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Il deserto è il non luogo dove ciascuno è messo a nudo con se stesso

di Francesco Lamendola - 02/08/2010

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«A ciascuno la sua notte», diceva il grande scrittore cattolico francese Julien Green; parafrasandolo, potremmo anche dire: «A ciascuno il suo deserto»: perché in nessun altro luogo, o meglio non luogo, si manifesta altrettanto nuda, aspra, spietata, la propria verità interiore.
Nel deserto non è possibile indossare la maschera: quel che si è, viene fuori, immancabilmente, impietosamente: perché in esso manca qualsiasi occasione di nascondimento e di finzione, qualsiasi appiglio per travestirsi con i panni di un altro.
Nel deserto, in assenza di qualunque elemento accessorio, si incontra la propria anima e si precipita al fondo di essa: per trovarvi, a seconda dei casi, l’Inferno o il Paradiso; ma in nessun caso è dato di barare, di protrarre la finzione.
E il deserto per eccellenza è il Sahara; Sahara che, nella lingua dell’antico e fiero popolo del Maghreb, significa, appunto, «nulla»; ma è un nulla che vuol dire, in realtà, «tutto»: un po’ come il concetto del Nirvana, dipende da che lato lo si considera.
Il mistico francese Charles de Foucauld (1858-1916), il poeta di Dio che si rivela dove ogni altra cosa scompare, e che morì assassinato dai Tuareg, nel deserto del Sahara incontrò l’estasi e la bellezza infinita del Creatore.
La scrittrice e viaggiatrice russa Isabelle Eberhardt (1877-1904), meno di una generazione dopo, negli stessi luoghi trovò l’incanto della libertà, ma anche una precoce autodistruzione. Quando una fiumana improvvisa la travolse, all’età di soli ventisette anni, aveva ormai perso i denti, la salute e la pace; non era più che un triste rudere ambulante.
Questi due personaggi, così diversi fra loro, ma anche così simili, rappresentano i due volti della “belle époque” e, più in generale, i due volti della tarda modernità; e non è facile dividerli con un taglio netto, perché tendono continuamente a sovrapporsi e a confondersi: la struggente ricerca dell’assoluto e la brama di vivere che coincide con l’autodistruzione.
Per trovarli riuniti in una sola persona, bisogna guardare alla vita di Vincent Van Gogh (1853-1890), che, non a caso, appartiene al medesimo scorcio del XIX secolo: l’epoca in cui le orgogliose certezze positiviste raggiungono il culmine e, contemporaneamente, iniziano a declinare, mentre si fanno avanti, per reazione, le filosofie della crisi, la letteratura decadentistica e l’arte delle avanguardie.
Ma torniamo a Isabelle Eberhardt, soggetto quanto mai interessante (di Charles de Foucauld parleremo un’altra volta), anche perché così inconfondibilmente russa e, al tempo stesso, così inconfondibilmente cosmopolita - era nata a Ginevra da un generale russo, ma il nuovo compagno della madre era un pope spretato e anarchico, seguace di Tolstoj e amico di Bakunin . La sua vicenda somiglia terribilmente, non nei dati biografici ma nel temperamento e nello smisurato egocentrismo, a quella di un’altra giovane russa, la pittrice Maria Baskirceva (1860-84), altra anima fiammeggiante che si spegne ad appena ventiquattro anni, divorata dalla tubercolosi e dall’imperiosa ambizione di affermarsi come artista.
«Partire è la più bella e coraggiosa di tutte le azioni. Una gioia egoistica forse, ma una gioia, per colui che sa dare valore alla libertà. Essere soli, senza bisogni, sconosciuti, stranieri e tuttavia sentirsi a casa ovunque, e partire alla conquista del mondo…». Sono parole di Isabelle Eberhardt e testimoniano un intenso bisogno di fuga verso il nulla: come il suo adorato fratello Augustin, che era corso ad arruolarsi nella Legione Straniera.
Lo scrittore svedese Sven Lindqvist (nato a Stoccolma il 28 aprile 1932) ne ha tracciato un ritratto folgorante ed a suo modo esemplare, in un capitolo del suo libro «Nei deserti» (titolo originale: «Ökendykarna», 1990 traduzione italiana di Carmen Giorgetti Cima, Milano, Tea, 2002, pp. 91-104, passim):

«A vent’anni si reca con sua madre in Algeria, dove entrambe si convertono all’Islam. La madre muore e viene seppellita ad Annaba.
Quando isabelle ha ventun anni, suo fratello Vladimir si suicida.
A ventidue anni, intenzionalmente o no, somministra al padre che sta morendo di cancro l’overdose di sedativo che mette termine alla sua vita.
Adesso è sola al mondo. Il pro giorno del 1900, scrive nel suo diario:
“Essere nomade nel gran deserto della vita ove io non sarò mai altro che una straniera: questa è l’unica forma d felicità, ancorché amara, che il destino mi regalerà mai. […]
“Da dove mi viene questo desiderio morboso di terra sterile e di arida desolazione?” si domanda Isabelle Eberhardt.”
Michel Vieuchange s’inoltrò nel deserto travestito da donna. Isabelle Eberhardt si inoltra nel deserto travestita da uomo.
Per lei non si tratta solo di un travestimento. La lingua francese svela senza possibilità di scampo se lo scrivente si considera uomo oppure donna. Anche nel suo diario, Isabelle usa il genere maschile quando parla di sé. […]
Vestita di abiti maschili arabi, se ne va nel deserto. È il momento che ha atteso tutta la vita. Cavalca fra le oasi con alcuni cavalieri indigeni, con un gruppo di legionari, con una carovana chaamba, con un nero che sta tornando al suo villaggio per divorziare. E scrive:
“Adesso sono un nomade senza altra patria che l’Islam, senza famiglia, senza amici intimi, solo, per sempre solo nella solitudine oscura, , orgogliosa, dolcissima del mio cuore.”
Presto trova un uno dei suoi amanti arabi un vero confidente. Slimene Ehni è caporale della cavalleria autoctona. Lei lo incontra a El Oued e per suo tramite entra a far parte di una confraternita sufista che in segreto si oppone alla dominazione francese.
Un’altra confraternita araba che è più vicina ai francesi cerca di ucciderla.  Una corda da bucato attutisce il colpo e le salva la vita.
L’esercito francese la espelle e lei finisce a Marsiglia, dove per un certo periodo si mantiene scrivendo lettere in arabo per i lavoratori temporanei.
Slimene la raggiunge in Francia e il 17 ottobre 1901 si sposano. Attraverso il matrimonio con un arabo al servizio dei francesi, diventa cittadina francese e può fare ritorno nel Sahara.
Prende in affitto con Slimene una piccola casa ad Ain Sefraq, che è il quartier generale delle truppe francesi durante la “pacificazione” del confine del Marocco.
Anche come signora Ehni va in goro0 in abiti maschili e continua la sua vita androgina intorno ai fuochi del bivacco e nei bordelli per soldati.  Solo il ruolo maschile le dà la libertà di viaggiare a cavallo per quel Sahara che l‘esercito francese sta conquistando, come reporter del giornale “L’Akhbar”. Solo il ruolo maschile le dà la libertà di fare l’amore con chi le pare, di bere anisetta con i legionari e di fumare il kif nei caffè, dove sbalordisce gli avventori con le sue spiegazioni sul fascino della brutalità e sul piacere della sottomissione. […]
Pierre Loti visse con ilo suo istinto di morte fino all’età di 73 anni. Isabelle Eberhardt arrivò solo fino a 27. Allora era già senza denti, senza seni,  senza mestruazioni, magra come un pulitore di pozzi, quasi sempre depressa. “se questo viaggio nelle tenebre non si conclude, dove mas mi condurrà?”
La vita che viveva era un lento suicidio. Sempre più spesso si rifugiava nelle droghe,  nell’alcol e in una sessualità brutale e autodistruttiva con chiunque le capitasse. Soffriva di una quantità di malattie, fra cui la malaria e probabilmente la sifilide. […]
“La felicità non la si cerca”, scrive. “la si incontra, viaggia sempre nella direzione opposta.”
Ci sono parecchie espressioni brillanti di questo genere nella sua opera. Non è la media che conta. Sono gli apici.
Non è la quantità che conta, è la globalità. E di essa non fa parte soltanto il linguaggio ma anche il linguaggi del corpo. Il gesto.
Isabelle si vestì di abiti maschili e si tuffò nel pozzo de mondo arabo sahariano. […]
Oltrepassò non soltanto un confine sociale, ma anche il confine razziale. Una donna bianca del sud degli Stati Uniti che preferisce apertamente i neri come amanti e che si sposa con uno di loro mentre continua la sua vita sregolata: ecco, a immaginare questo si capisce quali forze fossero quelle che Isabelle sfidava.
Il dominio francese sul’Africa settentrionale in fin dei conti si basava sul mito della superiorità della razza bianca. L’intero suo modo di vivere metteva in discussione quel mito.
Come pure metteva in discussione il mito della superiorità maschile. Se una donna travestita poteva infiltrarsi nel mondo maschile e appropriarsi delle sue libertà, dei suoi vizi e dei suoi privilegi, allora i ruoli sessuali traballavano. Un’identità sessuale incerta destava angoscia e aggressività. Isabelle si poneva al di fuori di tutte le categorie.
Anche questo le si sarebbe forse potuto perdonare, dal momento che il su destino confermò tuti i preconcetti, provando in maniera esemplare che chi si ribella alle convenzioni finisce per sprofondare nella feccia. Fin qui, tutto bene. Ma Isabelle ebbe la sfrontatezza di conservare anche in pieno decadimento un senso di superiorità morale. Era fiera. E questo era imperdonabile.
Sotto questo aspetto, isabelle appartiene a una razza completamente diversa da Loti. Ella si inserisce in quella linea della letteratura francese che va da Villon via Baudelaire e Rimbaud a Céline e Genet. Forse è addirittura l’unica donna di questa compagnia.»

Ma il paragone con Jack London ci sembra inappropriato e fuorviante.
Più che il travestimento-inchiesta di Jack London, l’avventura africana di Isabelle Eberhardt, che si consuma nel breve spazio di neppure quattro anni, somiglia molto di più alla discesa all’Inferno di Arthur Rimbaud.
Come Rimbaud, ella ha voluto farsi angelo della distruzione e scendere giù, sempre più giù, nella via della degradazione: la sua insaziabile promiscuità sessuale, la sua ubriachezza, ad esempio, non si capisce bene come possano conciliarsi con una sincera conversione all’Islam, e tanto più da parte di una donna.
Anche l’inserimento della Eberhardt in una improbabile linea della letteratura francese che sarebbe contraddistinta dalla fierezza nella diversità, non convince del tutto; o meglio, convince a patto di non farne una bandiera, di non trasformarla in un mito. Questo è ciò che ella voleva fare di se stessa, forse perché oscuramente intuiva che era l’unico modo con cui avrebbe potuto giungere alla celebrità letteraria.
In questo senso, la si potrebbe accostare senz’altro a un’altra scrittrice vagabonda e sessualmente ambigua: Annemarie Schwarzenbach (1908-1942), svizzera di Zurigo, di cui tratta Melania G. Mazzucco nella sua biografia romanzata «Lei così amata». Solo che la Schwarzenbach era apertamente lesbica, mentre la Eberhardt combatteva le sue pulsioni (e nevrosi) omosessuali in uno sfrenato dongiovannismo al femminile. Ma entrambe tiravano avanti  drogandosi abbondantemente; segno che la vita, in fondo, era per esse intollerabile.
Storicamente, Isabelle Eberhardt appartiene a quella “generazione infelice” che visse prima e durante la grande Guerra Civile europea del 1914-1945 e che brancolava nel buio, fra eccessi estetizzanti e maledettismi alla Lord Byron da un lato, cattive rimasticature di Zarathustra e superomismi nietzschiani dall’altra.
Il tutto in chiave di esotismo e di esaltazione delle culture lontane, forse non tanto per autentico amore verso di esse, quanto per un oscuro malessere verso la civiltà occidentale. Ci era già passato Paul Gauguin (1848-1903), transfuga dalla Francia in Polinesia; ci passerà poi l’artista olandese Jan Poortenaar (1886-1958), nell’incanto dell’isola di Bali.
Una generazione immersa nella confusione più totale; una generazione che merita rispetto, anche, per quanto ha sofferto: ma che non è certo il caso di esaltare come bandiera di conquistata libertà morale.
Il deserto non mente.
Chi non vi trova altro che degradazione e autodistruzione, vuol dire che vi si è sprofondato in cerca non di se stesso, e meno ancora della verità; ma, semplicemente, dell’oblio.
Il deserto, allora, diventa una metafora di quello straniamento e di quella disperazione cronica che caratterizzano l’uomo della tarda modernità, tradito dalle promesse della scienza positivista e incapace di orientarsi nel generale collasso delle certezze e dei valori.
Il deserto è la Terra Desolata di Thomas Stearns Eliot: un paesaggio allucinante che non è solamente fisico, ma soprattutto interiore: simile all’Inferno dantesco, perché in esso si consuma la rottura irreversibile dell’uomo con la propria creaturalità e, in ultima analisi, con il mondo in cui vive.
In questa Terra Desolata, chi non entra con umiltà e con stupore, finisce per trovare solo le amare estasi e le atroci voluttà di cui parla Baudelaire; ma nemmeno un pallido raggio di luce lunare giunge a riscattarlo dall’angoscia del proprio male di vivere.