Gli Usa sono un impero?
di Massimo Janigro - 30/10/2010
Viviamo oggi in un ordine imperiale? È ragionevole ed opportuno ricorrere alla categoria di impero anche se ciò comporta uno stravolgimento del suo senso? In che sistema-mondo viviamo? Diversi ed importanti, talvolta anche angoscianti, sono gli interrogativi che suscita l’attuale condizione globale, a causa della perdita di punti di riferimento.
Ci troviamo sicuramente in anni decisivi, in giorni mutevoli. Stiamo assistendo ad un riassestamento dell’ordine internazionale, gli attentati terribili, coreograficamente perfetti, dell’11 settembre 2001, hanno riaperto questioni che sembravano chiuse. Hanno portato la brutalità nel cuore dell’Occidente ed hanno alimentato numerosi interrogativi sul corso delle cose. Insieme al ‘siamo tutti americani’, la parola d’ordine circolata su giornali e televisioni di tutto il mondo è stata allora: ‘nulla sarà più come prima’. E mentre le immagini degli attentati facevano simultaneamente il giro del globo (la globalizzazione è anche, o forse soprattutto, condivisione immediata di notizie ed esperienze), le reazioni non tardavano ad arrivare: una parte della popolazione mondiale piangeva, un’altra non si disperava. Eppure gli attentati non portarono effettivamente a nulla, non ‘significa[ro]no nulla’ , non raggiunsero alcun risultato politico, pur essendo un atto politico; nulla al di là della dimostrazione, nulla al di là della paura, dell’immensa paura che fecero scaturire negli Stati Uniti e nell’Occidente tutto.
E con l’11 settembre 2001 “si chiude la belle epoque della globalizzazione […] il sogno di una via tecnico-amministrativa al benessere universale, di una “mobilitazione” semiautomatica di tutte le coscienze e di tutte le culture verso i vittoriosi modelli dell’Occidente” . Si apre così l’epoca dell’incertezza, della paura e del disincanto verso le parole d’ordine utilizzate per comprendere il ‘mondo di prima’. Questo disincanto, proprio di un pensare orfano della certezza tecnica, che finora lo aveva cullato, non può che chiedere una cosa: il ritorno della politica. L’esonero che la tecnica globalmente intesa aveva imposto alla politica, ha infatti mostrato tutti i suoi limiti.
C’era la convinzione che alla base della ‘globalizzazione’ ci fossero leggi ‘vere’, indiscutibili, che l’economia, guidata dall’ennesima ‘mano invisibile’ di smithiana memoria avrebbe di per se stessa portato ordine e prosperità. C’era immensa fiducia nella tecno-scienza applicata, quanta era la sfiducia riservata alla politica classicamente intesa, alla politica come scienza umana e proprio per questo fallibile, superata, obsoleta. Ed invece l’11 settembre ha ‘svelato’ (perché effettivamente non ha cambiato nulla) una situazione differente da quella che ci appariva. Ci ha mostrato il ‘Re nudo’.
Ed il Re è nudo in un ordine internazionale che all’11 settembre non aveva ancora metabolizzato la caduta del blocco imperiale sovietico, che non si era ancora dispiegato, ben nascosto dietro l’illusione della ‘globalizzazione’ buona e giusta, coacervo di libero mercato, tecnologia e belle speranze. Il Re è nudo quando milioni di persone ‘dimenticate’ dal progresso globale festeggiano alla vista dell’immane tragedia americana e quando gli americani, scossi ed increduli si chiedono: “ma perché ci odiano?”
Dietro la decantata ‘globalizzazione’ si nascondevano quindi tutta una serie di contraddizioni, più o meno gravi: in sostanza il mondo non era quello che appariva su giornali e televisioni, non era quello che vedevamo. L’11 settembre è stato un giorno di svolta, di cesura storica proprio perché ci ha presentato la realtà per come effettivamente era ed è, con tutte le sue ingiustizie, con tutti i suoi conflitti aperti, con tutte le sue grandi (ed ovvie) diversità. E soprattutto con tutta la sua carenza di politica. In quale mondo viviamo allora?
Tutta questa situazione di ansia, insicurezza e paura ha portato ad un’estenuante ricerca di definizioni che fossero sufficienti a spiegare la situazione contemporanea; via allora ad una sterminata pubblicistica che si è trovata ad indagare i più diversi aspetti dell’attualità, includendo spesso impropriamente filosofia e psicologia d’accatto; via ad un’indagine storica di circostanza, allo studio della geopolitica, alla riscoperta dei testi sacri, allo studio delle religioni ed in particolare dell’Islam (con mille fraintendimenti, voluti o meno) e soprattutto via alle teorie storico-apocalittiche più strane e, al tempo stesso, inevitabilmente semplicistiche. Tra queste quella dello ‘scontro di civiltà’, scenario già preconizzato da Samuel Huntington in un articolo del 1993 e sviluppato successivamente nel libro del 1996 , oggi recuperato e divenuto un ‘must’ per chiunque voglia occuparsi di politica internazionale e geopolitica. ‘Scontro di civiltà’ lo abbiamo sentito dire inizialmente dall’establishment statunitense, da politici locali in tutto il mondo o quasi e soprattutto lo abbiamo letto e sentito, fino alla noia, su giornali e televisioni. Probabilmente non si è trattato solo della solita semplificazione giornalistica, bensì di una parola d’ordine utilizzata ad arte per creare consenso e spirito partigiano, laddove tutta la campagna propagandistica in sostegno a quella militare statunitense si basava su di una rozza, ma efficace dicotomia bene/male, che riprendeva la famosa categorizzazione schmittiana amico/nemico.
In tutto questo florilegio di notizie (si parla, a ragione, di ‘bombardamento mediatico’), di approfondimenti, di opinioni gettate al vento, di toni esacerbati si è spesso, spessissimo, perso il senso delle parole. Si ripete che in tutte le guerre la prima vittima sia la verità, ma ad essere sacrificato, in queste circostanze, è anche il significato delle espressioni abusate. Così formule quali ‘scontro di civiltà’, ‘stati canaglia’, ‘diritti umani’, se non anche ‘siamo tutti americani’ o ‘nulla sarà più come prima’, ripetute ossessivamente in ogni dove, sono rimaste mero significante, perdendo il loro significato. E tra le tante parole inflazionate del vocabolario ‘desueto’ (Ulrich Beck parla di concetti-zombie ) che è stato adoperato per interpretare il momento, sicuramente non è mancato il concetto di ‘impero’.
L’abuso del termine ‘impero’ è dovuto dal fatto che il ruolo che gli Stati Uniti hanno assunto nel tempo (dalla Seconda Guerra Mondiale ed ancor di più dopo l’ottantanove), storicamente inedito, ha destato curiosità e paragoni storici di vario genere. L’accostamento con l’Impero Romano è stato ed è tutt’ora ricorrente. Probabilmente per pigrizia intellettuale, mancanza di inventiva, non si è trovato un termine che fosse più calzante rispetto al ruolo che gli Stati Uniti, potenza sui generis del secolo scorso e dell’inizio di questo, hanno. Così, sia sostenitori che detrattori della potenza nordamericana, hanno di volta in volta adoperato la formula ‘impero’.
Altisonante, maestosa, la parola ‘impero’ rimanda immediatamente a qualcosa di grande, di importante; fa pensare ad un potere ‘illimitato’, imposto, arbitrario e ad una forte proiezione verso l’esterno, verso stati e territori altri. Il concetto di ‘impero’ è non a caso associato alla pratica di una politica espansionistica, imperialista appunto. E imperialisti sono apparsi gli Stati Uniti, sin dalla loro origine. Hanno negli anni condotto guerre, assunto ed esercitato potere, modellato il mondo circostante, sono stati paese determinante, hanno spesso, se non sempre, detto l’ultima parola su questioni di politica internazionale che riguardavano l’intero universo di stati, hanno rappresentato, in due guerre mondiali e nel loro seguito politico, il ‘bene’, ma soprattutto hanno ricoperto il ruolo della ‘nazione indispensabile’.
Alla base di questa determinazione politica vi è, particolarmente in tempi più recenti, una chiara ispirazione religiosa, fortemente influenzata dal proliferare di correnti cristiano-millenariste, che vede negli Stati Uniti la ‘nazione redentrice’, concezione che ben si collega all’idea del ‘destino manifesto’, formula messianica che da sempre guida le ambizioni politiche statunitensi.
Ma una politica imperialista non fa, di per sé, un ‘impero’. Per essere ‘impero’ occorrono innanzitutto volontà e consapevolezza, progettualità e lungimiranza, ispirazione e determinazione, decisione e senso di responsabilità. Non si può essere imperi “per caso” e non lo si può essere stentatamente o parzialmente, a giorni alterni. Dopo l’11 settembre la vigorosa e ‘muscolosa’ reazione statunitense ha ampiamente fatto pensare ad uno stato che si faceva impero. L’imporre condizioni al mondo, il non rispettare vincoli internazionali, il non sottostare al giudizio di alcuno hanno dato l’impressione di una volontà propriamente imperiale. In sostanza l’unipolarismo apparso spesso arrogante, il fare e disfare alleanze alla bisogna, il ricorrere alla nuova guerra ‘preventiva’ estranea ai canoni del diritto internazionale, il comportamento deciso e ‘menefreghista’ tipico di chi non deve rendere conto ad altri e neppure alle regole internazionali, tanto da far parlare degli USA come di una ‘potenza revisionista’, hanno fatto gridare alla presenza di un nascente impero. E poi l’onnipresenza, l’influenza globale, l’essere culturalmente modello egemone: tutto questo facilita il paragone al modello imperiale. Non bastano però queste caratteristiche per creare un ordine imperiale, non basta avere l’arroganza del manzoniano Innominato . Ci vuole ben altro, ci vuole la responsabilità che troppo spesso gli Usa sembrano restii ad assumersi.
Tuttavia la categoria di impero merita un’ampia riflessione. Per molti aspetti gli Stati Uniti potrebbero essere un impero, è una suggestione da comprendere e verificare, soprattutto in vista dei cambiamenti che già da prima del fatidico 2001 si stanno delineando. Questi cambiamenti coinvolgono molteplici aspetti del vivere comune e, naturalmente, il potere con le sue forme: il sistema postecumene di Westfalia (1648), imperniato sulla sovranità inviolabile degli stati, ha retto fino al decennio passato ed è ora in evidente declino. Irrealistico pensare ad una prossima e totale dissoluzione dello stato come soggetto politico-amministrativo (lo stato svolge ancora troppe funzioni importanti, prima fra tutti quella di controllo dell’ordine pubblico), naturale prevedere, invece, la continua erosione della sovranità nella sua concezione classica.
Ma se “la fine del modello ‘Westfalia’ si manifesta innanzitutto nello scompaginamento di un ordine, di una forma storica specifica delle relazioni internazionali” a questo scompaginamento non segue, o almeno non sembra seguire, un ordine che possa subentrare, una forma storicamente determinata che dia chiarezza al sistema delle relazioni internazionali.
Perché lo stato, centro del sistema di ‘Westfalia’ non ha subito solo un’erosione esterna da forze sovranazionali (di vario genere e carattere), ma anche un’erosione interna che si è chiamata di volta in volta ‘autonomia locale’, ‘regionalismo’, ‘devolution’. Simmetricamente, al processo di ‘globalizzazione’ ha una contropartita di ‘localizzazione’, come riscoperta delle ‘piccole patrie’, delle tradizioni locali, come voglia di autodeterminarsi in piccoli spazi. Ma come nota G. Marramao, il sentimento ‘glocale’ non rappresenta la resistenza di antiche tradizioni al ‘globale’, “bensì è una vera e propria produzione di località” , una creazione di miti, simboli, tradizioni che nascono da una voglia di comunità, voglia prettamente moderna, frutto del ‘globale’ stesso. Lo stato quindi è doppiamente svuotato della sua sovranità: e dall’esterno, dal potere sovranazionale, e dall’interno dall’esigenza, tutta nuova, di ‘località’.
È lo stato che rimane in bilico tra la ‘morte’, la mera sopravvivenza od un nuovo ruolo ancora da scoprire , il tutto conseguenza di un diverso rapporto tra uomo-spazio-luogo. Del resto la ‘globalizzazione’ è “essenzialmente sconfinamento, sfondamento dei confini, deformazione di geometrie politiche” ed anche “uccisione della distanza” e “emancipazione dello spazio dal luogo” e lo stato che ha rappresentato il ‘luogo’ per definizione della politica, non può che subirne le logiche conseguenze ed essere rimesso in discussione. Ogni dimensione del vecchio ordine politico nazionale ed internazionale è quindi in bilico, in feroce cambiamento, in crisi. È proprio il frammentarsi della sovranità, l’intrecciarsi di diversi poteri che non hanno una scala gerarchica, l’affacciarsi sulla scena internazionale di una pluralità di soggetti, di carattere pubblico e privato, economico e politico che hanno fatto ricomparire la categoria di ‘impero’. “La sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo impero” sostengono Hardt e Negri nel loro libro Impero, indagine storico-filosofica sul potere e sulle sue forme.
A questo lavoro è toccato di riattualizzare ha avuto il ruolo di riattualizzare la nozione ‘impero’, pur proponendolo in una forma differente da quella comunemente intesa, e di riaprire la discussione sull’attualità di questo concetto, sulla pertinenza del suo uso contemporaneo, estendendola anche ad una serie di significati e concezioni differenti rispetto a quelli espressi ed indagati nel testo stesso. Una riattualizzazione che ha spianato la strada al termine ‘impero’ già prima dell’11 settembre (l’opera è del 2000), che ha riproposto questa ‘vecchia’ categoria per interpretare un inedito presente.
‘Impero’ quindi preconizzabile nel ‘nuovo ordine mondiale’ con la presenza di uno stato egemone che esercita un potere imperiale, attuando una politica di potenza ed imponendo un sistema ‘unipolare’ agli altri stati. Ed ‘impero’ preconizzabile anche nel ‘nuovo ordine della globalizzazione’, in un sistema che non ha un centro od uno stato egemone, ma che è apolide, ubiquitario, liquido, fatto di reti che si intrecciano, in un mondo che non conosce più alcun rapporto di centro/periferia o interno/esterno, ma che chiama ‘luoghi’ i suoi punti sulla rete, al tempo stesso propaggini ed alimentatori del sistema stesso di potere. Sicuramente le due definizioni non si escludono tra loro.
La sfida di un ipotetico impero che si manifestasse sarebbe proprio questa: esercitare, da un lato, la capacità geopolitica di controllare lo spazio che rientra nella sua area di egemonia militare, spendere le proprie capacità economiche e, dall’altro lato, dovrebbe essere capace di ‘dare una forma’ politica ad uno stato di forze ‘liquido’ e all’apparenza ingovernabile, in quanto impolitico; dovrebbe essere capace di farsi vettore delle forze denominate ‘globalizzazione’ che caratterizzano questo periodo storico e far sì che esse diventino motore dell’impero, così permettendo la diffusione di un modello culturale ‘universalista’. Si tratterebbe insomma di saper utilizzare e gestire, a fini di dominio, quelle forme di potere economiche, finanziarie, tecnologiche, che sfuggono agli stati e che ne stanno decretando la parziale inutilità e quindi il declino. Solo una forma politica che sappia rispondere a questa serie di ‘sfide’ e risolverle politicamente potrebbe essere definita ‘Impero’.
Note:
1 Galli,C., Guerra senza spazio, “Micromega”, 5, 2001, p. 94.
2 Cacciari, M., Digressione su impero e tre Rome, “Micromega”, 5, 2001, p. 58.
3 Huntington, S.P., The clash of civilizations and the remaking of world order,1996; tr.it. Lo scontro delle civiltà ed il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997.
4 Beck U., Terrorismo e guerre del ventunesimo secolo , “la Repubblica”, 28 novembre 2001, p.17.
Alessandro Manzoni descrive così il suo personaggio: “Fare ciò che era vietato delle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare: essere temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’erano soliti averla dagli altri”. Ed ancora riferendosi al suo sistema di amicizie: “non già amici del pari, ma come soltanto potevano piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra”, Manzoni, A., I promessi sposi, Capitolo XIX, vv 285-290 e vv 295-297.
6 La dimostrazione che la sovranità non era più il pilastro dell’ordine internazionale si è avuta chiaramente con la guerra del Kosovo del 1999, occasione in cui gli Stati Uniti hanno affermato il proprio diritto a superare le sovranità nazionale in nome dei ‘diritti dell’uomo’.
7 Marramao, G., Passaggio ad Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 45.
8 Marramao, G., op.cit., p. 39.
9 “La decadenza degli Stati è così deterministicamente descrivibile, come il rotolare di un grave lungo un piano inclinato, oppure lo Stato potrebbe ancora valere come centro di decisione nei processi di globalizzazione?” si chiede Massimo Cacciari in op.cit., p. 44.
10 Galli, C., Spazi politici, Il Mulino, Bologna 2001, p. 133.
11 Beck,U., Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma 1999, p. 39.
12 Giddens, A., Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 29.
13 Hardt M.- Negri A., Empire, 2000; tr.it., Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 14.
Tratto dalla postfazione a: