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L'India più remota dove l' uomo dialoga con l' ignoto

di Roberto Calasso - 14/10/2010


Né oggetti né immagini: la civiltà vedica lasciò solo parole

E rano esseri remoti, non solo dai moderni ma dai loro contemporanei antichi. Distanti non già come un' altra cultura, ma come un altro corpo celeste. Così distanti che il punto da cui vengono osservati diventa pressoché indifferente. Che ciò avvenga oggi o cento anni or sono, nulla di essenziale cambia. Per chi è nato in India alcune parole, alcuni gesti, alcuni oggetti potranno suonare più familiari, come un invincibile atavismo. Ma sono lembi dispersi di un sogno di cui si è annebbiata la vicenda. Incerti i luoghi e i tempi in cui vissero. I tempi: più di tremila anni or sono, ma le oscillazioni nelle date, fra uno studioso e l' altro, rimangono notevoli. L' area: il nord del subcontinente indiano, ma senza confini precisi. Non lasciarono oggetti né immagini. Lasciarono soltanto parole. Versi e formule che scandivano rituali. Meticolose trattazioni che descrivevano e spiegavano quegli stessi rituali. Al centro dei quali appariva una pianta inebriante, il soma, che ancora oggi non è stata identificata con sicurezza. Già allora ne parlavano come di una cosa del passato. Apparentemente non riuscivano più a trovarla. L' India vedica non ebbe una Semiramide né una Nefertiti. E neppure un Hammurabi o un Ramses II. Nessun De Mille è riuscito a metterla in scena. Fu la civiltà dove l' invisibile prevaleva sul visibile. Come poche altre, fu esposta a essere incompresa. Per capirla, è inutile ricorrere agli eventi, che non hanno lasciato tracce. Rimangono solo testi: il Veda, il Sapere. Composto di inni, invocazioni, scongiuri, in versi. Di formule e prescrizioni rituali, in prosa. I versi sono incastonati in momenti delle complicatissime azioni rituali. Le quali vanno dalla doppia libagione, agnihotra, che il capofamiglia è tenuto a compiere da solo, ogni giorno, per quasi tutta la vita, fino al sacrificio più imponente - il «sacrificio del cavallo», ashvamedha -, che implica la partecipazione di centinaia e centinaia di uomini e animali. Gli Arya («i nobili», così gli uomini vedici chiamavano se stessi) ignorarono la storia con una insolenza che non ha uguali nelle vicende di altre grandi civiltà. Dei loro re conosciamo i nomi soltanto attraverso accenni nel Rigveda e aneddoti narrati nei Brahmana e nelle Upanishad. Non si preoccuparono di lasciare memoria delle loro conquiste. E anche negli episodi di cui è giunta notizia non si tratta tanto di imprese - belliche o amministrative -, ma di conoscenza. Se parlavano di «atti», pensavano soprattutto ad atti rituali. Non meraviglia che non abbiano fondato - né abbiano mai tentato di fondare - un impero. Preferirono pensare qual è l' essenza della sovranità. La trovarono nella sua duplicità, nel suo spartirsi fra brahmani e kshatriya, fra sacerdoti e guerrieri, auctoritas e potestas. Sono le due chiavi, senza le quali nulla si apre, su nulla si regna. Tutta la storia può essere considerata sotto l' angolo dei loro rapporti, che incessantemente mutano, si aggiustano, si occultano - nelle aquile bicipiti, nelle chiavi di san Pietro. C' è sempre una tensione, che oscilla fra l' armonia e il conflitto mortale. Su quella diarchia e sulle sue inesauribili conseguenze la civiltà vedica si è concentrata con la più alta e sottile chiaroveggenza. Il culto era affidato ai brahmani. Il governo agli kshatriya. Su questo fondamento si erigeva il resto. Ma, come tutto ciò che accadeva sulla terra, anche quel rapporto aveva il suo modello in cielo. Anche lì c' erano un re e un sacerdote: Indra era il re, Brihaspati il brahmano dei Deva, il cappellano degli dèi. E solo l' alleanza fra Indra e Brihaspati poteva garantire la vita sulla terra. Però fra i due si interponeva subito un terzo personaggio: Soma, l' oggetto del desiderio. Un altro re e un succo inebriante. Che si sarebbe comportato in modo irrispettoso ed elusivo verso i due rappresentanti della sovranità. Indra, che si era battuto per conquistare il soma, alla fine ne sarebbe stato escluso dagli stessi dèi a cui lo aveva donato. E Brihaspati, l' inavvicinabile brahmano dalla voce di tuono, «nato nella nuvola»? Il re Soma, «tracotante per la eminente sovranità che aveva raggiunto», rapì sua moglie Tara e si congiunse con lei, che dal suo seme generò Budha. Quando il figlio nacque, lo depose su un letto di erba munja. Brahma allora chiese a Tara (e fu l' acme della vergogna): «Figlia mia, dimmi, questo è il figlio di Brihaspati o di Soma?». Allora Tara dovette riconoscere che era figlio del re Soma, altrimenti nessuna donna sarebbe stata creduta in futuro (ma qualche ripercussione della vicenda continuò a trasmettersi, di eone in eone). E ci fu bisogno di una feroce guerra fra i Deva e gli Asura, gli antidèi, perché Soma si convincesse alla fine a restituire Tara a Brihaspati. Dice il Rigveda: «Tremenda è la moglie del brahmano, se viene rapita; ciò crea disordine nel cielo supremo». Tanto doveva bastare per gli improvvidi umani, che talvolta si domandavano perché e intorno a che cosa si battessero i Deva con gli Asura nel cielo, in quelle loro sempre rinnovate battaglie. Ora lo avrebbero saputo: per una donna. Per la donna più pericolosa: per la moglie del primo fra i brahmani. Non c' erano templi, né santuari, né mura. C' erano re, ma senza regni dai confini tracciati e sicuri. Si muovevano periodicamente su carri con ruote provviste di raggi. Quelle ruote furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide, lente. Appena si fermavano, si curavano soprattutto di installare fuochi e accenderli. Tre fuochi, di cui uno circolare, uno quadrato e uno a forma di mezzaluna. Sapevano cuocere i mattoni, ma li usavano soltanto per costruire l' altare che stava al centro di un loro rito. Aveva la forma di un uccello - un falco o un' aquila - dalle ali spiegate. Lo chiamavano l' «altare del fuoco». Passavano la maggior parte del tempo in una radura sgombra, in lieve pendio, dove si affaccendavano attorno ai fuochi mormorando formule e cantando frammenti di inni. Era un assetto di vita impenetrabile se non dopo un lungo addestramento. La loro mente pullulava di immagini. Forse anche per questo non si curarono di intagliare o scolpire figure degli dèi. Come se, essendone già attorniati, non sentissero il bisogno di aggiungerne altre. Quando gli uomini del Veda scesero nel Saptasindhu, nella Terra dei Sette Fiumi, e poi nella pianura del Gange, il territorio era in gran parte coperto da foreste. Si aprirono la via con il fuoco, che era un dio: Agni. Lasciarono che disegnasse una ragnatela di cicatrici. Vivevano in villaggi provvisori, in capanne su pilastri, con muri di giunchi e tetti di paglia. Seguivano gli armenti, spostandosi sempre più verso est. Talvolta arrestandosi davanti a immense masse d' acqua. Fu quella l' epoca aurea dei ritualisti. Allora, a qualche distanza dai villaggi e a qualche distanza gli uni dagli altri, si potevano osservare gruppi di uomini - una ventina ogni volta - che si muovevano su spazi brulli, intorno a fuochi perennemente accesi, vicino a qualche capanno. Da lontano, si udiva un brusio solcato da canti. Ogni dettaglio della vita e della morte era in gioco, in quell' andirivieni di uomini assorti. Ma non si poteva pretendere che ciò apparisse evidente agli occhi di uno straniero. Ben poco di tangibile rimane dell' epoca vedica. Non sussistono edifici, né monconi di edifici, né simulacri. Al più, qualche frusto reperto nelle teche di alcuni musei. Edificarono un Partenone di parole: la lingua sanscrita, poiché samskrita significa «perfetto». Così disse Daumal. Qual era il motivo profondo per cui non vollero lasciare tracce? Il solito supponente evemerismo occidentale subito si appellerebbe alla deperibilità dei materiali in clima tropicale. Ma la ragione era un' altra - e i ritualisti vi accennarono. Se l' unico evento imprescindibile è il sacrificio, che fare di Agni, dell' altare del fuoco, una volta concluso il sacrificio? Risposero: «Dopo il completamento del sacrificio, esso ascende ed entra in quello splendente (sole). Perciò non ci si deve preoccupare se Agni viene distrutto, perché allora egli è in quel disco laggiù». Ogni costruzione è provvisoria, incluso l' altare del fuoco. Non è qualcosa di fermo, ma un veicolo. Una volta compiuto il viaggio, il veicolo può anche essere fatto a pezzi. Perciò i ritualisti vedici non elaborarono l' idea del tempio. Se tanta cura veniva dedicata a costruire un uccello, era perché potesse volare. Ciò che a quel punto rimaneva sulla terra era un involucro di polvere, fango secco e mattoni, inerte. Lo si poteva abbandonare, come una carcassa. Presto la vegetazione lo avrebbe ricoperto. Intanto, Agni era nel sole.