 ne aumentò la paga in maniera notevolissima, da 2 a 5 dollari al giorno.
L’aumento dei salari è inoltre vantaggioso per il capitale fordista, che vi investe profitti all’epoca privi di sbocchi per l’accumulazione, ottenendone una domanda di massa per i prodotti di cui la catena di montaggio ha aumentato la scala di produzione.
Questo meccanismo, diffusosi negli Stati Uniti ed in Germania negli anni Trenta, in Giappone, Francia ed Italia negli anni Cinquanta, entra in crisi negli anni Settanta, perché da una parte la tendenziale piena occupazione origina un forte potere contrattuale del lavoro dipendente, che può quindi strappare aumenti salariali e altre concessioni che finiscono per erodere i profitti, dall’altra i mercati dei beni standardizzati di massa vengono alla fine saturati, per cui gli aumenti salariali accrescono i costi della fabbrica fordista senza più la contropartita di un aumento della domanda dei suoi prodotti.
La risposta del capitale alla crisi degli anni Settanta segna l’inizio della fase attuale del capitalismo. Il potere contrattuale dei lavoratori viene distrutto da manovre politiche (come la stretta monetaria della FED di Paul Volcker del ’79, intenzionalmente concepita per creare disoccupazione , o gli attacchi ai sindacati operati da Reagan e dalla Thatcher), e da manovre economiche (delocalizzazioni, automazione produttiva, concorrenza della manodopera immigrata priva di diritti). Alla saturazione dei mercati si risponde da una parte con la produzione di merci rivolte a nicchie più ristrette, la cui lavorazione richiede una sempre maggiore flessibilità dei lavoratori, e che sono caratterizzate da costi minori in termini di lavoro e sempre maggiori in termini di ricerca, pubblicità, corruzione; dall’altra, in proporzione crescente, con lo spostamento del capitale dalla produzione alla finanza. Tale spostamento viene incoraggiato dalla creazione di sempre più sofisticati strumenti finanziari, resi necessari per proteggere gli stessi investimenti produttivi volti all’esportazione dalle oscillazioni dei cambi tra le monete, cambi divenuti variabili dopo il 1971, e dal fatto che il credito al consumo diviene uno dei modi per prevenire i rischi di una carenza di domanda. La finanziarizzazione del capitale crea lo spazio di investimento entro il quale soltanto una parte via via crescente di plusvalore può essere accumulata, nella forma del capitale fittizio (nel senso marxiano del termine), cioè attraverso il ciclo denaro-denaro anziché denaro-merce-denaro.
In questa situazione la sinistra riformista non ha più nessuno spazio. Non sono più possibili politiche dei redditi che trasferiscano ai lavoratori (direttamente con aumenti salariali o indirettamente con i servizi del Welfare State) parte dei profitti in modo compatibile con l’accumulazione capitalistica. Non è più possibile una politica di tendenziale piena occupazione perché questa ridarebbe alla classe operaia un potere contrattuale incompatibile con la forma attuale di accumulazione del capitale. In mancanza di una prospettiva di superamento del capitalismo, la sinistra non ha nessuno strumento per contrastare la distruzione delle conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase precedente.
A questa difficoltà oggettiva la sinistra ha aggiunto, in tutti o quasi i paesi occidentali e nella larga maggioranza delle sue componenti, una complicità soggettiva: non solo essa non fa nulla per contrastare tali processi, ma diventa una forza che attivamente li persegue. Questa complicità ha ovviamente assunto forme diverse nei vari paesi. In Italia l’anno cruciale in cui si determina è il 1993. E’ noto come il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia della Regina d’Inghilterra abbia raccolto un nutrito gruppo di banchieri anglosassoni e di personaggi del mondo politico ed economico italiano per progettare, sotto l’impulso e la direzione dei primi, la privatizzazione dell’economia pubblica italiana. Tale privatizzazione viene avviata l’anno successivo prima dal governo Amato, e poi dal governo Ciampi che gli succede. Il passaggio essenziale compiuto dai governi Amato e Ciampi è consistito, più che in specifiche privatizzazioni, nell’approntare la struttura giuridica necessaria alle privatizzazioni stesse, che avranno uno sviluppo imponente tra il dicembre 1993, quando viene ceduto ad un pool di banche italiane e straniere, ad un prezzo di svendita, il Credito Italiano, ed il maggio 1999, quando dal tronco delle Ferrovie dello Stato nascono Trenitalia e RFI. L’anno cruciale è il 1997, quando, sotto il governo Prodi, vengono privatizzate la Società Autostrade, Finmeccanica, e soprattutto STET e SIP, fuse in Telecom. Si tratta di un’immane trasformazione, di un mutamento epocale, che ha l’effetto di distruggere tutti quegli strumenti dell’intervento pubblico nell’economia con i quali la sinistra aveva svolto nei decenni precedenti la sua politica emancipativa. Tutto questo avviene con il sostanziale assenso della sinistra: il PDS si astiene sul governo Ciampi e, soprattutto, né il PDS né Rifondazione Comunista discutono, nel 1993, l’avvio del grande ciclo di privatizzazione dell’economia pubblica italiana e non mobilitano il loro popolo e i loro intellettuali riguardo ad una questione fondamentale come questa.
Questo silenzio ha una sola spiegazione, per la quale non abbiamo prove definitive, ma che ci sembra l’unico scenario ragionevole: vi è stato fra il ‘92 e il ‘93 una trattativa nella quale i dirigenti dell’ex-PCI hanno concesso ai poteri forti dell’economia la loro inerzia silenziosa di fronte all’avvio del ciclo delle privatizzazioni, ottenendo in cambio quella legittimazione a partecipare al governo del paese che non avevano a causa del loro passato legame con l’Unione Sovietica e il comunismo internazionale.
Ricordiamo che il governo Ciampi aveva al momento della sua formazione tre ministri provenienti dalla sinistra, immediatamente dimessisi soltanto per vicende legate alle inchieste di Mani Pulite. La sinistra è poi entrata in forze nel governo nel 1996, dopo la vittoria elettorale di Prodi, scelto da D’Alema come capo della coalizione di centro-sinistra non, come allora si disse, in quanto ex-democristiano, ma in quanto uomo della Goldman Sachs, in grado di farsi garante per una sinistra di governo presso i poteri forti dell’economia.
La fase delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta rappresenta il passaggio dell’Italia dal capitalismo “keynesiano-fordista” all’attuale capitalismo “neoliberista-globalizzato” e, parallelamente, anche la compiuta e definitiva trasformazione della sinistra italiana in una forza de-emancipativa, trasformazione che culmina con l’aggressione alla Jugoslavia del ’99, attuata da un governo di centrosinistra con a capo Massimo D’Alema.

3. Esaurimento storico della sinistra emancipativa.
Riassumiamo quanto fin qui argomentato: la sinistra è stata storicamente caratterizzata dall’unione di un ideale di emancipazione dei ceti subalterni con la nozione di progresso storico declinato come sviluppo economico e tecnologico. Questa fusione è stata storicamente efficace per un’epoca intera, culminata nel “trentennio dorato” del secondo dopoguerra, ma è stata poi messa in crisi dal passaggio dal capitalismo “keynesiano-fordista” all’attuale capitalismo “neoliberista-globalizzato”. Il passaggio dal capitalismo “fordista” a quello attuale è infatti un passaggio attraverso il quale la società va in direzione esattamente opposta a quella dei tradizionali ideali emancipativi della sinistra: il lavoro perde diritti, aumentano le disuguaglianze sociali, gli elementi di democrazia sostanziale mediati dal sistema del Welfare State (pensioni, istruzione per tutti, assistenza sanitaria per tutti) vengono erosi, i ceti subalterni vengono a poco a poco ricacciati in una condizione di insicurezza materiale. Ma questo passaggio è, contemporaneamente, un passaggio ad una nuova forma di sviluppo economico. La forma attuale del capitalismo è la risposta alla crisi economica degli anni Settanta, cioè ad un blocco dello sviluppo economico, ed è una risposta che fa ripartire lo sviluppo economico stesso. Lo fa ad un livello minore che nella fase precedente: nei paesi occidentali i tassi di sviluppo del Pil negli ultimi trent’anni sono mediamente inferiori, anche di molto, ai tassi di sviluppo del dopoguerra. Ma anche se il tasso di sviluppo è minore, si tratta pur sempre di sviluppo. Il capitalismo “neoliberista-globalizzato” è la risposta ad una crisi dello sviluppo che salva lo sviluppo nell’unica forma storicamente possibile nella situazione creatasi negli anni Settanta. Ma se è vero che la sinistra si è storicamente fatta definire dalla fusione di emancipazione e sviluppo, in una situazione storica nella quale lo sviluppo è de-emancipatorio, la sinistra semplicemente non può più esistere nella sua forma storica tradizionale. Emancipazione e sviluppo sono i due binari sui quali il treno della sinistra ha viaggiato per tutta una fase storica. A partire dagli anni Settanta, questi due binari si sono divaricati e sono andati in direzioni opposte: il treno non poteva che deragliare, e in tali condizioni l’unica scelta razionale, per i viaggiatori sopravvissuti, è quella di abbandonare il treno e continuare il viaggio in altro modo e su altri mezzi. La fine della sinistra emancipativa non è quindi, se non in modo derivato, un risultato degli errori politici, della pochezza intellettuale e morale, dei tradimenti dei ceti dirigenti della sinistra stessa. Tutto questo vi è stato, ma sulla base di un esaurimento storico dell’identità fondamentale della sinistra stessa. Di fronte a questo esaurimento storico i ceti dirigenti della sinistra si sono trovati a dover scegliere fra difesa degli ideali di emancipazione da una parte e sviluppo dall’altra, e in questo frangente hanno mostrato tutta la loro pochezza intellettuale e morale. La complicità soggettiva alla de-emancipazione, alla quale abbiamo accennato alla fine del precedente paragrafo, è stata cioè resa possibile dalla situazione di esaurimento storico delle ragioni fondative della sinistra emancipativa.

4. La sinistra emancipativa non può ricominciare.
Alla nostra tesi della fine della sinistra tradizionalmente esistita, argomentata nel paragrafo precedente, si potrebbe obiettare come segue: quella attuale non è una fine ma una eclissi. Il fatto che nell’attuale fase storica non sia possibile quella fusione di ideali emancipativi e sviluppo economico che ha caratterizzato la sinistra, non implica che essa non possa tornare ad essere possibile in futuro.
Cerchiamo allora di discutere questa obiezione e partiamo dall’elemento di verità che essa contiene: le società capitalistiche hanno talvolta conosciuto, in una certa fase storica, il ripresentarsi di alcune caratteristiche economiche e sociali presenti in fasi storiche precedenti e poi scomparse. Per esempio, molti studiosi hanno notato come il periodo storico di fine Ottocento-inizio Novecento presenti fenomeni che per molti aspetti richiamano quella che oggi viene chiamata “globalizzazione”, aspetti che scompariranno nella fase storica che inizia con la prima guerra mondiale per ricomparire appunto nel mondo contemporaneo . Allo stesso modo, si potrebbe pensare in astratto alla possibilità di una fase futura del capitalismo nella quale si ripresentino gli aspetti tipici del capitalismo “keynesiano-fordista”, riaprendo quindi lo spazio per una sinistra emancipativa.
A questa obiezione si possono dare due risposte. In primo luogo, non si scorgono tracce di questa eventuale futura nuova fase del capitalismo, e quindi dal punto di vista dell’azione politica, e di una riflessione orientata a dare indicazioni all’azione politica, si tratta di obiezioni oziose. L’attuale fase capitalistica è quella nella quale una sinistra emancipativa non può esistere, e questa è la fase nella quale vivranno sia gli autori sia gli attuali  lettori di queste righe. In secondo luogo, occorre ricordare che se è vero il ripetersi “ciclico” di certi aspetti delle società capitalistiche, questi aspetti si inseriscono comunque in una realtà che ciclica non è ma presenta aspetti irriducibili al passato. Per quanto concerne la nostra attuale discussione, l’aspetto di novità irriducibile ai precedenti andamenti ciclici del modo di produzione capitalistico è rappresentato dal problema ambientale. Una nuova fase di capitalismo “riformista” avrebbe infatti bisogno di un nuovo ciclo di prodotti con nuovi investimenti e nuovi profitti. La fase “fordista” merita questo nome proprio perché l’automobile è il migliore esempio di un prodotto di questo tipo. L’automobile è un bene non troppo costoso, così da poter diventare un bene di consumo di massa, ma sufficientemente costoso da generare, su una larga scala di produzione, alti profitti, e soprattutto è un bene che porta con sé una mole massiccia di investimenti correlati: strade, autostrade, parcheggi, campi di estrazione di petrolio, raffinerie, navi petroliere, porti. Gli investimenti creano occupazione, l’occupazione fornisce salari ai lavoratori che possono spenderli per l’acquisto delle automobili e dell’intera gamma dei beni di consumo di massa prodotti dalle industrie fordiste. L’intera vita economica dei paesi occidentali è stata modellata dal bene-simbolo dell’automobile. Ora, attualmente non è visibile nessun bene che possa rimpiazzare l’automobile in questo ruolo, ma soprattutto, ed è questo il punto decisivo, non è pensabile un ciclo di investimenti paragonabile a quello legato all’automobile, perché esso avrebbe effetti devastanti sui già precari equilibri ecologici del pianeta. Il rilancio, attualmente non all’orizzonte, di un capitalismo “socialdemocratico-riformista” permetterebbe forse di recuperare ciò che i ceti subalterni hanno perso nella fase attuale in termini di reddito monetario, ma in un contesto di collasso ambientale di cui sarebbero ovviamente i ceti subalterni a fare le spese.
Anche in questo caso sarebbe dunque impossibile difendere i ceti subalterni attraverso lo sviluppo. Non si vede quindi nessuna possibilità di recupero di un ruolo emancipatorio per la sinistra.

5. Un esempio.
Facciamo un esempio concreto di questa impossibilità per la sinistra di rappresentare oggi il luogo di una politica emancipatoria e di difesa dei ceti subalterni. E’ un esempio tratto dalla cronaca recente , ma che riveste un valore che va oltre la cronaca. Si tratta della vicenda dell’impianto FIAT di Pomigliano d’Arco. La vicenda, come è noto, consiste nel fatto che la direzione della FIAT ha chiesto ai sindacati e ai lavoratori di accettare nuove e durissime condizioni contrattuali (relative, fra l’altro, all’organizzazione del lavoro, al diritto di sciopero, al diritto alla retribuzione in caso di malattia), con la minaccia, in caso di rifiuto, di chiudere lo stabilimento trasferendo la produzione negli impianti FIAT situati in paesi stranieri. Si tratta di un caso paradigmatico di attacco ad alcuni valori storici della sinistra: la difesa del lavoro, l’estensione di diritti sociali universali. Tale attacco avviene inoltre in un contesto di crisi economica e in riferimento proprio ai lavoratori della FIAT, cioè ad una realtà operaia che ha sempre costituito in Italia uno degli indici dai quali comprendere le tendenze nei rapporti di forza fra le classi: tutti questi elementi portano facilmente ad argomentare che la vicenda di Pomigliano, oltre a rappresentare un arretramento dei diritti per i cinquemila lavoratori coinvolti, sia solo l’inizio di una fase di ulteriori attacchi ai diritti e ai redditi degli operai e, in generale, dei ceti subalterni.
Di fronte a questioni di tale portata, cosa ha da dire la sinistra? Non vogliamo presentare l’arco di tutte le posizioni espresse, ma solo offrire alcuni esempi paradigmatici, presi dalla stampa, che mostrano come, all’interno delle categorie della sinistra, sia in sostanza impossibile dare una risposta effettiva a simili problemi.
Iniziamo con una intervista di Veltroni sul Corriere della Sera . Veltroni dice l'essenziale del suo pensiero nella prima frase dell’intervista: “Questo accordo mi sembra inevitabile”. Il resto dell’intervista rappresenta un commento a questa affermazione, o un accumulo di frasi retoriche e vuote. Non vogliamo qui insistere su questa retorica, ci preme solo far capire ai lettori due punti.
In primo luogo, questa “inevitabilità” di cui parla Veltroni implica l’accettazione della perdita di diritti dei ceti subalterni. In cambio di questa perdita Veltroni non ha altro da offrire che frasi vuote (in quanto slegate da qualsiasi seria proposta di politica economica) come “fare delle infrastrutture materiali e conoscitive e della rivoluzione ambientale i motori di una nuova stagione di crescita italiana”, oppure il riconoscimento che “si parla di operai che stanno in catena di montaggio, che si vedono ridotto di dieci minuti il tempo di pausa, di persone di cui viene misurato lo spostamento del bacino per valutare la produttività”: distruzione dei diritti in cambio di parole, questo è tutto ciò che Veltroni sa prospettare ai lavoratori di Pomigliano (e agli altri).
In secondo luogo, questa sostanziale accettazione della deriva de-emancipatoria del capitalismo contemporaneo non è solo conseguenza degli evidenti limiti morali e intellettuali di Veltroni, ma è radicata in quelle caratteristiche della sinistra che abbiamo fin qui esaminato, cioè nel fatto che la nozione di “sviluppo” è per essa fondativa e irrinunciabile, come appare chiaro da tutta l’intervista . Si tratta esattamente del meccanismo che abbiamo sopra esposto in astratto: la scissione fra sviluppo ed emancipazione implica che i ceti dirigenti della sinistra devono scegliere fra sostenere lo sviluppo o sostenere l’emancipazione. Chi sostiene lo sviluppo deve allora sostenere politiche de-emancipatorie, anche se questo è in contraddizione con gli ideali storici della sinistra. Veltroni rappresenta nella forma più chiara uno dei possibili esiti del nodo problematico nel quale si è trovata la sinistra. In questo personaggio si vede con la massima chiarezza come il progressismo della sinistra, privato ormai di ogni rapporto con gli  ideali di emancipazione, si riduca a culto acritico del progresso e dell’innovazione. Il progresso, che prima era un mezzo per realizzare il fine dell’emancipazione, una volta tolto tale fine dall’orizzonte, scade a innovazione e contemporaneamente diventa esso stesso un fine in sé. Se in futuro esisterà ancora una sinistra sarà appunto come sinistra dello sviluppo, dell’innovazione e del cambiamento perseguiti come valori in sé, come fini a se stessi. Per i motivi che abbiamo spiegato, una tale sinistra sarà nemica dei lavoratori e dei ceti subalterni, e dovrà essere combattuta con la massima durezza da chi voglia ancora ispirarsi agli ideali di emancipazione che furono della sinistra storica.
Esaminiamo adesso un articolo di Claudio Mezzanzanica . Siamo qui, in un certo senso, all’estremo opposto rispetto a Veltroni. Mezzanzanica non accetta infatti come inevitabile la distruzione dei diritti dei lavoratori, e propone misure per combattere il carattere de-emancipatorio dell’attuale organizzazione economica e sociale. Ma le sue proposte sono comunque interne all’orizzonte dello sviluppo e sono quindi sconfitte in partenza. Le sue proposte sono le seguenti: da una parte redistribuzione del reddito per sostenere la domanda, (cioè un approccio tipico della fase fordista ), dall’altra il coinvolgimento dei lavoratori per migliorare la qualità del prodotto. Ma le politiche di redistribuzione del reddito a sostegno della domanda non sono più possibili per i motivi che abbiamo sopra esposto, e questa impossibilità ha un’evidenza solare proprio nel caso in questione, quello dell’automobile: è ben noto che nei paesi avanzati vi è un enorme sovrappiù di capacità produttiva di automobili rispetto alla domanda. Se si aumentassero i redditi dei ceti subalterni, tale aumento non si riverserebbe nell’acquisto di automobili. Lo stesso discorso vale per la proposta di coinvolgimento dei lavoratori (fino all’autogestione) per migliorare la qualità del prodotto: anche migliorato, si tratta di un prodotto che non può più avere il mercato che aveva cinquant’anni fa.
Nel caso di Mezzanzanica siamo di fronte ad una sinistra che non vuole rinunciare ai propri ideali storici di emancipazione, ma, rimanendo interna all’orizzonte dello sviluppo, non riesce a enunciare un percorso credibile di difesa dei diritti dei lavoratori .
Esaminiamo infine un articolo di Eugenio Scalfari . Per Scalfari, come per Veltroni, l’accettazione da parte dei lavoratori delle condizioni imposte dalla FIAT è inevitabile, ma egli, a differenza di Veltroni, fa qualche proposta più concreta di aiuto ai lavoratori stessi. Dice infatti Scalfari che i lavoratori, e in generale i ceti subalterni, che devono subire condizioni sempre più dure sul lavoro, devono essere risarciti su altri piani “sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie” e “compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza”. Questa compensazione può essere finanziata tramite un “maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti”.
La proposta di Scalfari sembrerebbe far quadrare il cerchio: da una parte egli accetta lo sviluppo e i suoi costi per i ceti subalterni, dall’altra sembra salvare gli ideali storici della sinistra nel proporre una serie di “compensazioni” finanziate dal maggior prelievo fiscale sui ceti dominanti. Ma si tratta di un’illusione. Le “compensazioni” di Scalfari non potranno mai essere finanziate. L’attuale capitalismo “neoliberista-globalizzato” non può accettare la tassazione a fini “sociali” per le stesse ragioni per le quali non può accettare i diritti dei lavoratori, perché in entrambi i casi si tratta di un costo aggiuntivo all’interno di una spietata competizione mondiale. Il passaggio fra capitale industriale e capitale finanziario è un passaggio che si svolge continuamente, ed è una necessità all’interno dell’attuale forma del capitalismo. Lo sviluppo, non potendosi svolgere compiutamente tramite la produzione, ha bisogno di avere sempre a disposizione la possibilità del passaggio della finanza, per ritornare eventualmente alla produzione quando conveniente. Colpire rendite e patrimoni significa colpire questi meccanismi e quindi la forma stessa dello sviluppo capitalistico nella fase attuale. Se si accetta come inevitabile lo scenario dell’attuale capitalismo “neoliberista-globalizzato” e del suo sviluppo, e questo è il caso di Scalfari, le “compensazioni” che egli propone sono in realtà illusorie.
Questo esame di alcune posizioni concrete sostenute in riferimento a un problema concreto come quello di Pomigliano ci sembra confermino la nostra tesi generale: non è più possibile la difesa degli ideali storici della sinistra all’interno della logica dello sviluppo.

6. Intermezzo: sinistra riformista e sinistra comunista.
Come appare evidente dal tipo di argomentazioni da noi sviluppate, quando parliamo di “sinistra” in riferimento ai paesi occidentali e al Novecento, pensiamo soprattutto a quella sinistra che, comunque si sia denominata, ha perseguito politiche di tipo riformista e socialdemocratico. Si tratta di una realtà politica che ha segnato la storia del Novecento, e che per questo va presa in seria considerazione. La sinistra comunista, per quel tanto che nei paesi occidentali ha avuto rilevanza storica, dal punto di vista che qui ci interessa non presenta grandi differenze rispetto alla sinistra socialdemocratica: dove hanno avuto un peso significativo (per esempio in Italia o in Francia) i partiti comunisti hanno svolto una politica interna nella sostanza indistinguibile da quella riformista, mentre l’unica differenza rilevante era il sostegno all’Unione Sovietica nella politica estera. Restano fuori da questo quadro solo gli infiniti e microscopici gruppi della sinistra rivoluzionaria (trotskisti, bordighisti, maoisti eccetera). Si tratta di realtà che dagli anni Venti in poi non hanno mai avuto alcun peso nei paesi occidentali, non hanno mai inciso sulla realtà, e non vale quindi la pena di parlarne sul piano storico .

7. E la destra?
Un’altra possibile obiezione alla nostra tesi di partenza è la seguente: voi dichiarate la fine dell’opposizione destra/sinistra, ma finora avete parlato solo della sinistra. Non se ne potrebbe ricavare che quella che è finita è la sinistra, mentre la destra ha ancora un ruolo storico? Per rispondere a questa domanda dobbiamo riprendere la questione dello sviluppo, e il punto cruciale qui è se la destra sia estranea oppure no all’ideologia dello sviluppo. Ora, a noi sembra che questa estraneità sia vera solo per la destra reazionaria contemporanea alla Rivoluzione Francese o poco successiva ad essa. Se escludiamo il ritorno all’Ancien Régime dall’ambito delle opzioni politiche oggi praticabili, vediamo che le varie destre sono anch’esse interne all’ideologia dello sviluppo. La destra liberale si differenzia dalla sinistra perché vuole lo sviluppo economico all’interno di una società gerarchica e disegualitaria, ma ne ha bisogno proprio perché lo sviluppo rende possibile concedere qualcosa alle classi popolari in termini materiali, impedendo quindi che la lotta di tali classi possa trasformarsi in rivoluzione. La destra antiliberale e reazionaria del Novecento assorbe a suo modo la retorica del futuro e dell’uomo nuovo tipica della sinistra e si crea una ideologia nella quale convivono nostalgie reazionarie e sogni ipertecnologici. In un modo o nell’altro, quindi, anche la destra accetta sostanzialmente lo sviluppo. La differenza sta nel fatto che la sinistra cerca di conciliare lo sviluppo con i propri ideali emancipativi, mentre la destra cerca di conciliarlo con la difesa di alcuni valori della propria tradizione. Ma come lo “sviluppo reale” finisce per rivolgersi contro gli ideali della sinistra, allo stesso modo distrugge gli ideali della destra. L’impegno personale, il lavoro, l’onestà, il senso di responsabilità verso la comunità vengono ridicolizzati da un capitalismo privo di radici e nel quale il denaro, in qualsiasi modo raggiunto, è l’unico metro di valutazione. La morale familiare e sessuale tradizionale è spazzata via, l’idea di nazione lentamente cancellata da varie forme di potere sopranazionale. Sembra dunque, ad un rapido esame, che la posizione storica e culturale della destra sia resa obsoleta, dagli attuali sviluppi, non diversamente da quella della sinistra.