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Maniaci e social network

di Diego Barsotti - 19/10/2010


 

E' più da ‘maniaci' (per utilizzare il termine scelto da Repubblica in prima pagina), stare quasi 7 ore al mese su Facebook, oppure starne molte di più incollati alla televisione a seguire reality tv e fiction intrise di sangue e morbosità in contesti scintillanti di lusso e ricchezza? E ancora, sono ‘maniaci' gli italiani assetati di tragedie magari torbide che si accalcano oggi intorno ad Avetrana e ieri a L'Aquila o a Cogne, oppure i maniaci sono solo i giornalisti che fomentano la depravazione di entrare nelle tragedie e perversioni altrui?

Il link comune è la qualità dell'informazione oggi (compresa quella ambientale), e ancor prima la qualità della cultura nella società di oggi. E sarebbe davvero miope voler circoscrivere il tema solo all'Italia ponendo invece sull'altare gli altri grandi Paesi europei, dove comunque ancora oggi si fa la fila per soffermarsi nel tunnel dove è morta lady Diana e si scattano foto ricordo davanti alle case dei "mostri della porta accanto" di turno.  

Può darsi che appaia troppo semplicistico e logico spiegare che i giornali rispondono alle regole della domanda e dell'offerta e quindi pubblicano e insistono su quelle ‘storie' che permettono loro di vendere più copie. O che si pensa che possano contribuire a farlo.

Certo la deontologia professionale del giornalista potrebbe essere molto più attesa, ma è anche vero che il giornalista risponde del suo operato e dei suoi risultati a un editore, e l'editore di solito ha come obiettivo quello del profitto (a meno che non via siano obiettivi politici diversi, e qui potremmo ovviamente perdere il carattere ad analizzare la strategia editoriale di alcuni prodotti dell'informazione nostrana, come Il Giornale) .

Ecco perché ci troviamo di fronte a un problema culturale, ben più preoccupante rispetto a quanto sarebbe stato quello di un'informazione malata punto e basta. Ed è in questo contesto che si è inserita in modo violento e turbinoso l'ondata dei nuovi media digitali, dove pure è possibile fare delle distinzioni. Il tanto bistrattato Facebook, che utilizziamo qui in modo sineddotico a rappresentare tutti i social network, ha per esempio alcune positività innegabili. Se escludiamo tutte le applicazioni (che pure rappresentano il motore per cui sta in piedi, attraverso le profilazioni degli utenti e le sponsorizzazioni) Facebook lascia all'individuo un ampio margine di discrezionalità per decidere per esempio se una notizia la ritiene meritoria di essere condivisa e quindi rilanciata ai suoi amici, o meno. Applicato a greenreport per esempio significa che quando i visitatori arrivano da questo social network,  nel bene o nel male quelle persone hanno deciso che quell'articolo meritava di essere letto. Di contro quelli che invece arrivano da google news, non hanno deciso: se lo sono trovato spiattellato in bella evidenza da un algoritmo matematico che ha scelto per loro sulla base di modelli matematici che nulla hanno a che vedere col contenuto, quale di mille articoli simili dovesse comparire in quel momento in quel computer.

Allora i problemi casomai sono altri: dare intanto all'individuo di oggi sempre più socialnetworkizzato la capacità di discernere l'informazione di qualità da quella superficiale e colposa (quando va bene) o addirittura dolosa (quando va male). E dargli la consapevolezza che la cerchia di amici con cui si confronterà non sarà comunque mai rappresentativa del mondo e che riflettere e condividere le idee nella propria tribù per quanto allargata che sia, resterà un esercizio abbastanza sterile, buono per mettere a posto la propria coscienza e poco di più.