No, caro fratello oscuro, toro amatissimo, noi che ti vogliamo bene davvero non permetteremo che ti trasformino in una razza in via d‘estinzione, produttrice di carne esotica, da allevare e uccidere silenziosamente, senza offrirti neppure un momento di gloria e di divertimento. Senza darti la chance di calpestarci per qualche stradina mediterranea, o di incornarci, se non saremo noi i più svelti a ficcarti una banderilla nel fianco.
Forse è vero, come ha detto la scrittrice di gialli Alicia Gimenez, che noi siamo “gente che socialmente non ha molto da fare. Gente di destra, all’antica. Oggi la sinistra è anticorrida”. Sarà anche come dice questa signora dabbene, ma noi ti amiamo. Proprio perché, al contrario della signora e gli altri animalisti, non pensiamo affatto di essere animali.
Siamo uomini, fatti a immagine e somiglianza di Dio, con un Io pensante, e cosciente (anche se loro scrivono che la coscienza noi non l’abbiamo, siamo al di sotto, dalla parte “delle cose più degradanti”, come ha detto José Rull, partito nazionalista catalano).
Ed è proprio perché uomini, diversi da te, dalla tua oscurità misteriosa, che ti amiamo; come si ama il diverso, che rappresenta parti tue ma è altro da te, lontano. Anche quando con un guizzo improvviso raggiunge il matador e lo incorna.
Invece questa storia della messa fuori legge della corrida, come tutte le ideine chiare e pulite delle brave persone impegnate, allontana irrimediabilmente dall’uomo proprio te, che non sei né chiaro né pulito, ma oscuro, ami nuotare nel fango e dormire sugli sterpi; e proprio per questo sei indispensabile più che mai all’omino postmoderno, con i suoi saponcini e i suoi shampi, e la sua viltà endemica, che lo spinge a farsela sotto per qualsiasi cosa banale.
Cosa sarebbe stato di me se non t’avessi adocchiato ancora adolescente, nero animale della palude?
Alla mattina ci si svegliava all’alba, con gli altri vostri amanti (ragazzi dalle occhiaie viola, uomini segnati da cicatrici diverse) e si partiva a cercarvi, nell’acqua fangosa del marais, forzando i cavalli (senza azzopparli) a buttarsi dalla terra ferma, giù, un paio di metri sotto. Poi, tra fango e acqua, era tutto un annusarsi reciproco, noi a lasciarci attirare dal vostro magnetismo animale, voi a uscire dai vostri nascondigli, e noi a galopparvi intorno, impugnando forconi mai davvero usati, per radunarvi.
Alla fine uscivate, e noi dietro e intorno, a spingervi all’arena del paese, dove per una settimana sareste stati gli eroi.
I ragazzi vi avrebbero rincorso di giorno, per vedere chi era più bravo a strapparvi la coccarda dalle corna; gli uomini vi avrebbero cavalcato, gareggiando a chi resisteva più a lungo. E la sera i cavalieri migliori si sarebbero sfidati per vedere chi era più rapido a togliervi dal collo la ghirlanda dei fiori palustri seccati, in una prova che si ripete dal Medio Evo.
Erano riti di destrezza, tenacia, equilibrio e coraggio, utili a diventare uomini. Poi alla fine della settimana: la “mise a mort”.
Il più veloce, agile, onorato di voi tori incontrava l’uomo, e il suo cavallo. Se il cavaliere riusciva ad ucciderlo, nel numero di assalti consentiti (pochi), l’animale veniva preparato, si allestiva la brace sulla spiaggia, e poi lo si cuoceva allo spiedo, mangiandolo di notte, col plenilunio.
Mai animale fu più amato, e rispettato, di quei tori divorati lentamente, nel silenzio rotto dalle onde del mare.
Certo la corrida è diversa, più fanfarona, più pesante, più squilibrata a sfavore del toro, però è sempre questo: “l’uomo che guarda, si confronta, e infine sacrifica il suo lato selvaggio, per accedere a una piena umanità”, così pensava Jung, che non scriveva romanzi gialli, ma scrutava e curava l’inconscio.
Può vivere l’uomo, ed in particolare il maschio, senza incontrare, rincorrere, ferire e lasciarsi ferire, dal toro, e poi sacrificarlo? Non credo.
Malgrado sinistra e animalisti, la nostra amicizia, toro carissimo, durerà ancora a lungo.