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Bocciato

di Francesco Lamendola - 08/09/2010



Bocciato.
Una parola secca, sonora, tagliente come una lama; una sentenza inappellabile, che è quasi un marchio d’infamia, certo un segno tangibile di umiliazione.
Essere bocciato, infatti, non significa soltanto venir giudicato inidoneo a un diploma, a una abilitazione, a una promozione; ma anche vedersi retrocesso nella terra di nessuno, dalla quale si deve ripartire da zero.
E non vale solo per la scuola; né solo per i giovani, i quali, avendo tanta vita davanti - o tanta speranza di vita, il che è lo stesso - hanno pure tanta capacità di resurrezione dopo ogni scacco e dopo ogni caduta.
No, vale anche per la vita in generale: sempre e dovunque, sino alla fine.
«Gli esami non finiscono mai», dice Guglielmo Speranza (il cognome è altamente significativo), protagonista della commedia scritta e interpretata da Eduardo De Filippo quale metafora della vita intera, pirandellianamente soffocata in un cerchi stregato di “sì” che ci vengono estorti dalle circostanze, quando vorremmo invece gridare altrettanti “no”.
Nel quadro di Michele Cammarano, il pittore napoletano di fine Ottocento divenuto famoso soprattutto per le sue rievocazioni storiche («La carica dei bersaglieri alle mura di Roma», 1871; «La battaglia di Dogali», 1888), intitolato «Lo studente Bocciato», è colta con finezza la psicologia della sconfitta e dell’umiliazione.
Anche se con toni leggermente enfatici (il difetto caratteristico di questo artista che si ispirò al realismo sociale), il pittore ha concentrato la desolazione dello studente bocciato nello sguardo spento, apatico, quasi incredulo che si fissa nel vuoto, rimuginando le fasi del proprio insuccesso e, forse, anticipando la sorpresa e la delusione dei genitori non ricchi - lo si deduce dalla povertà della stanzetta -, dei fratelli, dei conoscenti e degli amici.
A quel tempo, studiare all’università era un privilegio di pochi e, fra essi, non mancavano quelli che erano stati spinti avanti dagli immensi sacrifici della famiglia e sulle cui spalle, quindi, poggiavano le aspettative di tutti, persino la responsabilità delle bocche da sfamare; il povero Giovanni Pascoli ne sapeva qualcosa.
Inconcepibile, quindi, farsi bocciare, visto che a scuola non si andava per scaldare la sedia, ma per riscattare se stessi e i propri parenti dall’incubo di un durissimo lavoro manuale mal retribuito, se non proprio dalla fame vera e propria: eppure l’irreparabile è accaduto, la bocciatura è arrivata, ed ora non restano che rimorsi ed amari rimproveri da fare a se stesso.
Certo per gli studenti di oggi non è una tale tragedia, anzi vorremmo quasi dire che è pane quotidiano; e ciò nonostante che la scuola odierna sia infinitamente più leggera, infinitamente più benevola, infinitamente più comprensiva della scuola di un tempo. Né ci sono, di norma, famiglie che restano senza risorse per la bocciatura di un figlio; anche perché, nel mondo d’oggi, un diploma o una laurea non garantiscono affatto l’accesso al mondo del lavoro, anche se ne sono una precondizione non secondaria.
Tuttavia, lo sgomento e la frustrazione restano: è pur sempre un cartellino rosso che la vita, forse per la prima volta, presenta a quei ragazzi che avevano preso le cose con un po’ troppa spensieratezza, con un po’ troppa superficialità.
Ebbene, a quei ragazzi, a quel ragazzo o a quella ragazza, vorremmo dire due parole in questi giorni di settembre che preludono all’inizio di un nuovo anno scolastico; due parole non di rimprovero, ma di incoraggiamento e di fede.
Dunque, sei stato bocciato: questo è il fatto.
Vorresti almanaccare, non ti dai pace: se quel professore lì, se quella professoressa là…; se quel compito, se quella interrogazione… Tutti questi pensieri non servono; non serve fare confronti con i compagni più fortunati, non serve parlare di ingiustizie (anche se possono esservi state, come no: chi potrebbe affermare a priori il contrario?).
Rivangare quello che è stato non serve a nulla; e la rabbia che provi adesso è inutile, così come è inutile il senso di colpa, se non è accompagnato da buoni propositi.
Forse, questa è proprio l’occasione che la vita ti sta offrendo per compiere un salto di qualità, per salire di un gradino sulla via della maturazione. Finché le cose vanno bene, difficilmente s’impara qualcosa: le verità più importanti, la vita ce le insegna quando qualcosa incomincia ad andare per il verso sbagliato.
Non lo sapevi? Non te l’avevano mai detto?
Quello che ti è capitato ora è un campanello d’allarme, ma può essere anche l’inizio di una conquistata consapevolezza: davi troppe cose per scontate.
Non che il tuo valore, come persona, si esaurisca nel giudizio che è stato dato di te come studente; niente affatto. Si può essere i primi della classe e laurearsi a pieni voti, e tuttavia non valere nulla come esseri umani; e questo non solo nell’ambito della scuola, ma anche fuori di essa. Non ne scaturisce, però, la legge contraria: che essere i peggiori come studenti significhi essere i migliori dal punto di vista umano.
Se sei stato pigro, rimprovera te stesso. Se non hai voluto impegnare i talenti che avevi ricevuto in dono, primo fra tutti l’intelligenza, dai la colpa a te e a nessun altro. Se a metterti in difficoltà sono stati problemi di natura personale, allora le cose stanno diversamente; bisognerebbe vedere ogni caso in modo esauriente, perché non ve ne sono due identici.
Pure, che senso ha istituire un tribunale per giudicare meriti e colpe?
Nella vita è esattamente la stessa cosa. Quando si fallisce in qualche cosa d’importante, è indice di pochezza d’animo sprecare le migliori energie per recriminare, per protestare, per prendersela con qualcuno o con qualcosa. Bisogna chiedersi cosa non ha funzionato in noi, perché il mondo non è perfetto, e gli altri possono certamente venire meno al loro compito; ma, soprattutto, bisogna ripartire con animo limpido e rasserenato.
Il che vuol dire che bisogna imparare a guardarsi dentro, senza troppa indulgenza, ma anche senza cadere nell’eccesso opposto, quello di esagerare le nostre responsabilità. Non c’è errore a cui non si possa porre rimedio, non c’è caduta dalla quale non ci si possa rialzare. Non si viene al mondo per compatirsi, ma per puntare al meglio, lottando.
Non si viene al mondo nemmeno per odiare; dunque, non serve nutrire rancore per quelli che incolpiamo dei nostri mali; e nemmeno verso noi stessi, perché errare è umano e l’importante è imparare qualcosa dai propri sbagli.
E ciò vale anche per quella particolare bocciatura che è la delusione amorosa: bisogna imparare a perdonare agli altri ed anche a se stessi.
Non fare come Properzio che, disilluso dalla sua Cinzia, gode ad immaginarsela vecchia, brutta e ormai incapace di suscitare alcun desiderio nel cuore degli uomini (III, 25; trad. S. Guglielmino):

«Ma su te, Cinzia, possa la vecchiaia
pesar con gli anni che celar vorresti
e vengano le rughe a deturpare
la tua bellezza! Allora il desiderio
d’eliminare i tuoi capelli bianchi
di tormento ti sia, mentre lo specchio
ahi!, già le rughe ti rinfaccerà;
allora possa a tua volta subire
i rifiuti sprezzanti, ormai negletta,
e provare, sfiorita, quel che agli altri
provar facesti! Queste le fatali
pene che coi miei versi ti predico:
pensa che finirà la tua bellezza.»

Questo è precisamente l’atteggiamento che è sbagliato, distruttivo e controproducente assumere nei confronti della sconfitta: incolparne qualcuno e accarezzare sogni di vendetta.
Non è virile, se sei un uomo; non è degno, se sei una donna: in ogni caso, non serve a nulla. Serve solo a far del male a se stessi.
Allora: invece di colpevolizzare qualcuno, foss’anche te stesso, meglio, molto meglio è trarre un utile insegnamento dal proprio fallimento e ripartire con più slancio, con più decisione, ma soprattutto con più chiarezza interiore.
Questo è il punto fondamentale; è da qui che bisogna incominciare a ricostruire. Non si riparte veramente se non quando si è fatta chiarezza in se stessi; se non quando si impara, soffrendo sulla propria pelle, a non barare con se stessi.
La radice prima delle nostre future sconfitte è tutta qui: nella mancanza di onestà dello sguardo con cui ci guardiamo; così come il presupposto delle nostre vittorie è nella capacità di essere leali con la nostra parte più vera e profonda, senza trucco e senza inganno.
Caro studente, dovresti chiederti cosa vuoi fare nella vita: non intendo questa o quella professione, ma il senso profondo del vivere, la direzione in cui si vuole andare, la meta che ci si prefigge di raggiungere.
Vuoi giocare al ribasso, vuoi sfruttare gli altri (oggi i tuoi genitori, domani la società), cercando di ottenere molto più di quel che sei disposto a dare? Se è questo che vuoi, se è questa furbizia da quattro soldi che persegui, allora nessuna bocciatura potrà mai insegnarti nulla. E la legge fondamentale della vita è che, quando si è duri ad imparare, si ripetono sempre gli stessi errori e si va sempre incontro alle medesime delusioni.
In tutti i campi; compreso quello affettivo e sentimentale.
La vita è un’occasione preziosa di puntare al meglio, di giocare sempre al rialzo: dove la posta in gioco è il superamento di noi stessi, del nostro piccolo Io viziato e narcisista, e l’abbandono alla pienezza dell’Essere di cui siamo parte e in cui troviamo luce, verità e significato, così come ogni altra cosa esistente.
Per puntare al meglio, non si può giocare al risparmio; al contrario, bisogna impegnarsi al massimo, senza risparmio.
Ma non perché gli altri si aspettano che noi lo facciamo; bensì perché noi siamo divenuti consapevoli che tale è il nostro bene, tale il nostro vero interesse. Quando la posta è alta, sarebbe da sciocchi tirarsi indietro, centellinare l’impegno.
Quali sono le cose per le quali sei disposto ad impegnarti veramente, ad affrontare veglie e sacrifici? Non dirmi che sono  quelle di tipo materiale: perché si tratta di mezzi, non di fini. Il denaro, per esempio: serve per fare qualcosa, non è un fine in se stesso. A meno di cadere nella schiavitù di Mazzarò, il protagonista della novella verghiana «La roba»: vivere da povero, per non intaccare la propria smisurata ricchezza.
Noi tutti viviamo un po’ da poveri, nel senso che viviamo molto al di sotto delle nostre possibilità spirituali: non ci trattiamo bene, anche se non ci facciamo mancare nulla del superfluo; e questo perché non ci vogliamo bene.
Caro ragazzo, non prendere esempio dalla maggior parte degli adulti, che non si vogliono bene e vivono da poveri per quanto riguarda l’essenziale.
L’essenziale è capire che siamo qui per uno scopo, per rispondere a una chiamata.
Ogni essere umano è come un flauto: non gli vene chiesto altro che di tenere pulito lo strumento; ma la melodia divina che ne esce, viene modulata da un altro Suonatore.
Vuoi essere un flauto armonioso ed unire le tue note a quelle di tutto l’universo, o preferisci essere uno strumento scordato e dissonante, che si sforza invano di sopraffare la melodia cosmica?
Questa è la scelta.
È qui che non devi lasciarti bocciare, perché bocceresti te stesso.