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Il ruolo cruciale del petrolio

di Giacomo Gabellini - 12/09/2010


E' oramai arcinota anche ai non addetti ai lavori, la risibile importanza che il disgraziato zeitgeist odierno attribuisce allo studio della storia e alla contestualizzazione degli eventi passati dai quali sono scaturite le dinamiche regolatrici di questa caotica e incompresa contemporaneità.

Ciò è favorito non poco dall'italianissima mentalità inguaribilmente provinciale, svogliatamente disattenta alle questioni politiche e geopolitiche ma interessatissima a sapere cosa bolle in pentola in quel di Palazzo Grazioli o in altri mignottai consimili. E' ovvio quindi, alla luce di questa stagnazione paludosa, che una mentalità così retrograda e superficiale manchi degli strumenti necessari per oltrepassare la cortina superficiale alla ricerca, proprio come avrebbe fatto il vecchio Marx, degli interessi in gioco. Siccome l'ideologia gioca ancora la parte del leone nella nostra sciagurata nazione, una delle maggiori vittime della generale incomprensione più assoluta è il ruolo che gli idrocarburi giocano nella ridefinizione dell'attuale assetto geopolitico mondiale, inesorabilmente avviato verso il multipolarismo.

Ai fini di risvegliare dal profondo torpore in cui versano gli inguaribili romantici interessati solo ed esclusivamente a proclamare la propria "purezza", la propria estraneità al "male" (caratteristica tipica dei "sinistri" alla Sansonetti), risulterebbe, con ogni probabilità, piuttosto utile tagliare le forniture di gas destinato al riscaldamento domestico. Magari tutte queste anime belle comincerebbero a ragionare in termini un po’ più scevri dal morbo politicamente corretto, riuscendo forse a riconoscere l’importanza che spetta di diritto alle grandi questioni cruciali. Tuttavia, l'impraticabilità di questa strada costringe a cercare vie meno drastiche e pragmatiche. Facciamo allora un passo indietro, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Come è noto, la logica scaturita da Yalta decretò la formazione di due compagini opposte, una che raggruppava tutti i paesi facenti riferimento a Washington e l'altro i paesi comunisti che ruotavano attorno all'orbita di Mosca. Ancor prima di Yalta, i paesi ad economia capitalista avevano organizzato la Conferenza di Bretton Woods, al termine della quale sancirono la creazione del famigerato organo economico meglio noto come "Fondo Monetario Internazionale" (FMI), incaricato di valutare le eventuali variazioni che sarebbero andate ad alterare i tassi fissi di scambio tra le varie valute, tutte facenti riferimento al dollaro, scelto come valuta di riserva. I paesi firmatari degli accordi presi assegnarono agli Stati Uniti un ruolo nevralgico, che consentiva loro di mercanteggiare proficuamente la propria valuta, a garanzia che il tasso di cambio del dollaro rimanesse ancorato ai prezzi di mercato dell'oro, scongiurando così il fantasma della speculazione. Eventuali squilibri tra dollaro e oro avrebbero infatti portato i detentori di grosse quantità di liquidi a convertire i dollari in oro, che avrebbero poi rivenduto a prezzo maggiorato sul mercato, alimentando la classica "bolla" speculativa che sarebbe andata a inficiare il funzionamento dei meccanismi finanziari statunitensi.

Questo solido equilibrio si deteriorò negli anni a causa delle sciagurate guerre che alcuni inetti presidenti americani decisero di scatenare nell'Asia Orientale, che erosero gradualmente le riserve auree del tesoro fino al 1971, quando per la prima volta nel Novecento, l'ago della bilancia commerciale americana segnò il segno meno. Nel Ferragosto dello stesso anno il presidente Nixon eliminò l'ostacolo costituito dalla parità aurea con un vero colpo di spugna, sganciando definitivamente il dollaro dall'oro. Iniziava così l'era dei "petroldollari", decretata dagli Stati Uniti in combutta con il fido alleato Saudita, primo produttore mondiale di petrolio. Una volta rimpiazzato l'oro con il petrolio, la dipendenza di tutti i paesi consumatori dal dollaro si radicalizzò, data la vitale importanza della materia prima in questione per lo sviluppo economico. Solo due anni dopo il prezzo del petrolio crebbe però a livelli esorbitanti, fattore generalmente e altrettanto grossolanamente collegato a un evento ritenuto cruciale per gli equilibri economici mondali, ovvero la cosiddetta "Guerra del Kippur", che vedeva Israele fronteggiare gli eserciti di Siria ed Egitto. I paesi dell'OPEC, Arabia Saudita in primis, diedero l'impressione di compattarsi in chiave anti - israeliana, decretando addirittura l'embargo petrolifero nei confronti degli Stati Uniti, grandi sostenitori della causa israeliana, ma la compagnia americana "Arabian American Oil Company" ("Aramco") ebbe buon gioco ad aggirare l'embargo e a garantire i normali flussi di petrolio. E' ovvio, quindi, che le conseguenze dell'aumento del prezzo del petrolio debbano essere ricercate altrove.

In primo luogo, occorre sottolineare che nel 1967 la produzione petrolifera congiunta di Iraq, Iran e Kuwait aveva per la prima volta superato quella statunitense e che, parallelamente, la produzione petrolifera "Made in USA" aveva iniziato un lento ma inesorabile declino. Gli Stati Uniti furono quindi costretti a ricorrere maggiormente all'importazione petrolifera per far fronte alla crescente domanda interna, cosa che di per sé determinò una lievitazione piuttosto significativa del prezzo del petrolio. E' interessante notare che nel giugno 1972 la "Chase Manhattan Bank", istituto bancario in mano al gruppo Rockefeller e polo finanziario di riferimento delle "sette sorelle", redasse un documento in cui indicava apertamente la necessità di rivedere all'insù il prezzo del petrolio, pena la perdita dell'autonomia energetica statunitense. A fagiolo cadde la proposta, debitamente approvata dai paesi produttori, dello Shah di Persia Reza Pahlevi, uomo di Washington salito al potere dopo il rovesciamento di Mossadeq (reo di aver nazionalizzato la compagnia petrolifera iraniana), di quadruplicare il prezzo del petrolio. Questa misura garantiva infatti vantaggi ai paesi produttori che, alla faccia dell'ipocrita retorica sui "fratelli palestinesi", tolsero subito il già inutile embargo agli USA e indicizzarono immediatamente il prezzo del petrolio all'inflazionamento del dollaro. Dal canto loro, gli USA trassero enormi vantaggi da questa situazione, che consentiva alle compagnie petrolifere americane di mettere le mani su gran parte dei giacimenti dei paesi produttori e di decuplicare i propri guadagni, oltre che accrescere la domanda internazionale di dollari, direttamente proporzionale all'aumento del prezzo del petrolio. Molti paesi consumatori di petrolio si sono trovati talmente sommersi dai dollari americani, da non poter far altro che reinvestirne una buona parte proprio negli USA, esattamente come avviene al giorno d’oggi per quanto riguarda la Cina, che esporta merci in America a prezzi stracciati in cambio di dollari che utilizza poi per acquistare una miriade di titoli di stato statunitensi.

' forse superfluo sottolineare che qualora la Cina pretendesse di saldare i conti gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a dichiarare bancarotta e gran parte delle merci cinesi rimarrebbero senza acquirenti; questo i cinesi lo sanno e per ora tacciono, in attesa che i tempi siano maturi per assestare il colpo di coda. Si badi bene, in ogni caso, che i vantaggi garantiti dall'evidente squilibrio, lucidamente e deliberatamente creato da Nixon, sopra descritto, hanno fatto apparire il drastico calo di domanda di autovetture (come si comprenderà, strettamente legate ai prezzi dell'energia) e la conseguente crisi del settore automobilistico, sfociata con il licenziamento di otto milioni circa di lavoratori, mai interamente riassorbiti, e lo sfollamento di massa di alcune città come Detroit, come un semplice "effetto collaterale". Si tenga presente che la Guerra Fredda stava ancora infuriando e che, così facendo, gli Stati Uniti si erano premuniti di un'arma, quella petrolifera, che si sarebbe rivelata fondamentale per il crollo dell'Unione Sovietica. A metà degli anni Ottanta gli abili strateghi del Pentagono suggerirono a Ronald Reagan di mettere in moto i giacimenti petroliferi, dei quali, saggiamente, non era stata violata la "verginità", dell'Alaska e del Texas, in modo da inondare il mercato internazionale di petrolio e di farne crollare il prezzo. Siccome la tanto decantata ristrutturazione economica ("Perestroijka") promossa da Gorbaciov non aveva fatto altro che vincolare ancor di più l'economia dell'URSS alle esportazioni petrolifere, le casse sovietiche non ressero il colpo e arrivarono molto vicine alla bancarotta, che comunque non tardò a verificarsi.

In epoca di multipolarismo la risorsa petrolifera risulta ancor più importante, alla luce soprattutto del fatto che è in grado di garantire ai paesi una certa autonomia, bottino assai prelibato dei grandi agenti del capitale interessati a distruggerla previo inglobamento (magari ai saldi, come accadde in occasione della stagione di “Mani Pulite") di tutte le aziende strategiche pubbliche. Dovrebbe risultare (ma purtroppo non lo risulta affatto) chiaro, allora, che i vari Gheddafi e Putin rappresentano una grande occasione per l'Italia e per l'Europa, ma questo, i sedicenti “esperti” si guardano bene dal sottolinearlo. Nel frattempo, restiamo in attesa leggere qualche delucidazione in merito firmata da alcuni di loro: è probabile che attenderanno la prossima visita di Putin in Italia per presentarsi nei salotti tipo quello di Lucia Annunziata per rifilare la loro mercanzia editoriale politicamente corretta con cui santificare la figura di "filantropi" come George Soros o di alcuni "martiri della libertà" del tenore di Mikhail Khodorkovskij, vittima della cattiveria dello "Zar" che siede incresciosamente sul trono del Cremlino.